Russia di ieri e di oggi Vita e destino a Stalingrado
Una delle pagine più conosciute della storia della Seconda guerra mondiale e del Novecento nel romanzo dell’ucraino Vassilij Grossman. Un’opera mai uscita finora in Italia. Libro grandioso. Commovente concerto di volti, voci, rumori. Dove è guerra ma non tutto è guerra. “Stalingrado” fu messo alla gogna da Stalin attraverso la Pravda. Un libro indispensabile per capire di più anche di questa Russia che invade. Prima parte dell’epopea di “Vita e destino”
6 maggio 2022
di Enzo Manes
Ottocentoquarantotto pagine. Per vivere antefatti e fatti che condussero alla storica battaglia di Stalingrado nell’emozionante e coinvolgente racconto di Vasilìj Grossman, corrispondente di guerra (si ricorda che fu tra i primi a varcare l’ingresso del campo di stermino di Treblinka) che seguì di persona quell’epico assedio.
Il romanzo che prende per l’appunto il titolo secco di Stalingrado (anche se il regime volle intitolarlo e così rimase per un certo periodo “Per una giusta causa”, frase celebre di Vjacelasva Molotov per indicare la lotta sovietica al nazismo) dove il Donbass (che ci è venuto drammaticamente familiare dal 24 febbraio 2022 avvio dell’invasione dell’Ucraina da parte dell’Armata russa) cade quasi subito.
La ferita dei fiumi Don e Volga assai di frequente macchiati di rosso sangue; il rumore delle fabbriche dove chi vi lavora si sente parte della difesa della città; la quotidianità provocante nell’orfanotrofio che mette tutto e tutti in discussione in nome dell’oggettiva del dolore e della pietas reclamata; i fumi, i ripari, i colpi nella steppa; i cieli che non sono solo colori ma annuncio di pericolo, di aerei in picchiata, di bombardamenti incessanti; il sottosuolo dei rifugi antiaerei e delle miniere di carbone dove non si sa bene come i lavoratori possano respirare e centrare gli obiettivi fissati della produzione al tempo di guerra: «Mentre scavavano, sentivano sempre più d’esser vicini alla vena. Il carbone sembrava arrabbiato, infuriato quasi, per quegli uomini che volevano arrivare fino a lui, che andavano a disturbarlo (…)»; l’avanzata tedesca, la ritirata sovietica; l’acciao che è l’acciao e l’acciaio che è simbolo di difesa irriducibile; il popolo che è popolo seppur l’ideologia vigila, indirizza, comprime, illude senza potere tutto; il popolo che sono volti precisi, storie di famiglie, affetti, amori, dolori, pianti, qualche sorriso, dialoghi resistenti allo sfregio del piombo: proiettili e bombe sono rumori assai meno nobili del rumore, quasi musicale, delle fabbriche all’opera a pieno regime, tutt’uno con la prima linea, con i fronti aperti perché, come l’acciao resiste la città.
Come Mariupol
Stalingrado (uscito per i tipi Adelphi, 28 euro) è una pagina straordinaria di storia (umana,strategica e militare) dove l’aggredito di allora è l’aggressore di oggi. Stalingrado – il pensiero corre lì – è il sacrificio e il martirio della Mariupol in questi giorni di assedio impietoso e interminabile.
No, è proprio impossibile immergersi nelle vicende di questo romanzo sconfinato come una normale, pur impegnativa e struggente, lettura di quel che è incominciato nel luglio del 1942 per concludersi i primi di febbraio del 1943. Perché sono pagine, ogni pagina a dire il vero, che pesano. Ecco allora ciò che unisce la letteratura, quella imprescindibile, a questo insopportabile presente.
L’opera arriva solo ora in Italia nella precisa ed emozionante traduzione di Claudia Zonghetti. Ed è il primo libro dell’avventuroso percorso esistenziale e politico scritto e depositato da Grossman, destinato a completarsi con la seguente fatica, “Vita e Destino” pubblicata per la prima volta in Italia nel 1984, grazie alla meritoria iniziativa dell’editore Jaca Book.
Pertanto, negli anni, per chi lo ha letto, ha avuto l’opportunità di imbattersi e penetrare nella seconda parte dell’epopea avviatasi con “Stalingrado”.
Meravigliosa e illuminante esperienza. Incontro quasi fisico con il sangue vivo della grande tragedia. Con il naufragare certo dell’illusione comunista.
Accettare adesso la sfida di mettere insieme le pagine secondo il progetto di Grossman vuol dire partire da “Stalingrado”; già comunque tragedia, già comunque anticipo, seppur da cogliere nelle pieghe del racconto, dell’insostenibile pesantezza del socialismo realizzato. Del totalitarimo sovietico che disturba e devia con violenza la vita. E il destino.
La fede incrollabile nella Russia comunista
“Stalingrado” è proprio storia di vita e destino. Allertata da storie di vite e destini.
La quotidianità della guerra, con i suoi bollettini, le sue battaglie, le sue cartine sgualcite, i suoi generali, i suoi sottoposti coraggiosi e anche impacciati specie coloro che sono alle prime armi, è nell’intrecciarsi di episodi, storie, sussulti, maledizioni e abbracci di personaggi memorabili, davvero indimenticabili.
I Sapošnikov tanti e tutti indispensabili, Pëtr Vavilov, Ivan Novikov. Eccetera che non è un eccetera. Comparse non ce ne sono. Quelle persone irriducibili a diversa intensità li incontriamo la prima volta.
Li perdiamo di vista. Se ne affacciano altri. E poi ritornano i primi.
E poi la storia di quello, scopriamo, che ha a che fare, con la storia di questo. Si aprono pagine. Si aprono fronti. Si aprono cuori: «Nel breve istante in cui guardò il viso della moglie, Štrum sentì tutto quello che deve sentire chi sa amare, chi sa di poter sbagliare e fare errori, di poter dimenticare tutti e tutto per un sentimento forte e doloroso che gli scuote l’anima, e intanto, però, continua a fare la solita vita». La guerra è un duro colpo. La chiamata alle armi sconquassa la vita. Di chi va e di chi resta. Si tratta di un dividersi che unisce ancor di più.
Non ci sarebbe popolo se non ci fossero quelle famiglie. Non ci sarebbe fratellanza senza quella compassione che affiora ineluttabile.
E la fede incrollabile nella Russia comunista non è ancora il momento che crolli.
Per la Russia è il tempo di vincere o morire. Stalingrado è il punto di non ritorno. L’ultimo baluardo che non deve, non può cadere come è nei pensieri di conquista di Hitler e Mussolini così ben descritti nel prologo con i due dittatori (non può esserci, per ovvi motivi, il terzo, Stalin) che il 29 aprile 1942 si vedono a Salisburgo per definire la prossima mossa: mettere in ginocchio l’Unione sovietica e chiudere la partita per il dominio dell’Europa.
La volontà di potenza di Hitler viene però a scontrarsi con l’acciao del popolo russo. Grossman è straordinario nel riuscire a rendere corpo quell’acciao.
Anche quando fa spuntare raggi di sole propri della retorica comunista che mira a scaldare i cuori.
E allora ti viene da pensare che il totalitarismo comunista è di segno diverso da quello hitleriano. Che equipararli è riduttivo, una semplificazione che non aiuta.
Il totalitarmo comunista è una tragedia più grande. Proprio perché tocca corde sensibili.
Il popolo che Grossman porta al centro della scena si infiamma, si muove, combatte per il sol dell’avvenire. E va a sbattere contro il muro dell’ideologia che ha contribuito a costruire.
Ecco perché è una tragedia più grande. Ecco perché quei volti, quelle persone sono indimenticabili. Perché vittime della più grande tragedia, del più grande tradimento del Novecento: il comunismo.
Stalingrado, allora, non è solo la città emblema della resistenza, dell’inizio della fine dell’avanzata dell’invasore. È molto altro: sia la città che riafferma la centralità del pilastro comunista che resiste a tutto ed esalta il popolo acciao; sia la verità del popolo come appartenza che esprime una verità che resiste e resisterà all’invadenza ossessiva e opprimente della dittatura.
Hitler può fare l’isterico, strepitare quanto vuole nella pretesa che Stalingrado debba cadere a qualunque costo. Ma non c’è niente da fare. Il popolo russo tiene. Stalingrado, «teatro di una difesa di posizione senza eguali possibili nella storia del mondo, dall’assedio di Troia alla battaglia delle Termpopili», tiene.
La città sotto le bombe, accerchiata, ridotta allo stremo, con i morti che non si contano più, con la speranza di farcela che pare una debolissima fiammella che sta per spegnersi, non capitola infine.
Lo sappiamo dalla storia com’è andata. Eppure viviamo quella tempesta, quella prova, quella tenacia, quella paura, quell’angoscia, come un inedito. Come una gigantesca prova che riguarda i personaggi che abbiamo imparato a fare un po’ nostri e perciò, quella resistenza, ci accorgiamo, scopriamo quanto riguardi noi anche solo per qualche sussulto emotivo. Grossman ci cattura così. Da grande scrittore, da narratore epico. Un conducente che ti accompagna nel dolente viaggio per giungere a motivare, con l’incedere della slavina che si fa valanga, perché Stalingrado non poteva cadere.
E, in un passaggio cruciale, nel quale è lui stesso che si ritaglia lo spazio per prendere la parola, ne dà le ragioni. Anche con quella retorica che non può, evidentemente, non palesarsi. Perché Vassilij Grossman ha creduto in quell’illusione divenuta tragedia.
Ma leggiamole insieme le sue parole: «Se le forze delle tenebre dovessero generare nuovi Hitler con nuovi piani criminali contro l’umanità, nuovamente capaci di far leva sui bassi istinti della gente, sull’ignoranza, sui pregiudizi, che nessuno si azzardi a cercare in loro una qualche grandezza. Chi compie crimini contro l’umanità è un criminale e non smette di esserlo anche se la storia serba memoria di quanto ha commesso: sono le sue devastazioni che i secoli ricorderanno. Non sono eroi: sono carnefici, sono farabbutti. Sono figli di forze oscure, cieche. Gli eroi della storia, i leader dell’umanità sono e saranno sempre coloro che portano la libertà, che nella libertà vedono la forza di un uomo, di un popolo, di uno Stato; sono coloro che combattono per l’uguaglianza sociale, razziale, lavorativa di tutti gli uomini, di tutti i popoli grandi e piccoli di questo mondo».
Il romanzo “Stalingrado” ebbe un percorso tortuoso e assai indicativo della temperie ideologica in Unione Sovietiva. Venne pubblicato nel 1952. Uscì in quattro puntate. L’accoglienza che ricevette fu a dir poco straordinaria.
I critici dell’epoca, sintonizzandosi con l’entusiasmo popolare, caldeggiarono per l’opera di Grossman il Premio Stalin. Non se ne fece nulla. Anzi, se ne fece, ma di segno tutto diverso.
Nel febbraio del 1953, sul quotidiano “La Pravda” l’opera venne bollata con una frase che non dava scampo: «Stalingrado è uno sputo in faccia al popolo sovietico». La morte di Stalin, avvenuta il 5 marzo dello stesso anno, evitò all’autore guai peggiori. Comunque, dilì in avanti, Grossman entrò in duro contrasto con il regime comunista. “Vita e Destino” usciì postuma e non in patria.
Grossman aveva fatto esperienza in prima persona dell’illusione comunista divenuta tragedia.
La sua vita, il suo destino.