L’inganno del verosimile
Liberare Moro dalla prigione delle Brigate Rosse. E dalle “letture”

L’uscita nei cinema del film di Marco Bellocchio “Esterno notte”, un ritorno alla vicenda drammatica del presidente della Democrazia cristiana con più di un affondo parziale, è comunque l’occasione per tornare e attualizzare il pensiero del grande statista. Un pensiero molto contemporaneo sorretto dalla fede cattolica, limpida, chiara e perciò dialogante. Con l’obiettivo della costruzione del bene comune. Che la buona politica mai dovrebbe perdere di vista. Specie oggi, al tempo della guerra


di Angelo Picariello
3 giugno 2022

Marco Bellocchio con “Esterno notte” torna sul luogo del delitto, a quasi 20 anni da “Buongiorno Notte”.
Lo fa in evidente continuità, persino nominalistica, con l’opera del 2003, e che il suo intento non sia commerciale, quanto piuttosto divulgativo/esistenziale, lo dimostra il non aver risparmiato su nulla.
Non sui tempi: 19 anni sono passati e dura oltre sei ore di prodotto finale, una mini-serie di sei puntate divise in due spezzoni.
Non ha risparmiato sui consulenti, appoggiandosi a storici come Miguel Gotor e a giornalisti del calibro di Giovanni Bianconi.
E tantomeno sugli interpreti, con Fabrizio Gifuni che assomiglia in modo imbarazzante, come nessuno mai prima, al protagonista, e con l’utilizzo di due star di prima grandezza, Toni Servillo e Margherita Buy, in due ruoli (Paolo VI e la moglie di Moro Noretta) che diventano centrali nel film nell’intento dichiarato sin dal titolo di spingersi all’esterno della prigione brigatista, per dar vita a un racconto della Notte della Repubblica (per dirla con Sergio Zavoli) a raggio più ampio.
Risparmia solo un po’, forse, solo sulla pietas verso i singoli, le cui vicende umane sono esaminate con dovizia di particolari nell’intento per mettere al centro il vissuto delle persone che hanno subìto più che fatto, in questo caso, la storia. Non risparmia nessuno, ma nemmeno getta la croce tutta addosso a qualcuno di loro, croce che viene caricata invece sulle fragili spalle di Moro.

Una fotografia parziale

Non ne esce bene Francesco Cossiga, il cui vissuto tormentato, diventato più tormentato ancora a partire da quei drammatici giorni (la futura ascesa al Colle non farà eccezione), viene esibito sul maxi schermo e diventa tutt’uno con la incapacità – da ministro dell’Interno – di cambiare il corso degli eventi.
Non ne esce bene Giulio Andreotti, in linea con le raffigurazioni prevalenti, in cui la verità si accompagna spesso al verosimile.
E un galantuomo come Stefano Andreotti non ha tutti i torti nel ricordare, in difesa della memoria del padre, che proprio in nome del “verosimile” artisti e intellettuali illustri hanno di fatto sancito la condanna a morte di un innocente come Luigi Calabresi.
In nome del verosimile, quasi sommerso da una montagna di banconote che erano state messe a disposizione del Vaticano per tentare la liberazione di Moro, forse ne esce un po’ meglio Paolo VI, accusato in una lettera dalla prigionia, forse la più drammatica di tutte, di aver fatto «pochino», anche perché verosimilmente Moro non era stato messo al corrente dai carcerieri dei tentativi estremi che il Papa aveva posto in essere, persino mettendo a disposizione della causa lo “sterco del demonio”, in grande quantità.
Non c’è pietà, non molta almeno, neppure per Moro stesso e la sua famiglia.
Qui bisogna dire una cosa con estrema chiarezza: un uomo dedito per almeno 16 ore al giorno alla causa del bene comune, nelle diverse declinazioni dell’insegnamento universitario, dell’attività politica e dell’impegno nelle istituzioni, non poteva che avere un rapporto complesso con i suoi cari e con le poche ore rimanenti da dedicare al riposo, che venivano inevitabilmente sovraccaricate anch’esse dal lascito enorme di responsabilità e di nodi irrisolti del resto della giornata. È stato giusto, utile, necessario, portare alla luce anche questo?
Necessario direi di no, utile può diventarlo ma a una condizione, che richiede uno sforzo ulteriore da parte nostra, non so quanto messo in conto dall’82enne regista, ma a questo punto poco importa.

L’incontro con i giovani di Comunione e Liberazione

Si può solo sperare, infatti, che questo emergere di aspetti della sofferta vita privata di Moro, fin qui trascurati da tutti, una volta portati alla luce (più o meno romanzati) facciano scattare un moto di tenerezza, come una sorta di senso di colpa collettivo. L’auspicio è che scatti un di più di gratitudine e di interesse per il patrimonio enorme e attuale lasciato a tutti noi, in molteplici discipline e innumerevoli direzioni.
Mi commuove personalmente che Moro per lunghi anni, praticamente gli ultimi 5 o 6 della sua vita, abbia trovato tempo – senza nulla chiedere in cambio, non un solo voto sicuramente – per approfondire la conoscenza di una presenza vivace, coraggiosa e inaspettata che aveva visto spuntare in università, mi riferisco a Comunione e Liberazione.
Di che cosa si trattò, di una sintonia maturata parlando con questi giovani di Maritain o Del Noce, di Sant’Agostino o San Tommaso?
No, se capisco bene anzi si trattò dell’esatto contrario. Più si accorgeva di un differente approccio culturale e metodologico di questa esperienza rispetto alla sua Azione cattolica che lo aveva tenuto al riparo dalla ideologia omologante dell’epoca (il fascismo) e più si incuriosiva per questa esperienza nuova e diversa che produceva frutti inaspettati davanti ai suoi occhi, in università, alla facoltà di Scienze politiche della Sapienza, in anni difficili per tutti, per lui più che mai.
In altre parole più sul piano ideologico/teologico non riscontrava la stessa impostazione e più emergeva con chiarezza che si trovava di fronte non appena degli alleati nella strategia politica o dei sodali nella militanza religiosa, ma dei giovani con i quali aveva in comune la fede in Dio, e lo stesso luogo in cui testimoniarlo, l’università.
Tecnicamente, dei fratelli nella fede, un legame ontologico quindi – non ideologico o di tipo morale – da alimentare con la partecipazione comune ai sacramenti (a lungo lo si vide spuntare spesso, nel 1973, nel 1974 e nel 1975 alle messe di Cl a Santa Maria della Scala e Santa Maria in Trastevere) e con il continuo confronto personale, in cui le differenze rappresentavano uno stimolo, più che un ostacolo.
La cosa andò avanti per anni, fino al rapimento, di fatto, dando volentieri anche un contributo mensile a Cl (le decime) ma sempre privilegiando i rapporti con la singola persona e il singolo studente, più che le strategie.
E il colloquio anche con un singolo studente poteva comportare (avvenne più di una volta) che fosse indotto ad arrivare in ritardo a un impegno alla Farnesina o a Palazzo Chigi.
La centralità della persona che aveva contribuito a inserire nella nostra Costituzione e nel nostro diritto penale non era insomma un filone politico-culturale soltanto, ma era la sua vita, ed è stato così fino all’ultimo, anche quando – nelle lettere dalla prigionia – si trovò inutilmente a implorare i suoi amici di partito perché, a differenza del Pci (che da uomo di sinistra Bellocchio non assolve minimamente, anzi) fossero capaci di mettere al centro la salvezza di una persona, lui stesso in questo caso, rispetto alla illusione di mettere in salvo le istituzioni democratiche con la linea della fermezza.

Liberare finalmente Aldo Moro dalla prigione delle Brigate Rosse, è questo il nostro compito come auspica lo storico di famiglia Renato Moro non è solo il modo migliore per rendergli omaggio, occupandosi del suo insegnamento e non solo di quei maledetti 55 giorni, ma è un modo anche per ritrovarci arricchiti, spiazzati dall’insegnamento attualissimo di uno statista ancora oggi vittima di stereotipi inadeguati.
È sbagliato ad esempio bollarlo di “cattocomunismo”. Fu solo un cattolico del dialogo, e che cosa può fare d’altronde un cattolico, se non dialogare, la guerra?
E a suo tempo dialogare con il partito che veniva votato da un italiano su tre era un modo, l’unico possibile al tempo, per tenere dentro le istituzioni e lontano dalle tentazioni eversive gran parte del mondo giovanile e delle classi sociali meno abbienti.

Tornare allo spirito di Helsinki

Ma ora veniamo a scoprire, attraverso un inedito portato alla luce di recente proprio da Renato Moro, che nel 1945, da presidente della Fuci, si era espresso perché fossero risparmiati dall’epurazione i tanti che avevano aderito al fascismo ma senza macchiarsi di colpe specifiche.
Anche catto-fascista fu quindi, all’occorrenza, la qual cosa non a caso ha molto incuriosito un intellettuale di destra Marcello Veneziani quando su Avvenire abbiamo pubblicato questo scritto inedito.
Da precursore dei tempi Moro ci appare più che mai “contemporaneo”.
Anche gli spiragli di pace che l’Italia cerca di aprire in questi giorni non possono che rifarsi allo “spirito di Helsinki”, ossia di quegli accordi che per primi aprirono la strada, nel 1975, su sua spinta da presidente di turno della Comunità Europea, al superamento della logica dei blocchi, a conferma della straordinaria attualità del suo pensiero, e dalla “protezione” che ancora riserva a questo martoriato Paese di cui è stato forse il più grande statista dell’epoca repubblicana.
Sarebbe stato il caso, insomma, piuttosto che lavorare di fantasia sulla liberazione immaginaria di Moro (molto criticata già in “Buongiorno, notte”), lavorare sulla sua liberazione “reale”, possibile e doverosa, da realizzare oggi, andando dietro a quel che Moro ha detto e praticato prima di quei 55 giorni.
C’è ad esempio tutto il percorso della riconciliazione da poter approfondire, specie in tempi di guerra incombente, che è certamente in linea con la sua concezione di umanità della pena volta al recupero del reo, visto che lui, da giurista, era persino contrario all’ergastolo. Uno spunto lo offre la stessa Anna Laura Braghetti, al cui racconto si era ispirato Bellocchio per “Buongiorno, notte”.
«Ai funerali di Vittorio Bachelet la famiglia perdonò gli assassini. Pregò per me», dice la Braghetti (una dei due killer, con Bruno Seghetti del vicepresidente del Csm, che era stato presidente di Azione Cattolica) nel libro “Il prigioniero”, realizzato con Paola Tavella, che porta alla luce anche il lavoro di padre Adolfo Bachelet, il fratello gesuita, «che prese a girare per le carceri e a intrattenersi con i detenuti politici», ricorda Braghetti.
«Mi raccontava spesso dei figli e delle figlie dell’uomo che io ho assassinato, ma la domanda “perché mio fratello?” non era un ingombro fra noi. Da lui ho avuto una grande energia per ricominciare, e un aiuto decisivo nel capire come e da dove potevo riprendere a vivere nel mondo e con gli altri. Ho capito di avere mancato, innanzitutto, verso la mia umanità, e di aver travolto per questo quella degli altri». Ecco, se non ci ha lavorato Bellocchio, su queste parole, nemmeno in questa sua seconda opera colossale, sarebbe il caso che lo facessimo noi, e andando ad approfondire la giustizia riparativa ci aprirebbe per noi un mondo, attraverso le luminose storie di amicizia impensabile fra familiari delle vittime ed ex della lotta armata, come ad esempio quella fra Agnese Moro e Franco Bonisoli, alla quale sono personalmente legato in modo particolare.
Che cos’è, allora, il nuovo film-kolossal di Marco Bellocchio, una buona occasione per tenerne viva la memoria, dopo 44 anni, una ferita che non ha mai smesso di sanguinare?
O non rappresenta invece un’occasione mancata per aiutare soprattutto chi non lo ha vissuto, a fare i conti con quel dramma collettivo che ancora ci segna?
A metà dell’opera, mi pare che si possa dire che sta a noi farne un’occasione, di questo film. Farne uno spunto, una sollecitazione ad andare a fondo, alimentando la memoria, e la ricerca, visto anche che gli scritti di Moro sono da poco tutti online nella “Edizione nazionale” delle sue opere. Ho scoperto ad esempio che in una intervista del 1977, a un anno dalla morte, rilasciata a “Litterae communionis”, il mensile di Cl, lui invitava a non vedere nella Dc due anime contrapposte, ma una sostanziale unità di intenti, rappresentando le diverse ricette politiche un completamento reciproco, più che una contrapposizione.
Una operazione di verità, questa, da compiere con spirito libero, scevro da pregiudizi, senza accontentarsi del verosimile.


Angelo Picariello è giornalista del quotidiano Avvenire e autore del libro Un’Azalea in via Fani. Da piazza Fontana a oggi: terroristi, vittime, riscatto e riconciliazione, San Paolo edizioni, 2019


Immagini (in ordine di apparizione):
Aldo Moro (interpretato da Fabrizio Gifuni)
Esterno notte (Locandina) ; Regia di Marco Bellocchio
Dal film Esterno Notte (Mario Bellocchio)
9 maggio 1978 – Ritrovamento del corpo di Aldo Moro. Roma, Via Caetani
Aldo Moro (1916-1978)
Giulio Andreotti e Francesco Cossiga
Aldo Moro a una conferenza di OP con Mario Pecorelli
Moro e Kissinger
Moro arriva al Palalido di Milano al convegno di Comunione e Liberazione
Aldo Moro nel parterre del Palalido, nel marzo del 1973, alla prima uscita pubblica degli universitari di CL
Fabrizio Gifuni in Aldo Moro
Aldo Moro all’università con alcuni studenti (© LaPresse)