Le mosse del dragone
Cina e Russia: Vicine per forza anche in tempo di guerra

Considerazioni economiche e “geografiche” sui rapporti tra Cina e Russia insieme con Alessia Amighini, docente universitaria di politica economica e analista dell’ISPI, l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale.
Con uno sguardo all’Europa che “tentenna” e fugge da molte responsabilità non solo di politica economica o finanziaria. Fino a chiedere che sia Pechino a risolvere per via diplomatica il conflitto con l’Ucraina. Spunti di conoscenza per rimettersi sulla retta via (non necessariamente della seta). E con l’Italia che potrebbe (perché no) guardare anche altrove…


22 aprile 2022
a cura di Nicola Varcasia

La vastità dell’argomento è seconda solo ai territori di cui vogliamo parlare.
Anche per questo, Alessia Amighini invita sempre a partire dalla geografia quando si parla di Cina, Russia e non solo: «Guardare la cartina geografica – intendo quella fisica – quasi sempre aiuta a scoprire cause non secondarie di alcune scelte strategiche».
Prima, però, la professoressa Amighini, co-Head of Asia Centre and Associate Senior Research Fellow presso ISPI – Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, invita a sgombrare il campo da alcune ingenuità o finte ingenuità in merito alla posizione che la Cina sta tenendo rispetto alla guerra in Ucraina:
«Chiedere alla Cina di allontanarsi dalla Russia, lasciandosi alle spalle gli ultimi decenni di enormi investimenti e relazioni – parlo da economista, non da esperta sulle logiche delle relazioni politiche internazionali – è come se l’Europa chiedesse agli Stati Uniti di tagliare col Canada.
Non capisco se è un tentativo di alzare il linguaggio in modo provocatorio, oppure se è un’ingenuità vera e propria. Lo trovo inutile, ma anche controproducente. Così facciamo capire ai cinesi che non abbiamo capito niente – cosa che peraltro pensano già, perché ce lo dicono – oppure che vogliamo forzare la mano, il che è ancora peggio. È tutto un po’ superficiale, peraltro di nessun aiuto di fronte al dramma che stiamo vivendo».

Putin, amico scomodo

Meglio allora provare a capire come questo conflitto si innesti nella storia recente dei rapporti tra i due Paesi:
«Prima del 2014, la Cina aveva già iniziato a pensare a uno sviluppo verso Occidente, in quanto consapevole di essere molto sbilanciata a Oriente. Ma, lungo quella direttrice, ovunque la Cina voglia andare, trova la Russia. Perciò aveva un bisogno oggettivo di rinsaldare dei rapporti ragionevoli di buon vicinato che le permettessero di operare senza troppi problemi per un tipo di sviluppo economico di routine, piuttosto standard, come costruire ferrovie e simili».

Ma un conto sono i rapporti di buon vicinato, un conto è l’amicizia:
«È noto che Pechino chiuda sempre tutti e due gli occhi quando deve instaurare rapporti bilaterali con un Paese, non guarda le faccende interne, siamo di fronte a un governo e a un partito molto pragmatici. Ma non c’è dubbio che Pechino avesse remore sul fatto che la Russia di Putin fosse un amico un po’ scomodo».
In passato le cose sono andate diversamente:
«A Mosca i cinesi non sono mai piaciuti. Fino agli anni Sessanta, la Russia forniva a Pechino tutta la tecnologia di base, sono gli ingegneri Russi ad aver messo in piedi la Cina. Poi c’è stata la fase del litigio, anche se i cinesi hanno mantenuto una specie di “adorazione”, forse per memoria, nonostante adesso siano superiori. Non sulla tecnologia militare, però, dove a mio parere entrambi stanno gonfiando le proprie possibilità».
Se però ci chiediamo perché la Cina abbia cominciato a espandersi verso Occidente, conviene allora rifarsi alla geografia prima che alla dietrologia:
«La Belt and Road nasce da una motivazione, in primis interna, di spostare il proprio baricentro equilibrandolo da Est a Ovest, verso le città di Chongqing e Chengdu, agganciando cioè le regioni Occidentali, che erano delle lande desolate. Non si cita mai questo fatto forse perché sembra troppo prosaico. Ma, andare da Chongqing o Chengdu a Shanghai, è impossibile, non ci sono i collegamenti se non aerei e occorrono cifre spropositate per trasportare le merci, con tempi di percorrenza lunghissimi. C’è un limite nella geomorfologia del Paese che nemmeno i cinesi, con la loro bravura, possono modificare».

I copiosi investimenti di Pechino in Ucraina

Di collegamento in collegamento il tutto poi è diventato anche Belt and Road, sintetizza Amighini con il chiaro intento di semplificare ma, l’idea di connettere l’Asia Centrale era già cominciata, anche perché proprio l’Asia Centrale si configurava come la nuova area emergente del mondo:
«Per questo i cinesi hanno investito molto nei Paesi dello STAN, ricchi di materie prime che esportano già quasi completamente verso di loro. La Russia era concorrente nell’area, e lo è ancora, ma Putin, che è legato a doppio filo con Xi Jimping, con questa invasione si è giocato la reputazione e poi non sappiamo in che condizioni verserà la “sua” Russia, con la forte probabilità di essere assorbita dalla Cina».
Cina, prosegue Amighini, che è dieci volte la Russia la quale, senza ironie, si può definire come un Paese «ancorato a una logica di tipoottocentesco, legata alla conquista dei territori».
Mentre gli altri Paesi si sono evoluti, cominciando a guardare alla ricchezza del Pil, Putin e la Russia sono rimasti al territorio fisico che dà ricchezza con gli sbocchi al mare o le risorse naturali:
«Non hanno un’economia moderna, mentre la Cina è proiettata nel futuro del ventunesimo secolo, in cui noi non siamo ancora bene entrati».

Già, noi. Ma prima di spostarci a casa nostra, seguendo la cartina, verso l’Ue, ci domandiamo quali siano gli interessi cinesi in Ucraina:
«Negli anni precedenti all’invasione, la Cina ha investito moltissimo in Ucraina su vari fronti, sia in termini di impegno di capitali, sia di sforzo di relazioni bilaterali molto fitte». È dunque un Paese cruciale anche per l’economia cinese: «Le rotte meridionali di trasporto passano da lì, è un punto di passaggio importante».
Senza contare che l’Ucraina ha un accordo dal 2016 di libero scambio con l’UE, a cui la Cina è molto interessata:
«Anche perché sa bene che con l’UE un accordo di libero scambio probabilmente non l’avrà mai e quindi ha bisogno di ponti. Un problema che si è acuito dopo la Brexit, da cui la Cina non si è ancora del tutto ripresa, in quanto il Regno Unito era il punto di ingresso dei capitali cinesi. In questa prospettiva la Cina non ha l’interesse specifico a che l’Ucraina entri nell’UE, perché dovrebbe assumere la posizione media europea sulle principali questioni economiche».

La valuta digitale cinese
Arriviamo così all’Europa, che Amighini intende commentare dal punto di vista della Belt and road Initiative – BRI 2.0, che è al centro di parte dei suoi nuovi studi:
«La Cina è proiettata nel digitale mentre noi continuiamo a pensare, ne abbiamo paura. Abbiamo voluto vedere solo i porti e le ferrovie che, però, sono la punta dell’iceberg. La nuova via della seta è stata fin dall’inizio digitale, che non ha confini, nella finanza, nella logistica e nella comunicazione».
Ma perché tentenniamo?
«Perché abbiamo paura: il mondo digitale è molto centralizzato. Sappiamo bene che l’idea di Internet come conoscenza diffusa e democratica non è stata una previsione proprio centrata. A differenza nostra, però, i cinesi vogliono centralizzare tutto, informazioni, conoscenza e controllo».
Un esempio in questo campo riguarda l’introduzione della valuta sovrana digitale che, secondo Amighini è un ingrediente importantissimo del disegno cinese:
«BCE e FED se ne sono occupate ben prima della banca centrale cinese. Ma sono state prudenti, anche con motivi validi. Sia perché, come sistema, non ne intravedevano un grande e immediato bisogno, sebbene sembri abbastanza chiaro che prima o poi ci si dovrà arrivare, sia perché si aprono dei temi proprio dal punto di vista del controllo. Invece, la banca centrale cinese, dopo la grande penuria di dollari del 2008/9 e pur tra forti dubbi dei loro economisti monetaristi, è partita prima di noi».

La questione è complessa, avverte Amighini, è utile però ricordare un punto che ci aiuta a capire che siamo in “campionati diversi”:
«Con la valuta digitale si desautora completamente il sistema di intermediazione creditizia. Noi invece ricerchiamo equilibri, una vigilanza accurata, abbiamo bisogno di distribuire le decisioni, non di un’autorità che decida tutto per tutti. Loro, semplicemente, no. Il Grande Fratello finanziario non li spaventa affatto, anche per poter recuperare sul tema del rapporto tra centro e periferia, che è notevole nonostante la forza del partito». Un altro pizzico di geografia, a voler guardare.

Ma l’Italia ha così bisogno della Cina?

Spostando la lente sull’Italia, ci si domanda se la nostra economia avrà una penalizzazione da questo conflitto rispetto ai suoi rapporti con la Cina:
«Direttamente no, qualunque cosa succeda adesso in Ucraina, le relazioni dell’Italia con la Cina avranno il loro svolgimento. Tanto più che, va ricordato, l’Italia è stata ed è ancora una specie di ventre molle dell’Europa per i cinesi. Basti ricordare alla vicenda del 2018 sull’acquisizione di un’azienda strategica in Friuli, che successivamente Draghi ha bloccato».
Non dobbiamo dunque pensare alla Cina come il convitato di pietra di qualsiasi discorso economico di casa nostra:
«Anche se molti lo pensano, non è vero che l’Italia abbia un bisogno così viscerale della Cina, soprattutto in settori industriali quali l’automotive, che noi purtroppo abbiamo dismesso a differenza di Germania e Francia, che hanno anche una struttura dell’export diversa dalla nostra e sono grandi tre o quattro volte noi».

Tra l’altro, aggiunge Amighini, un 2-3 % dell’export verso la Cina si potrebbe indirizzare verso l’Asean (Associazione dei Paesi del sud est Asiatico), in particolare in Malaysia, un’area molto promettente dove da tempo sono già presenti decine di imprese italiane.
Un settore enorme che, invece, l’Italia non ha ancora sfruttato pienamente è quello delle tecnologie della transizione verso la sostenibilità dei processi produttivi:
«La Cina è consapevole di avere un settore chimico ed estrattivo molto inquinante e l’Italia dispone di tutte le tecnologie e competenze per lavorare in questi nuovi campi. Lo dico con grande rispetto per chi se ne occupa a livello istituzionale ma, se parliamo di sviluppo dell’economia italiana in Cina, non possiamo ancorarci a nostra volta ai soli prodotti alimentari del made in Italy».

In conclusione, Amighini invita ad allargare lo sguardo all’Europa richiamando schiettamente sul bisogno di scelte strategiche. Soprattutto in merito ai piani energetici di medio e lungo termine, un tema che era già caldo ben prima dello scoppio della guerra:
«Nell’insieme, la costruzione europea, dal punto di vista politico e istituzionale è realizzata in modo tale per cui le modalità di comunicazione e decisione vengono condivise di fatto con tutto il mondo. Ma, per definizione, non tutto ciò che è strategico deve essere fatto conoscere ai competitor».

Questo tema ci porta lontano, in una vastità di argomenti che una conversazione può solo accennare. Al fondo, c’è sempre il grosso tema della democrazia e dei sistemi di governo: tra il controllo in stile Grande Fratello in salsa cinese e un sistema quasi ingenuo di trasparenza come è quello che regola i rapporti tra i diversi Paesi membri e l’Unione, l’Italia e soprattutto l’Europa devono ancora trovare il loro modello di sviluppo.
In sostanza, i cinesi continueranno a fare i cinesi, in economia come in politica estera. E noi, rilancia la professoressa Amighini, che cosa abbiamo intenzione di fare?
O meglio, chi vogliamo continuare ad essere?