Una nuova primavera
Eliot e Il paese guasto: oltre le rovine

Nel 1922, cento anni fa, Thomas Stearns Eliot (1888 – 1965) pubblica The Waste Land, tra le opere che più incidono e influenzano la poesia in Occidente. Che spacca in due la storia letteraria del ventesimo secolo. Un affresco vitale che troppa critica ha interpretato come l’apocalisse di una civiltà in dissoluzione. Invece c’è altro. Molto altro. Nel caos si afferma un’apertura. Una compassione ragionevole. Il cuore risvegliato dal temporale che non cede all’orrore.


6 maggio 2022
di Daniele Gigli

C’è un istante, dopo il deserto e lo squallore, dopo la perdizione e il nonsenso, in cui nel confuso affresco del Waste Land s’impone un silenzio diverso. Non più il silenzio afasico di chi non può o non sa parlare; non più il silenzio rassegnato di chi – come Prufrock nell’omonima poesia – ha a tal punto conosciuto persone e cose da non potersene attendere più nulla.
«Then spoke the thunder»:[i] la natura, fino a quell’istante rifiutata, accomodata in una riduzione meccanica e priva di respiro, irrompe finalmente nella voce del tuono. E lo fa con una domanda grave, con un richiamo al senso del tempo vissuto: «What have we given?»[ii] In questa domanda il tempo viene per la prima volta chiamato in giudizio, posto al vaglio di un significato presentito che oltrepassi la pura reazione. Per la prima volta, possiamo dire, assume una dimensione verticale – in opposizione al tempo orizzontale e circolare che abita tanto la prima poesia di Eliot, quanto i personaggi del Waste Land fino al risveglio del tuono.

Convergenza di intelletto e senso

Per questo cambio di segno, e per molte altre ragioni che emergono lampanti non appena si guardi in prospettiva l’intero divenire dell’opera eliotiana, non si capisce come tanta critica abbia potuto e in parte continui a vedere in questo poemetto – con cui Eliot cent’anni fa spacca in due la storia letteraria del XX secolo – l’inno celebrativo di una generazione senza più appigli né direzione, l’apocalisse di una civiltà in dissoluzione.
È un punto, questo, su cui non si insisterà mai abbastanza: quella che siamo abituati a chiamare La terra desolata – e che chi scrive suggerisce di tradurre invece Il paese guasto – non è affatto l’atto conclusivo di una posizione nichilista in seguito soppiantata da una “cieca resa” alla fede. Al contrario, il poemetto segna il primo passo – dal culmine del discorso razionale – verso l’apertura a un diverso tipo di ragione, verso quella convergenza di intelletto e senso che permetterà finalmente a Eliot di accogliere la conversione all’anglicanesimo e di ricongiungersi con le sue intuizioni più profonde su ragione e conoscenza.
Ce ne accorgiamo soprattutto osservando il metodo compositivo, che è per almeno tre quinti del poemetto l’apoteosi di quel correlativo oggettivo da lui teorizzato pochi anni prima:

Il solo modo per esprimere un’emozione in forma artistica è di trovare un «correlativo oggettivo». In altre parole, un insieme di oggetti, una situazione, una catena di eventi che sarà la formula di quella particolare emozione, in modo tale che quando si danno i fatti esterni – che devono terminare in esperienza sensoriale – l’emozione venga immediatamente evocata.[iii]

La sovrapposizione caotica di personaggi, luoghi e piani temporali, la polisemia, l’assenza apparente di nessi logici e causali tra le diverse scene, non sono infatti meccanismi significanti in sé stessi, ma sono piuttosto mezzi espressivi utili a creare quell’«insieme di oggetti» cui spetta rappresentare l’emozione. E se il poeta resta invisibile, dietro le quinte, ciò non vuol dire affatto che sia assente: egli lavora anzi come un regista, aggregando e indirizzando i frammenti e le voci che vi appaiono. In quest’ottica, l’uso dei correlativi ha una funzione ordinatrice, come Eliot chiarisce un anno dopo recensendo l’Ulisse di Joyce:

Usando il mito, manipolando un parallelo continuo tra contemporaneità e antichità, Joyce persegue un metodo che altri devono perseguire dopo di lui […]. È semplicemente un modo di controllare, di ordinare, di dare una forma e un significato all’immenso panorama di futilità e anarchia che è la storia contemporanea.[iv]

Nel Paese guasto la funzione ordinatrice è assunta dalla figura di Tiresia, che Eliot stesso definisce «la figura più importante del poema, che unisce tutto il resto».[v] È lui che presoffrendo quanto avviene nel poemetto ne unisce le sequenze in un significato di corruzione e decadenza; è lui, ancora, che permette al poeta di non lasciare traccia di sé pur tenendo salde le file dell’opera. È grazie a lui, grazie al suo sguardo, che è «la sostanza del poema»,[vi] che noi lettori possiamo vedere quello che va in scena:

E io Tiresia ho presofferto tutto
quel che va in scena su questo stesso divano o letto.[vii]

Un’intonazione lirico – biblica

C’è però un momento in cui l’impersonalità del poeta, la sua disseminazione nelle varie maschere del poema, converge verso una voce singola, che se non coincide per intero con quella dell’autore non è nemmeno più quella dell’indovino cieco. È un cambio di passo evidente, che comincia già nella terza sezione fino a farsi imperioso nell’ultima. Qui Eliot ricongiunge finalmente la sua voce pubblica al proprio tormento interiore, suggerendo nel finale del poema una via d’uscita dalla contemporaneità in direzione dell’Assoluto.
L’importanza di questo cambio di passo ce lo conferma lo stesso Eliot, che in una lettera a Bertrand Russell, ringraziandolo per il suo apprezzamento dell’ultima sezione, ribadisce che se anche non è la migliore essa è però «l’unica parte che giustifica il tutto».[viii] Ma che cosa accade nella quinta sezione di così rilevante da giustificare l’affermazione eliotiana? Con il naufragio del marinaio fenicio Fleba che occupa la precedente, il discorso a mezza via tra sarcasmo e disperazione fin lì tenuto insieme da Tiresia lascia spazio a un frammento lirico in cui finalmente la voce poetica partecipa concorde alle immagini evocate. La frattura tra la voce che parla e la poesia che avviene si ricompone e il dettato si fa solenne, assumendo – come già all’inizio della prima e della terza sezione un’intonazione lirico-biblica. E se nella prima e nella terza sezione l’intonazione alta era subito contestata e abbassata dallo squallore, qui il tentativo di innalzare la voce e lo sguardo non è più vanificata dall’irrompere del basso e del torbido. Al contrario, dopo le immagini di aridità e di inconsapevolezza, finalmente la natura parla. Alla sterilità, i cui segni sono sparsi per tutto il poemetto, e cui ancora pochi versi prima era stata accostata la stessa voce del tuono, risponde liberatorio il violento scroscio d’acqua che porta il temporale:

[…] Quindi una raffica umida
Che porta pioggia

Il Gange era basso, e le umide foglie
aspettavano la pioggia, mentre le nuvole nere
si ammassavano lontane, sopra l’Himavant.
La giungla si acquattò, curva e in silenzio.
Quindi parlò il tuono[ix]

Fuorviati dall’ultimo verso, che ripete l’invocazione alla pace posta a conclusione di ogni Upanishad, molti critici hanno letto il finale del Waste Land come una resa della ragione. In realtà, proprio la traduzione che Eliot dà in nota del termine sanscrito fa presupporre tutt’altro che un colpo di spugna o un abbandono dell’esercizio intellettuale. Se una resa c’è, la ragione la compie non annullandosi, non ritraendosi, ma dispiegandosi interamente e affondando nel presentimento di qualcosa che la sorpassa:

Shantih. Ripetuto come qui, conclusione formale di una Upanishad. «Pace che oltrepassa la comprensione» è il nostro equivalente per questa parola.[x]

Così il tuono parla, e le linee direttrici del suo monologo sono dettate dalla parabola del triplice «Da», che Eliot riprende da uno dei maggiori testi sacri dell’India post-vedica, la Brihadaranyaka-Upanishad.[xi] Lì, interrogato dalle sue tre schiere di figli – uomini, asura, dèi – il dio Prajapati invita alla sapienza con i tre imperativi datta (dona), dayadhvam (abbi compassione) e damyata (controlla).
Il primo invito del tuono è una meditazione amara sul dare, una schermaglia tra abbandono e prudenza che ricorda, superandoli, i timori di Prufrock:

DA
Datta: che abbiamo dato?
Amico, sangue che scuoti il cuore
l’audacia terribile di un momento di abbandono
che una vita di prudenza non potrà ritrarre
per questo, per questo solo, siamo esistiti
che non verrà scritto nei nostri necrologi
o sulle lapidi drappeggiate dal ragno benefico
o sotto i sigilli rotti dal notaio smunto
nelle nostre stanze vuote[xii]

Un’audacia terribile
«Che abbiamo dato?», che traccia resterà del nostro passare nel mondo, nascosti nell’inazione timorosa o immersi nelle larghe costruzioni della vanagloria? Che cosa vince il contrasto apparentemente insanabile tra la castrazione del desiderio e la sudditanza violenta e cieca ai suoi richiami? Solo un’azione, dice il tuono, può vincere il contrasto ma un’azione senza calcolo, una «audacia terribile», che non sarà ricordata nei necrologi, né nelle lapidi o nei testamenti. Ed è su questa linea che s’insinua anche il secondo invito, la compassione come chiave per un mondo che non sa più comunicare perché incapace di sentirsi e con-sentirsi:

DA
Dayadhvam: ho sentito la chiave
girare nella porta una volta e una volta soltanto
Pensiamo alla chiave, ognuno nella sua prigione
Pensando alla chiave, ognuno conferma una prigione
Solo al calare della notte, rumori eterei
ravvivano un istante un Coriolano franto[xiii]

Anche qui il piano semantico e quello simbolico vanno in accordo, e all’immagine citata delle stanze vuote si affiancano quelle della chiave e della prigione, correlativi della solitudine umana e della conseguente impossibilità di condividere l’esperienza dell’altro da sé. Ancora una volta è l’incapacità di leggere il reale, di intuirvi un senso e una strada, ciò che sprofonda nella palude dell’inazione.
Per questo il tuono parla una terza volta, e il suo ultimo invito è al controllo di sé. Perché se la verità è sinfonica, e non monodica, allora giocoforza esiste un direttore – che noi lo si veda o no. Ecco così farsi strada – già prefigurata dal richiamo all’episodio dei pellegrini di Emmaus del Vangelo di Luca (24, 14-35) – l’ipotesi di una rivelazione, di «mani che governano» a cui il cuore possa rispondere «lieto, se invitato, pulsando obbediente»:

DA
Damyata: la barca rispondeva
lieta, alla mano esperta di vela e remo
Il mare era calmo, il tuo cuore avrebbe risposto
lieto, se invitato, pulsando obbediente
a mani che governano[xiv]

Il Re Pescatore risolve gli intrecci

Dopo di che, il tuono infine tace e all’oasi refrigerante della sua voce chiara e liberatoria sembra far seguito ancora una volta il caos più ingovernabile. Ma se anche il mondo continua a essere caos, se anche le sue mille immagini e i suoi frammenti continuano a scontrarsi senza un filo conduttore, la voce del tuono non ha parlato invano ed è proprio guardando dentro il caos che il Re Pescatore – altra figura simbolica sottesa all’intero poemetto – può assumere col suo breve monologo una funzione unificante, risolvendo tutti gli intrecci allegorici del poemetto:

Sedevo sulla riva
pescando, l’arida pianura alle mie spalle
Terrò alla fine le mie terre in ordine?
London Bridge che cade giù cade giù cade giù

Poi s’ascose nel foco che gli affina
Quando fiam uti chelidon – O rondine, rondine
Le Prince d’Aquitaine à la tour abolie

Questi frammenti ho alzato contro le mie rovine
Bene, vi assegnerò le parti. Gerolamo è impazzito ancora.
Datta. Dayadhvam. Damyata.
Shantih shantih shantih[xv]

La piana arida – la terre gaste dei poemi medievali – è ormai alle spalle, e sebbene ancora il re tema di non poter mettere ordine nelle proprie terre, sebbene la civiltà materialistica crolli di un crollo secolare e inappellabile, sempre più seppellita nelle proprie macerie, il fuoco purificatore richiama alla possibilità di una nuova primavera.
La stessa tour abolie non è, come si potrebbe pensare, un rimpianto per la funzione poetica perduta, ma piuttosto l’accenno di una rinnovata coscienza del poeta. Anzi: non più isolato nella torre, ormai in mezzo alle rovine, egli ha nei frammenti non soltanto un puntello, ma la materia prima per tentare una nuova edificazione. Sebbene il caos persista, il poeta può assegnare le parti ai propri frammenti grazie all’intuizione di una guida sopravvissuta all’orrore: il proprio cuore risvegliato dal temporale, ardente di una pace che – per quanto sorpassi la comprensione – non può non dirsi esperita e riconosciuta.


Note:

[i] The Waste Land, V. What the Thunder Said, 399. Se non diversamente indicato, le opere citate sono di Eliot e le traduzioni da attribuirsi a chi scrive.

[ii] Ivi, 401.

[iii] Hamlet and His Problems (1919). Ora con il titolo Hamlet in The Complete Prose of T.S. Eliot. Vol. 2 – The Perfect Critic, 1919-1926, a cura di Anthony Cuda e Ronald Schuchard, Johns Hopkins University Press, Baltimora (MD) 2014, pp. 122-128: 125.

[iv] Ulysses: Order and Myth. A review of Ulysses by James Joyce (1923). ora in The Complete Prose of T.S. Eliot. Vol. 2 – The Perfect Critic, cit., pp. 476-481: 478.

[v] The Waste Land, nota dell’autore al testo.

[vi] Ibidem.

[vii] The Waste Land, III. The Fire Sermon, 243-244.

[viii] A Bertrand Russell, 15 ottobre 1923, in Letters. Vol. 2, pp. 257-258.

[ix] Ivi, 393-399.

[x] The Waste Land, nota dell’autore al testo.

[xi] Nella sua nota al testo Eliot fa riferimento a Brihadaranyaka-Upanishad 5, 1 ma in realtà questa parabola si trova in 5, 2, 1-3.

[xii] The Waste Land, V. What the Thunder Said, 400-409.

[xiii] Ivi, 410-416.

[xiv] Ivi, 417-422.

[xv] Ivi, 423-433.