Pasolini, l’intellettuale disorganico

A cento anni dalla nascita di PPP rimane intatta l’attualità di un pensiero fecondo e frastagliato. Nel suo essere corsaro un atto d’accusa all’assenza di intellettuali che sappiano farsi leggere e ascoltare.

di Enzo Manes

Il corsaro Pasolini avrebbe mai potuto ridursi a funzionario delle idee? Se n’è tenuto alla larga. Lui non è mai stato un intellettuale organico. Perché è stato un intellettuale. Non bramava a rendere egemonico il suo modo di riflettere sulla realtà delle cose. Quel problema, come è noto, lo aveva il Partito. In ossequio alla visione di Antonio Gramsci (ma lo ha seguito solo in quello, con franchezza) e forse secondo un’applicazione ancor “più realista del re”. Pasolini – proprio per la piega storica che aveva preso la questione – non amava granché fregiarsi delle stellette di intellettuale. La sua vocazione è stata anche quella di rifuggirla pagandone in termini di rapporti personali. Di amicizie finite male o recuperate in extremis se non addirittura dopo la sua morte violenta che “ancor offende”. Una volta, sul tema, rispose con queste parole: «L’intellettuale è dove l’industria culturale lo colloca: perché è come il mercato lo vuole» (Pier Paolo Pasolini, Il caos, a cura di Gian Carlo Ferretti, 1995, Editori Riuniti). Cioè, un tipo “impegnato” perfettamente inserito nell’ingranaggio della società del consumo. Idee buone per il mercato. Idee come merce di scambio. Da consumarsi per poi terminare al macero (oggi si dice piattaforma ecologica) la propria corsa. Nell’organico.

Conoscere equivale a esprimersi

Il poeta, lo scrittore, il regista, il polemista, a modo suo è stato un intellettuale. Lo è stato da corsaro. Da intellettuale disorganico. Che è poi l’unica chance che ha l’intellettuale per esserlo per davvero. Mai con la preoccupazione suggerita o cercata di ricoprire la parte del profeta del proprio tempo alla testa di qualcuno o addirittura del popolo. Ma allertando il proprio pensiero nell’incontro – scontro con il quotidiano per offrire a ciascuno di noi la possibilità di pensare con la nostra testa. Sabino Cassese, professore, già ministro e giudice costituzionale, l’anno passato ha dato alle stampe un libro dal titolo Intellettuali per i tipi de Il Mulino dove si domanda chi siano oggi gli intellettuali e come sia cambiato il loro ruolo al tempo dell’informazione digitale diffusa. In definitiva ne avverte la mancanza. Segno di un vuoto di conoscenza (Pasolini diceva: «conoscere equivale a esprimersi») e di un impegno con lo studio approfondito venuto mancare. Parla di intellettuali che devono avere il coraggio di reinventarsi senza però tradire il mestiere. Perché dell’intellettuale ha bisogno la democrazia. Ma un corsaro è questo? Un corsaro svolge semplicemente un mestiere seppur con scrupolo e dedizione? Cassese certamente coglie un problema reale e, a raccontarcelo con franchezza, si tratta di un problema che ha scandito e indirizzato il Novecento per non spingerci troppo all’indietro. L’assenza di intellettuali alla Pasolini (lui proverebbe orrore per questo azzardo) denuncia il dato di uno straziante vuoto umano. Manca il sangue e la carne delle cadute e delle riprese. Non si tratta di mettersi in disparte e dispensare saggezza. L’intellettuale è tutt’uno con il suo presente. Contraddittoriamente coinvolto. Pasolini, da Il Caos, siamo nel 1968, anno non banale, esprime la complessità di essere. E di essere immerso nella realtà («La realtà è il idolo»). Si provoca e provoca. Sinceramente, così: «Io non sono un qualunquista, e non amo neanche quella che (ipocritamente) si chiama posizione indipendente. Se sono indipendente, lo sono con rabbia, dolore e umiliazione: non aprioristicamente, con la calma dei forti, ma per forza. E se dunque mi preparo a lottare, come posso, e con tutta la mia energia, contro ogni forma di terrore è, in realtà, perché sono solo. Il mio non è qualunquismo né indipendenza: è solitudine. Ed è questo, del resto, che mi garantisce una certa, magari folle e contraddittoria, oggettività». In poche righe, il succo della storia. Della sua ma non solo.

Anche lui lucciola

Quando si ha a che fare – ed è stato ed è ogni volta un privilegio – con il corsaro Pasolini, a dire con l’intellettuale vivo e ostile alla protezione dell’ombrello del nulla, poco importa ritrovarsi sempre e comunque d’accordo con lui. L’unica cosa che conta, quando ci si imbatte con le diverse espressioni della sua arte, è quella di partecipare di un’esperienza che rende ragione al senso compiuto dell’eredità. È stato discutibile. Illuminante. Anticipatore. Eccessivo. Abbondante e talvolta sovrabbondante. Pregiudiziale. Sospettoso. Giudizioso. Solido. Zoppicante. Ancestrale. Affettuoso. Difettoso. Incostante. Periferico. Centrale. Evangelico. Cattolico. Comunista. Omosessuale. Intollerante. Dialogante. Incandescente. Sconcertante. Bolognese. Friulano. Romano. Antico. Contemporaneo. Uccellaccio. Uccellino. Lucciola.

Sì, lucciola. Come quelle di cui lamentava la dipartita in un celebre e profetico scritto del 1975 poco tempo prima della sua morte. Lucciola lui perché è stato flebile luce. A illuminare le notti. Svicolante e svincolante a quel che passava il convento del crocicchio intellettuale (c’è sempre un quel che passa il convento) dell’industria culturale. Missione spenta in partenza dagli intellettuali organici. Come quel Gruppo ’63 di irriducibili e ferrei interpreti di un neo – avanguardismo ferocemente contrario a chiunque seguisse altre vie. Di qui l’ostracismo per Pasolini, ma anche pollice verso per Mario Luzi, Giorgio Caproni, Carlo Cassola, Giorgio Bassani. Umberto Eco e sodali così sferzanti, iconoclasti di maniera, ironici come si conviene quando si strepita mentre si sorseggia il thè delle cinque. Che alcuni tra loro vissero poi tra i guanciali comodi apparecchiati dall’industria culturale è prova di pensiero “consumato”, di merce andata male dell’industria culturale.

Pasolini, questo ed altro discutibile spettacolo, lo apostrofava quale «orrendo universo» del consumo e del potere. Già, il potere. Può essere che ne fosse contaminato pure lui. Le radiazioni non si vedono, ma intaccano. Il rischio è comune a tutti. Eppure, mantenendosi vivi e vivaci, è possibile ingaggiare una lotta, da piccoli corsari al servizio della verità e quindi della vita ordinaria. Pasolini su politica e potere e sul troppo frequente deragliamento si è speso parecchio. L’ha subìto. L’ha giudicato.

Nel commento (20 dicembre 1969) a un articolo uscito sull’Unità organo ufficiale del Partito comunista italiano a firma di Enrico Berlinguer scrive: «Mi colpisce prima di tutto l’articolo di Berlinguer (“Coerenza del Partito”) a proposito della radiazione dal Pci dei redattori del Manifesto (espulsi perché contrari alla repressione sovietica della Primavera di Praga, ricordiamo noi). Berlinguer non mi trova assolutamente d’accordo su tale coerenza, che è una coerenza del tutto ufficiale, burocratica, e, Berlinguer me lo permetta – perché in tutto si può barare fuori che nello stile, ed è dallo stile che traggo questa deduzione – insincera. Berlinguer premette alcuni punti – base a giustificazione dell’operato del Comitato centrale: ‘Noi non avevamo mai lasciato adito a dubbio che avremmo applicato, con la coerenza più rigorosa, principi e regole di condotta sempre enunciati con la massima chiarezza’. Io trovo tutto ciò fuori dalla sfera umana, esistenziale e logica: la ‘coerenza più rigorosa’ è di una disumanità da far rizzare i capelli, è il lacerto di un linguaggio per monaci fanatici, e non per uomini; e così la ‘massima chiarezza’; per non parlare dei ‘terribili principi e regole di condotta’! Si ha coerenza e rigore solo là dove c’è effrazione e contraddizione; si ha chiarezza solo là dove c’è anche oscurità; e i principi e le regole son fatti per essere violati. È così ovvio da vergognarsi a dirlo».

Le “ceneri” telluriche

Il corsaro si macerava così – intellettuale che mira ad assaltare il cielo con il realismo di mantenersi ben radicato al suolo delle mille contraddizioni – verso il Partito che, non dimentichiamolo, è stato parte della sua vita, pur messo alla porta. Quasi un sentimento primordiale prima che un atto assoluto di fedeltà.  Che ritroviamo ne Le ceneri di Gramsci raccolta di undici poemetti uscita nel 1957 in un periodo tremendo per la cultura di sinistra (l’anno prima i carri armati di Mosca ferivano Budapest mandando all’aria quel che rimaneva delle illusioni).

Un giovane Pietro Citati (poi anch’egli nel Gruppo ’63) bollava la raccolta con l’epiteto di «poesia prefabbricata»; l’amico Franco Fortini con cui ruppe nel ’68 per una separazione mai più ricomposta in vita ebbe molto da eccepire. Nella forma della poesia Pasolini diede corpo a un testo tellurico che scuoteva certezze e prima di tutte le sue.

L’intellettuale disorganico non si sottraeva all’insorgenza delle domande, al suo essere che chiedeva spazio, ad un’educazione aperta e vibrante che lo portava a lavare i panni sporchi in pubblico. D’altronde, l’intellettuale corsaro è un soggetto che “rapina” la realtà, la morde, confligge con essa mai avvertendola come nemico.

Le “ceneri” sono sempre un’altra cosa dal previsto e prevedibile; i ritardi del Pci sono i ritardi possibili che covano in ciascuno; il sottoproletariato è un tuffo al cuore così come una fotografia non edulcorata. E il contraddirsi non è mai un problema irrisolvibile se non si perde di vista il punto. L’essenziale. E proprio la chiusura del poemetto Le ceneri di Gramsci annuncia forse il punto di non ritorno:

È un brusio la vita, e questi persi
in essa, la perdono serenamente, se il cuore ne hanno pieno: a godersi
eccoli, miseri, la sera: e potenti in essi, inermi, per essi, il mito
rinasce… Ma io, con il cuore cosciente
di chi soltanto nella storia ha vita, potrò mai più con pura passione operare,
se so che la nostra storia è finita?

Facile e opportuna la curiosità di chiedersi cosa avrebbe da dire il corsaro Pasolini al tempo della cancel culture, dell’orrore eutanasico, dell’annullamento delle differenze, del Dostoevskij alla berlina in quanto russo ma non certo tendenza Putin.

Del Mediterraneo insanguinato. Dei muri, fili spinati, corridoi umanitari. Della guerra, dell’Europa zoppicante. Della parola incenerita dai nuovi ortodossi. Del borghese individualista che non tramonta mai. Del comunismo in versione capitalismo di stato. Del neocapitalismo pantagruelico e insolente. Sarebbe in mezzo al mare, al largo, sulla tolda di qualche nave. Corsaro per sempre. Aggrappato al presente, senza nostalgia. Da intellettuale universale. Come universale è il cattolicesimo.

È per questo che don Luigi Giussani parlò di Pasolini come «dell’unico intellettuale cattolico, l’unico…». (Alberto Savorana, Vita di don Giussani, Rizzoli, 2013). Ne coglieva la lucida apertura, la ferita umana che zampilla di vita. Non i motivi di scandalo.

La mattina del 3 novembre 1975, si apprende la notizia della morte di Pasolini, sulla scrivania del sacerdote (erano entrambi del 1922), vi è una lettera indirizzata allo scrittore che non sarà mai completata.

La passione viscerale di Pasolini per il presente la testimonia con cuore caldo e dolente ne Il pianto della scavatrice:

Solo l’amare, solo il conoscere
conta, non l’aver amato,
non l’aver conosciuto. Dà angoscia
il vivere di un consumato
amore. L’anima non cresce più.


Immagini:

Pasolini partita di calcio in periferia

Pasolini sulla tomba di Gramsci

Pasolini / @Francesco Santosuosso

Pasolini intervista sull’amore

Pasolini e canovaccio per il romanesco

Pasolini gira Accattone

Pasolini con Margherita Caruso, la MAdonna del Vangelo secondo Matteo

Pasolini dialoga in una borgata di Roma

Pasolini in Grecia con Maria Callas