La pietas e i più deboli
Una carezza di vita è sempre uno “scatto” di speranza

La macchina fotografica di Eugene Smith che restituisce al mondo un gesto d’amore: quella donna con la bambina Tomoko. Una fotografia definita la pietà del XX secolo. Perché vale la pena vedere “Il caso Minamata”. Un film di passioni forti, dalla parte degli indifesi. Contro l’imperversare della mentalità eutanasica: la legge del più forte.

25 febbraio 2022
di Enzo Manes

La storia è nota. Forse. Giappone. Baia di Minamata, piccola città di pescatori situata nella Prefettura di Kumamoto. Un puntino sulle cartine geografiche. Lì si consumò una tragedia umana per avvelenamento da mercurio. Una sindrome neurologica con drammatico e progressivo esaurimento del coordinamento muscolare; perdita del senso del tatto a livello topico; disordine mentale; paresi. Perdita dell’udito e indebolimento del campo visivo fino alla cecità. E poi, in molte situazioni, la morte prematura. Una popolazione innocente colpita al cuore. Indifesa. Vittima della Chisso Corporation, una grande industria chimica presente nella zona nella quale lavoravano donne e uomini di quel territorio ferito. L’azienda sversava acque reflue contaminate da metimercurio nella baia, cioè nel mare di Shiranui. Uno sversamento scandaloso. Durato, senza soste, dal 1932 al 1968. Un tempo interminabile. Cadenzato da silenzi, omissioni, debolezze governative, arroganza dell’azienda. Con la popolazione percossa dall’evidenza del dolore che pian piano prendeva coscienza e si organizzava. Tristemente quella malattia neurologica ha preso il nome di malattia di Minamata.

Inviato, in missione

Un film, ora disponibile sulle piattaforme digitali e in dvd, ha richiamato l’attenzione su quella vicenda. Si intitola, infatti, “Il caso Minamata”. Lo interpreta uno strepitoso Johnny Depp. Nei panni del grande fotogiornalista statunitense W. Eugene Smith (1818 – 1978). Una storia vera, la sua. In prima linea con la sua arma solo in apparenza spuntata: la macchina fotografica. Eppure, aveva fatto resistenza a recarsi in quel posto così lontano. Sconosciuto. Un puntino appena. Non se la stava passando bene. Il lavoro non funzionava. Le amicizie ancor meno. I suoi pensieri lo contorcevano. Lavoravano a loro modo. Sembravano raffreddarlo a tutto anche con la complicità dell’alcool. Ma non era così, al fondo. Un incontro, una testimonianza che lo raggiunge nel momento più buio, ebbe l’effetto di riaccenderlo.  I suoi pensieri erano domande. Attendevano un segno, una scossa, per rimettere in moto un’anima e un corpo anchilosati. La prestigiosa pubblicazione Life dove aveva pubblicato memorabili servizi di fotogiornalismo si convince a inviarlo a Minamata. A fare bene il suo mestiere. E così Smith entrava nella vita di quelle facce orientali sempre dignitose pur segnate dalla malattia e dalla perdita degli affetti più cari.

La pellicola restituisce molto della grandezza incollata alla realtà di Smith, artista capace con uno scatto di dar voce alla verità della vita offesa. In punta di piedi ma deciso. Poesia dello sguardo. Con lo scrupolo tutto umano di non calpestare la dignità di quelle donne e di quegli uomini incontrati per sostenerli in una battaglia di giustizia che avrebbe potuto riparare fino ad un certo punto. Una missione professionale come una salita. Non superare il limite, a costo di fermarsi. Di violare l’ordine di servizio del direttore di “Life”. Agire nonostante tutto non faceva per lui.

E così, muovendosi, gli riuscì di costruire – costruire è il verbo che rende – un’indagine attraverso un racconto verità per immagini divenute patrimonio. Dapprima sulle pagine di “Life” e poi nel suo portfolio deposito di un immedesimarsi con le storie piccole perché grandi, con l’alterità che definisce la preziosità indiscutibile della persona. Quella persona, non un’altra. Le sue cronache fotografiche hanno aperto ad epifanie, a risvegli, a interruzioni dell’ovvio che spegne. E dunque in favore della luce. A diversa intensità. Reportage come quello di Minamata indicano la traiettoria di un’apertura d’obiettivo che sa unire il fatto, la circostanza allo svelamento del simbolico. Vi è una fatica non meccanica nel saper costruire. Un passaggio obbligato che favorisce la lucidità. Di pensiero che penetra. Senza pose e senza far mettere in posa. (in principio di carriera praticava quel metodo, ma poi…). Del film quello soprattutto seduce. Cogliere Smith operoso nel suo ansimare quasi primordiale, quasi fossero vagiti. Trattasi di esperienza a fin di bene. E da quel suo approccio trattenuto avviene qualcosa che sa di conquista. L’artista fece breccia nel cuore dei suoi “altri”. Conquisterà la fiducia che produce uno scatto che lacrima. Anzi, lo scatto. Definito la pietà del XX secolo: la bambina Tomoko mentre fa il bagno tra le braccia della madre.

La si vide, la vedemmo cinque anni fa. “Usate la verità come pregiudizio” è stata un’esposizione ideata e promossa dal Centro Culturale di Milano per celebrare i cicli più famosi della carriera di W Eugene Smith (periodo tra il 1945 e il 1978) provenienti dalla collezione privata di HCristopher Luce di New York. Dal catalogo realizzato è opportuno estrarre qualche passaggio significativo di testo autobiografico di Smith per comprendere i momenti di lavoro vissuti dall’artista a Minamata per arrivare al punto. Con esplicito riferimento allo scatto, proprio a quello scatto “pietoso”. Scrive Smith: «Diversamente da altri fotografi, quando lavoro non mi faccio travolgere dall’emozione. Può succedere che pianga e allora è difficile fotografare tra le lacrime, come mi è successo per alcune delle immagini di Minamata e di altri luoghi, ma non arrivo mai a commuovermi al punto da non capire più cosa sto facendo. Tanti bravi fotografi, come Bourke-White e Wayne Miller, mi hanno detto che spesso quando si trovano in una situazione drammatica si fanno trascinare al punto da scattare senza sapere cosa sta succedendo intorno a loro e non se ne rendono conto fino a quando non vedono le loro foto. È un modo perfettamente legittimo di lavorare e qualche volta mi chiedo se per caso io non sia troppo impassibile. Per esempio per la foto della mamma con la bambina, della serie di Minamata, ho raggiunto un livello di tensione pazzesca. A un certo punto mi sono rivolto ad Aileen e le ho detto: “Ce l’ho, ok, ho la foto”, ma dopo quello scatto persi un po’ il controllo della messa a fuoco e delle luci. Di fatto quello che stavo cercando di fare era provare a mantenere alta la tensione, in modo che se la situazione fosse cambiata, sarei stato pronto a recuperarne l’intensità. Come in quella foto, in genere so cosa sta succedendo a meno che non stia facendo un lavoro mediocre e allora – se è così – dopo, naturalmente, mi ritrovo con dieci foto piuttosto mediocri e la difficoltà di quale scegliere».

E Smith prosegue per raccontare come avvenne (nel senso dell’avvenimento) quello che ne venne fuori: «Mentre fotografavamo altro, la famiglia e le cose intorno a lei, mi fu chiaro che per me il simbolo di Minamata era indubbiamente quella donna con la bambina Tomoko. Così un giorno dissi ad Aileen che se tutto andava bene là sopra e non erano troppo occupati, avremmo potuto provare a fare quella fotografia simbolica. Ora questo non significa in nessun modo che intendevo fare una foto in posa, proprio nel senso di una foto in posa, ma che interpretavo quello che sapevo bene essere la verità; altrimenti non l’avrei mai fatto. Così andammo su e parlammo e spiegai che tipo di immagine volevo e non dissi che volevo quell’aria, quell’aria di coraggio. Spiegai semplicemente che volevo qualche scatto delle cure che lei prestava a Tomoko. Pensai che forse fuori dal bagno avremmo trovato la fotografia che mostrava meglio Tomoko, meglio nel senso di quello che era successo al suo corpo. E così cominciammo. Fu proprio la madre a suggerire che la fotografia migliore sarebbe stata nel bagno, e allora decidemmo di provare. La mamma seguì la regolare routine del bagno alla bambina e questo è quello che ne venne fuori».

Un gesto naturale, normale, reale eppure regale regalò una fotografia che non si dimentica più. Bella, scultoria, che respira. Una difesa strenua e gratuita dell’affetto più caro. Una difesa naturale di suo figlio indifeso. Una difesa culturale, che vale assai oggi, in tempo di degrado eutanasico. Certo quell’immagine ha contribuito a sgretolare il muro eretto dall’azienda chimica con la complicità governativa. Il mondo aveva potuto vedere quella volgarità, quel far del male sapendo di farlo. Ma quella missione che fu sacrosanto condurre a termine non poteva esaurire la potenza caritatevole della fotografia. Il merito del film risiede soprattutto nell’aver collocato in questo presente così interrogativo i giorni di Smith a Minamata. Il suo prima, durante e dopo il reportage affilato, puntuale, documentato al dettaglio. Pellicola da rintracciare, insomma. Per incontrare un uomo, una storia che dice, un senso del tempo e del dramma che non scappa via. Che comunque esalta il lato positivo. «Il sentimento di base è ottimismo, non disperazione. E dico sul serio». In verità.


Immagini:

Foto annuncio del film Il caso Minamata (Johnny Depp interpreta Eugene Smith)

La classica posa, pronta allo scatto, di Eugene Smith (interpretato da Johnny Depp)

Le Immagini de Il Sabato – Settimanale / Articolo del fotografo Valerio Soffientini

Eugene Smith – Tomoko Uemura durante il suo bagno / © Sothebis

La copertina del Catalogo della Mostra del Centro Culturale di Milano Usate la verità come pregiudizio / © Archivio CMC

La quarta di Copertina del Catalogo della Mostra del CMC su Eugene Smith / © Archivio CMC