Da maestro a fratello
“La responsabilità educativa, più che in passato, è diventata cruciale”

Quel che don Luigi Giussani scriveva negli anni sessanta è di strettissima attualità: la messa in castigo dell’educazione è il pericolo più grave per la nostra società. Quasi un grido, quello del sacerdote ed educatore ambrosiano. Un grido che si è fatto emergenza. Abitualmente la sfida educativa vive l’esperienza drammatica dell’emarginazione. La causa di questo deficit strutturale? “Il venir meno dei valori fondativi della comunità e il trionfo dell’individualismo”. Dialogo con Eraldo Affinati, scrittore ed insegnante. Che, sull’originalità di un rischio educativo, ha giocato la proposta Perry Wirton: una scuola, un progetto semplice, inclusivo. E per questo rivoluzionario. Facendo suo quel grido. Che ha unito don Giussani a don Lorenzo Milani. Per andare, con loro, fino in fondo


Conversazione con Eraldo Affinati a cura di Marco Dotti
22 luglio 2022

«Senza registri, senza voti, senza burocrazie». È un progetto semplice, eppure rivoluzionario quello che lo scrittore Eraldo Affinati ha abbracciato da molti anni con la scuola Perry Wirton, praticando un’azione educativa nel nome della passione e del rischio per l’incontro con l’altro.
Correre il rischio – racconta Affinati, ricordando il messaggio don Giussani – è un movimento continuo «da maestro a fratello». In questo movimento si colloca il cuore dell’azione educativa. Perché «nel momento in cui il giovane diventa adulto, il maestro si trasforma in fratello».  Non a caso, don Luigi Giussani amava citare Matteo 23, 8-10, a proposito dello scarto fra gli apostoli e i farisei. Mentre questi ultimi «si mettono ai primi posti continuando a recitare la loro lezione per tutta la vita, i seguaci di Gesù si mischiano con gli altri fino al punto di diventare fratelli».

Un difetto di osservazione, una mancanza di attenzione: in un passaggio del Rischio educativo, Luigi Giussani parla di quello che definisce «il pericolo più grave per la nostra società», ovvero l’incapacità, alimentata e fossilizzata da schematismi e ripetizioni, di eludere «il grido», la richiesta concreta che viene dalle concrete esigenze umane.
Sono passati molti anni da quando Giussani scriveva (i primi appunti risalgono agli anni Sessanta) e pubblicava “Il rischio educativo”, eppure sembra che quel grido sia sempre meno ascoltato anche nelle sfide educative. Tu lavori da sempre sul concreto di questo “grido”, spesso abbandonato “ai margini”, mentre il discorso di don Giussani dovrebbe essere al cuore stesso della società.
Puoi dirci cosa è accaduto, cosa ci è successo in questi anni? 

Nella cultura novecentesca il grido fa pensare all’omonimo film-capolavoro di Michelangelo Antonioni, targato 1957, nel quale risuonava L’urlo di Munch, quadro iconico della disperazione moderna: al termine della pellicola il protagonista, un indimenticabile Steve Cochran, si getta nel vuoto, mentre la figurina ritratta sul ponte dal pittore norvegese potrebbe farlo di lì a poco.
Nel momento in cui don Luigi Giussani richiamava la necessità, da parte dell’educatore, di ascoltare la richiesta d’aiuto proveniente dai più deboli segnalava due elementi strutturali del nostro tempo, i quali riguardano sia chi sta ai margini, sia chi sta al centro: il venir meno dei valori fondativi della comunità e il trionfo dell’individualismo.
Oggi vediamo amaramente confermata tale inclinazione epocale che la cosiddetta rivoluzione digitale ha ancor più esacerbato innescando in ognuno di noi ma specialmente nei più giovani una deflagrazione del desiderio come se tutto fosse uguale a tutto.
Ecco perché oggi la responsabilità educativa, più forte rispetto al passato, è diventata cruciale.

Non si può capire la realtà, se non ci si sta dentro. Se non si va fino in fondo a questa realtà.
Un altro insegnamento di Luigi Giussani che, però, si apre a una grande questione: che cosa significa, in un’azione educativa, andare fino in fondo? Oggi, su quel fondo, sembrano esserci male, disagio, disaffezione e – a sentire e leggere dati su dati, quelli che però sembrano orientare il discorso “pedagogico” – poco altro.
Forse dovremmo solo rovesciare la prospettiva, partire ancora una volta dalla realtà, e imparare a sorprenderci… Rischiando talvolta tutto…
Quanto è importante questo calarsi nella realtà, mettere le mani nel concreto delle relazioni, dei dubbi, ma anche delle attese e delle speranze nell’azione educativa? 

Andare fino in fondo significa toccare con mano la ferita della persona che hai di fronte, scoprire che questa piaga, spesso non percepibile a vista d’occhio, è anche la tua, quindi nel momento in cui la sfiori è come se scendessi dentro te stesso, scoprendo le radici che ci uniscono, prima dei muri che ci dividono.
Se il cristianesimo non è questo, non è niente. Si riduce a un sistema liturgico.
Ecco Ibrahim che arriva in Italia proveniente dal Sud Sudan: lo guardi, gli stringi la mano, cerchi di insegnargli la lingua italiana, poi vedi sua moglie e suo figlio nelle foto che lui ti mostra sul cellulare, davanti al ricovero di paglia dove vivono… Durante la lezione lo aiuti a trovare un posto in cui pregare… Gli stai vicino… Poi ne arrivano altri: bengalesi, afghani, maghrebini, ucraini.
Donne con bambini, profughi politici, gente che vuole migliorare la propria vita. La Terra ha la febbre alta. I minori non accompagnati continuano ad esultare ma tu fai presto a decifrare nei loro sorrisi i traumi che si trascinano dietro.
Quando decidi di mettere accanto a questi adolescenti smarriti i nostri stessi figli, i quali svolgono da noi i tirocini formativi richiesti dal liceo, ti rendi conto della soluzione: se Giulia parla con Mohamed, magari insegnandogli verbi e pronomi, forse possiamo ricucire gli strappi, soffocare il grido, fare del bene anche a noi stessi.

Nell’intervista che chiude Il rischio educativo –siamo nel 1977, in un frangente molto particolare anche per la storia del nostro Paese –alla domanda «lei si considera un educatore?», Giussani risponde parlando di un «imbattersi nello spettacolo dell’emozione umana».
C’è questa tensione verso una sorpresa, uno spiazzamento sempre possibile dell’educatore nell’incontro che Giussani sintetizza parlando di «[continuamente] recuperare sensibilità e attenzione verso ogni disagio suscitato o verso ogni critica, anche appena accennata, di fronte a quello che dico o faccio».
Parlando delle scuole Penny Wirton, lei ha spesso insistito sul rapporto “uno a uno”. Questo rapporto mi ha richiamato alla mente quanto diceva Giussani. Ci si ritrova?
Anche questa apertura è un rischio, un rischio contro cui spesso cerchiamo immunizzazione nella burocrazia, nei registri, nelle formalità… 

Io non ho una formazione togata in senso religioso, diciamo che sono un letterato, mi considero un apprendista cristiano, come se stessi in officina a capire l’uso degli attrezzi. Nel mio ultimo libro ho riscritto in chiave angelica il vangelo di Luca proprio secondo tale prospettiva, libero ma rigoroso sui testi.
La Penny Wirton (www.iquadernidellapennywirton.it e www.scuolapennywirton.it) è aperta a tutti i volontari, di qualsiasi provenienza, credenti e non credenti, spinti da motivazioni varie: spirituali, politiche, esistenziali.
Io credo nella promiscuità, nell’eterogeneità: ognuno si mette a disposizione dell’altro, gratuitamente, senza rinunciare alla propria identità, ma rischiandola, per l’appunto. Il rapporto uno a uno riteniamo sia decisivo.
Arrivano sessanta immigrati? Bene: noi abbiamo sessanta volontari.
Ovviamente prima li formiamo, anche attraverso l’uso del manuale che io e mia moglie Anna Luce Lenzi abbiamo scritto: “Italiani anche noi” (Erickson editore, 2019). Non tanto teoricamente, bensì ponendoli in affiancamento operativo. Senza burocrazia. Senza soldi. E senza classi. In una frontalità che, ne sono convinto, don Luigi Giussani avrebbe amato.
Qualche anno fa impostai un confronto, ardito ma secondo me legittimo, fra lui e Don Lorenzo Milani, apparentemente distanti, trovando dieci punti d’intesa, linee tematiche in grado di farli idealmente dialogare, che qui di seguito ripropongo: l’importanza della tradizione, necessità della verifica, valore dell’esperienza, rapporto da costruire fra l’ambiente-famiglia e la scuola, uscire dall’indeterminatezza, la dimensione comunitaria, il problema della libertà, la questione del tempo libero, fra autonomia e vigilanza, da maestro a fratello.
Su ognuno di questi punti ci potremmo fare una conferenza.
Ma dovrebbe essere aperta a tutte le pecorelle smarrite. A mio avviso non dovremmo mai parlare solo all’interno del nostro recinto.
Dovremmo puntare lo sguardo sempre oltre, soprattutto dove sappiamo che potremo farci male.

Lei ha accolto migliaia di ragazze e ragazzi nella sua scuola.
Che cosa ha rappresentato in termini di senso, speranza, progetto per quei ragazzi e per lei questa continua esperienza di incontro?
Una sfida educativa che diventa parte di un’avventura più grande: la vita?

Ogni volontario e volontaria delle Penny Wirton potrebbe rispondere a questa domanda: sarebbero parole anche molto diverse fra loro.
Ormai siamo centinaia in ogni zona d’Italia, da Messina a Udine, con un’appendice anche in Ticino.
Nel mio caso l’esperienza pedagogica con gli immigrati si lega a quella letteraria, come dimostra gran parte dei libri che ho scritto, molti dei quali sono nati dall’amicizia con gli studenti immigrati, dalla “Città dei ragazzi” a “Vita di vita”, dal “Teologo contro Hitler”, che aveva al centro la figura di Dietrich Bonhoeffer, a “L’uomo del futuro” e “Il sogno di un’altra scuola”, dedicati a don Milani, da “Via dalla pazza classe” al “Vangelo degli angeli”.
I miei genitori erano entrambi orfani, avevano fatto solo la quinta elementare, quindi per me l’insegnamento ai ragazzi difficili, con la riflessione conseguente, basti pensare a “Elogio del ripetente”, si configura anche come un risarcimento.

L’azione educativa intesa come rischio educativo sembra si colga in una parola che tardiamo a ricordare, sempre presi nel dibattito su diritti o doveri: dono.
Quanto dono c’è nell’educare, nell’educarsi?

Fabio Pierangeli, professore di letteratura italiana all’Università di Tor Vergata, a Roma (in Archivio CMC bellissima la sua conferenza su Cesare Pavese), ha intitolato la monografia su di me proprio così: “La scuola del dono”, cogliendo appieno lo spirito educativo da cui ci sentiamo guidati.

Uscire dalla schiavitù del risultato, per un docente, significa vivere e lavorare a fondo perduto, senza lasciarsi imbrigliare e/o mortificare dagli schemi valutativi standardizzati oggi di moda, uscendo persino dalla dittatura della maggioranza imposta dalla dimensione digitale.

Quanti like hai ricevuto? Tanti? Allora sei bravo. No, non così.
Ciò che conta è la singola persona a cui ti rivolgi: se non assumi la responsabilità del suo sguardo e ti limiti a svolgere soltanto il mansionario professionale (programma da spiegare, voti da assegnare, competenze da certificare, diplomi da rilasciare) disattendi il tuo vero compito che resta sempre quello di consegnare il testimone da una generazione all’altra, illuminando per i più giovani i sentieri in grado di condurli verso il futuro.

Fede. Don Giussani, in una sua conversazione del 1981, ricordava come fosse importante «rischiare la fede nelle circostanze».
Il modo per far crescere la fede, insegnava, è confrontarla con ciò che accade. Questo confronto ha spesso la forma dell’urto violento, ma la vita stessa, diceva, «è il complesso delle circostanze che, assediandoci, ci provocano e ci muovono».
Siamo passati da due anni di pandemia. Una guerra e una crisi dagli esiti più che mai imprevedibili ci attendono sulla soglia dell’autunno.
Eppure c’è questa fede, questa speranza, questa gioia nel darsi e nel confrontarsi che trova nell’educare il suo campo…

Mi tornano in mente le famiglie ucraine che negli ultimi mesi sono venute da noi. Ma anche il profugo sordomuto iraniano al quale, durante il lockdown, siamo riusciti a insegnare l’italiano, grazie allo schermo del computer e alla fattiva collaborazione di una ragazza esperta nella lingua dei segni.
Quanto alla fede, se fosse intesa come una cassaforte dove andare a prendere i preziosi o una farmacia che serve quale medicina per guarire dai nostri mali interiori, sarebbe ben poca cosa.
Per quanto mi riguarda vorrei riuscire a intendere la fede in senso dantesco: credere in ciò che si spera. Sapendo di dover ricominciare sempre da capo. 

A suo avviso cosa tiene ancora vivo, oggi, il legame tra queste due parole “rischio” ed “educazione”?

Su questo snodo cruciale vorrei richiamare una dichiarazione di Papa Francesco. È del 7 giugno 2013 e mi sembra colga a pieno questo legame: “Nell’educare c’è un equilibrio da tenere, bilanciare bene i passi: un passo fermo sulla cornice della sicurezza, ma l’altro andando nella zona a rischio. E quando quel rischio diventa sicurezza, l’altro passo cerca un’altra zona di rischio. Non si può educare soltanto nella zona di sicurezza: no. Questo è impedire che le personalità crescano. Ma neppure si può educare soltanto nella zona di rischio: questo è troppo pericoloso. Generativo questo bilanciamento dei passi, ricordatelo bene.


Immagini (in ordine di apparizione):
Don Luigi Giussani in un dialogo
© Diego Loffredo – Napoli, 25 maggio 2021 / Instagram: @diegoloffredo74
© Diego Loffredo – Napoli 2021 / Instagram: @diegoloffredo74
Don Lorenzo Milani – La scuola di Barbiana
© Diego Loffredo – Napoli 2021 / Instagram: @diegoloffredo74