Che sia uno spazio umano per custodire la libertà” di Julián Carrón

Il saluto per l’Inaugurazione della nuova sede del Centro Culturale di Milano

21 settembre 2016
Saluto di Julián Carrón
presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione

Grazie di questo invito. È un onore per me partecipare a questa inaugurazione della nuova sede del Centro Culturale di Milano, che mi sembra possa rappresentare un bell’arricchimento per la città di Milano.

Il vantaggio del momento storico che stiamo attraversando è che ci sta costringendo tutti, in qualche modo, a essere più umili e meno presuntuosi, perché «sono in corso capovolgimenti epocali, ma non si sa ancora a che punto si potrà dire con esattezza che comincia uno oppure l’altro» (Benedetto XVI, Ultime conversazioni, a cura di Peter Seewald, Garzanti, Milano 2016, p. 218). Dunque, è più facile incontrarsi, riconoscere che l’altro è prezioso, che mi aiuta a capire di più la mia vita e la strada che devo prendere per fare un cammino umano. Quanti compagni di strada abbiamo incontrato in questi tempi! E quanti ne sono passati in tutti questi anni dal Centro Culturale di Milano e prima dal Centro Culturale San Carlo!

Le persone più attente e acute nel percepire le sfide attuali cercano un luogo ospitale, che le accolga prima di misurare le diversità. Come ha detto Zygmunt Bauman in occasione dell’incontro di Assisi, «l’opposto delle conversazioni ordinarie che dividono le persone: quelle nel giusto e quelle nell’errore» («Parliamoci. È vera rivoluzione culturale», intervista a cura di S. Falasca, Avvenire, 20 settembre 2016, p. 6). Soprattutto cercano un ambito nel quale le proprie domande non siano censurate o liquidate con risposte preconfezionate, ma siano prese sul serio. Quando questo accade, ciascuno si sente come a casa propria, sicuro di poter condividere un’esperienza, pur nella diversità delle storie: si realizza così lo «spazio di libertà: che non vuol dire spazio vuoto, deserto di proposte di vita. Perché del nulla non si vive. Nessuno può stare in piedi, avere un rapporto costruttivo con la realtà, senza qualcosa per cui valga la pena vivere» (J. Carrón, La bellezza disarmata, Bur, Milano 2016, p. 76).

Che cosa possiamo desiderare di più all’inizio di questa nuova tappa del cammino del Centro Culturale di Milano? Che sia uno spazio umano dove la libertà sia custodita, dove il contributo di ciascuno sia stimato e valorizzato come un bene che rende tutti più ricchi. Sempre Bauman diceva che occorre «imparare ad arricchirsi della diversità dell’altro. […] Nel dialogo non ci sono perdenti, ma solo vincitori. Si tratta di una rivoluzione culturale […] che permette di ripensare la nostra epoca» («Parliamoci. È vera rivoluzione culturale», intervista a cura di S. Falasca, Avvenire, 20 settembre 2016, p. 6).

Se la libertà è al centro del vostro lavoro, risulterà evidente che la vostra originalità non consiste in una verità che possedete e volete inculcare negli altri, ma nel documentare attraverso incontri, spettacoli e mostre una verità che avete scoperto e che attrae perché ha il volto della bellezza, che mai si può imporre con la forza.

Ma allora la forma della vostra presenza in città sarà il dialogo, secondo la logica dell’incontro. Per questo voi siete «condannati al dialogo», come ha detto questa estate il cardinale Tauran di fronte all’ondata di violenza che ha colpito l’Europa: «L’unica strada percorribile è quella del dialogo disarmato. In sostanza, a mio avviso, dialogare significa andare all’incontro con l’altro disarmati, con una concezione non aggressiva della propria verità, e tuttavia non disorientati». Non c’è un’altra strada, gli domanda l’intervistatore? «Assolutamente no. Siamo condannati al dialogo» («Un altro passo verso l’abisso ma il sangue si può fermare con il coraggio del dialogo», intervista a cura di P. Rodari, la Repubblica, 27 luglio 2016, p. 8).

«L’acquisizione di questa cultura [del dialogo e dell’incontro] non permette ricette o facili scappatoie, esige e passa attraverso l’educazione» (Z. Bauman, «Parliamoci. È vera rivoluzione culturale», intervista a cura di S. Falasca, Avvenire, 20 settembre 2016, p. 6).

Così il Centro sarà sempre più uno spazio aperto dove possono iniziare dei processi, come invita costantemente a fare papa Francesco: «Noi dobbiamo avviare processi, più che occupare spazi. […] Questo fa privilegiare le azioni che generano dinamiche nuove. E richiede pazienza, attesa» («Intervista a Papa Francesco», a cura di Antonio Spadaro, La Civiltà Cattolica, III/19 settembre 2013, p. 468). Perché è così decisivo questo atteggiamento indicato e testimoniato dal Papa? Ce lo spiega in modo solare Benedetto XVI nel suo ultimo libro, lì dove afferma: «È chiaro soprattutto che la scristianizzazione dell’Europa progredisce, che l’elemento cristiano scompare sempre più dal tessuto della società. Di conseguenza la Chiesa deve trovare una nuova forma di presenza, deve cambiare il suo modo di presentarsi». Infatti, «là dove la fede è attiva e vitale, dove non vive nella negazione ma nella gioia, essa trova anche nuove forme» (Benedetto XVI, Ultime conversazioni, op. cit., p. 218, 208).

A questo proposito vi offro una riflessione di don Giussani, che proprio all’inizio del vostro anno sociale potrebbe essere una grande ipotesi di lavoro, tutta da verificare in questo momento di cambiamenti epocali, dove tante forme e sicurezze del passato sono crollate e dove tante risposte si stanno dimostrando incapaci di essere all’altezza delle nuove sfide che abbiamo davanti. Ecco che cosa ci suggerisce don Giussani: «Lo sguardo cristiano vibra di un impeto che lo rende capace di esaltare tutto il bene che c’è in tutto ciò che si incontra, […] un amore alla verità che è presente, fosse anche per un frammento, in chiunque. Ogni volta che il cristiano incontra una realtà nuova l’abborda positivamente, perché essa ha qualche riverbero […] di verità. Nulla è escluso da questo abbraccio positivo. […] Si sottolinea il positivo, pur nel suo limite, e si abbandona tutto il resto alla misericordia del Padre» (L. Giussani, – S. Alberto – J. Prades, Generare tracce nella storia del mondo, Rizzoli, Milano 1998, pp. 157, 159).

Mi impressiona come don Giussani ci inviti a un cambio di sguardo, in un momento in cui tanti pensano che solo i muri possano proteggere la nostra identità: «Chi […] è attaccato a una identificazione parziale, alla “sua” verità, non può non stare di fronte a tutto difendendo quello che lui dice, a meno che sia completamente scettico o nichilista» (Ibidem, p. 159).

Invece «l’ecumenicità cattolica è aperta verso tutti e tutto, fino alle sfumature ultime, pronta a esaltare con tutta la generosità possibile ciò che ha anche una lontana affinità col vero. Ma è intransigente sulla equivocità possibile. Se uno ha scoperto la verità reale, Cristo, avanza tranquillo in ogni tipo di incontro, sicuro di trovare in ognuno una parte di sé» (Ibidem, p. 160). Che cosa è stato l’incontro di Assisi se non una grande occasione per vedere la verità di queste parole incarnata in un uomo, papa Francesco? «Pace vuol dire Collaborazione, scambio vivo con l’altro, che costituisce un dono e non un problema, […] una chiamata […] ad acquisire la cultura dell’incontro, purificando la coscienza da ogni tentazione di violenza e di irrigidimento» (Francesco, Visita ad Assisi per la Giornata Mondiale di preghiera per la pace. “Sete di pace. Religioni e culture in dialogo”, 20 settembre 2016).

Don Giussani continua a descrivere il termine cristiano che esprime la cultura nuova che nasce dalla fede: ecumenismo. «L’ecumenismo vero scopre sempre cose nuove, così che non c’è mai una totale ripetizione: si è trascinati da un totalizzante stupore del bello. È dalla bellezza che nascono continuamente immagini di possibilità insospettate per riparare le case distrutte e costruirne di nuove» (Generare tracce nella storia del mondo, op. cit., p. 160). Infatti, «l’avvenimento di Cristo è la vera sorgente dell’atteggiamento critico, in quanto esso non significa trovare i limiti delle cose, ma sorprenderne il valore» (Ibidem, p. 158).

Per meno di questo non varrebbe tutto il sacrificio che fate per sostenere il Centro Culturale di Milano. Ve lo ricordava Giovanni Testori nel 1989 con parole che oggi possiamo comprendere meglio di allora, dopo tutto quello che abbiamo visto accadere in questi decenni: «Oggi tutto mi sembra così minacciato dal non essere che anche la carne, la carne sbagliata, la carne e il sangue che errano devono gridare, devono alzarsi, insorgere. Credo che il mondo, e soprattutto i cristiani, abbiano la responsabilità e il destino – che è la sola speranza – di tentare di essere contemporaneamente insurrezionali e resurrezionali». Ma vi avvertiva che «qualsiasi insurrezione che non nasca da una certezza, da un bisogno e da una speranza di resurrezione, cade: diventa oggi più che mai vittima e strumento del potere» (G. Testori, in Dove la domanda si accende, a cura di C. Fornasieri, T. Lanosa, Itaca, Castel Bolognese 2012, p. 32).

Testori concludeva con un invito che vale oggi più di allora e che io vi ripropongo: «Guai se vi venisse la tentazione di chiudervi, e lo dico dal limite dei miei quasi sessantasei anni. Credo che chiudersi sia la tentazione più terribile, perché un mondo così chiuso ha bisogno di chi invece stia spalancato. Imparate da chi vi ha fondato come si fa a essere stupiti. […] Imparate da Giussani a sentirvi sempre aperti, a stupirvi di chi viene, a stupirvi anche delle cattiverie e delle ingiustizie. Bisogna saperle combattere, perché è giusto; ma al fondo che bello se qualcuno riuscisse a pregare per chi vi e ci colpisce. Non perché non ci colpisca più, ma perché trovi un po’ di serenità, un momento di quiete in cui riconosca se stesso. Quindi: polemizzare e insieme pregare per chi ci colpisce. Stare sulla barricata, ma sempre con quella carità, quell’amicizia, quell’affetto che fa stare lì pronti, quell’affetto grazie al quale, quando veniste da me [dieci anni prima], ho capito che c’era in voi qualcosa che conoscevo nei miei fratelli, nelle mie sorelle, ma che non conoscevo al di fuori di essi» (Ibidem, p. 33).

In questa nuova splendida sede che la carità dell’Arcivescovo Angelo Scola e della diocesi vi ha messo a disposizione, vi auguro di dare a tutta la città lo spettacolo di questo «sentirvi sempre aperti» e di «stupirvi» che Testori vi aveva raccomandato come la virtù del Centro Culturale di Milano. Potrete così continuare a dare il vostro contributo originale alla vita di una città alla quale tanti guardano come un esempio per costruire il futuro, nella concordia e nella pace.

Grazie.