Guerra Israele – Iran: la hubris, il potere e i popoli
Un altro conflitto. Previsto, ma non troppo. Il Medio Oriente non trova pace. Le ragioni di ciascuno (presunte o vere) non trovano sbocco che non sia l’uso delle armi. Non è il tempo delle armi della ragione. E così il mondo trema. Una minaccia esistenziale che apre a molti interrogativi. I motivi che hanno portato all’ennesima situazione di crisi. Un terreno minato dove tutto può cambiare e contraddirsi minuto dopo minuto.
20 giugno 2025
Regione in soqquadro
di Claudio Fontana

Un tempismo quasi perfetto: domenica scorsa si sarebbe dovuto tenere un nuovo round di negoziati quasi-diretti tra Stati Uniti e Iran per cercare di trovare un accordo in merito al programma nucleare iraniano. Il ministro degli Esteri omanita, Badr al-Busaidi, l’aveva annunciato il 12 giugno, in mezzo a mille difficoltà.
Tempo poche ore e Israele ha deciso di rovesciare il tavolo con l’avvio di una campagna militare contro la Repubblica Islamica dell’Iran.
I negoziati sono stati – come è ovvio – cancellati. Non fosse altro perché lo Stato ebraico ha subito cercato di eliminare proprio quell’Ali Shamkhani che non è solo il consigliere speciale della Guida Suprema iraniana, Ali Khamenei, ma anche la figura a capo del team di negoziatori iraniani (non è chiaro, al momento della scrittura di questo articolo, se Shamkhani sia sopravvissuto). Una mossa che ricorda quella dell’uccisione di Ismail Haniyeh, capo dell’ala politica di Hamas, proprio mentre era impegnato in colloqui mediati da Egitto e Qatar per cercare un accordo per risolvere fasi della guerra a Gaza che ormai sembrano appartenere a un passato remoto. L’attentato alla vita di Shamkhani e la decapitazione dei vertici dell’esercito iraniano, dei Guardiani della Rivoluzione e delle Forze Quds mostrano chiaramente che, quando vuole, Israele sa colpire con estrema precisione (aveva fatto lo stesso con i capi di Hezbollah in Libano).

L’obiettivo di Netanyahu
Queste informazioni iniziali sono sufficienti per giungere a una prima conclusione: almeno dal 7 ottobre 2023 in avanti Israele, guidato da un governo di estremisti dell’ultra-destra, non è interessato ad alcuna soluzione diplomatica del conflitto, nella convinzione che l’uso della forza sia sufficiente per raggiungere i suoi obiettivi. Netanyahu, del resto, non ha mai fatto mistero di voler colpire militarmente l’Iran, frenato soltanto dai veti delle precedenti amministrazioni americane.
È a questo punto che sorge il primo interrogativo. Qual è l’obiettivo di Benyamin Netanyahu? Il Primo Ministro israeliano si è sempre opposto ai negoziati con l’Iran: tentò in tutti i modi di impedire a Barack Obama di siglare il JCPOA nel 2015 e fece pressioni (assieme ai sauditi) affinché nel 2018 Donald Trump uscisse dall’accordo. Ufficialmente lo scopo dell’operazione Rising Lion è azzerare il programma nucleare di Teheran. Almeno è questo quanto comunicato all’avvio delle operazioni dall’IDF: un’azione preventiva contro il programma nucleare. Un assist all’avvio delle operazioni è stato fornito dall’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (IAEA) che la scorsa settimana aveva ufficialmente decretato che per la prima volta in 20 anni l’Iran non stesse rispettando gli obblighi derivanti dalla sua adesione alTrattato di Non Proliferazione (giova ricordare che Teheran ne fa parte, al contrario di Israele, che ha segretamente sviluppato un grande numero di testate nucleari, circa 200).
Ma se l’obiettivo è eliminare il programma nucleare iraniano, occorre anzitutto chiedersi se lo Stato ebraico dispone delle capacità per farlo.
Finora Israele ha agito con due metodi paralleli: l’uccisione degli scienziati nucleari, tattica largamente impiegata in passato (aveva fatto scalpore il caso di Mohsen Fakhrizadeh, ucciso proprio quando il neo-eletto Joe Biden affermava di voler riportare gli USA negli accordi del 2015); e il bombardamento dei siti nucleari, in particolare quelli di arricchimento dell’uranio. Inizialmente è stato colpito il sito più vulnerabile, quello di Natanz, nei pressi di Isfahan, dove secondo un primo rapporto dell’IAEA l’aviazione israeliana è riuscita a neutralizzare tutte o quasi le centrifughe presenti.
Per queste operazioni Israele è riuscito a cavarsela da solo, ma per colpire i siti più protetti come Fordo, riparato nel cuore di una montagna, necessita dell’intervento americano. Sembra essere questa la scommessa israeliana: coinvolgere direttamente gli Stati Uniti. Certo, Washington partecipa già alla difesa dello Stato ebraico e questo non va sottovalutato: difficilmente Tel Aviv avrebbe compiuto molte delle escalation di questi mesi se non avesse saputo di avere sempre e comunque le spalle coperte. Un coinvolgimento nella fase offensiva della guerra significherebbe tuttavia un enorme salto di qualità – se così si può dire – del conflitto.
Eppure, anche l’enfasi sull’importanza dell’attacco a Fordo potrebbe essere mal riposta: qualora l’Iran decidesse di optare per la militarizzazione del suo programma nucleare è molto più probabile che decida di farlo in siti finora non dichiarati. Ciò su cui comunque concordano la maggior parte degli esperti, tuttavia, è che l’azzeramento del programma nucleare iraniano non può avvenire attraverso il bombardamento.

No all’erede dello scià di Persia
Ciò riduce a due gli scenari possibili. Primo: gli attacchi servono per indebolire la Repubblica Islamica e portarla al tavolo negoziale in una situazione di debolezza. Questo scenario, per quanto non sia da escludere, richiede una banale puntualizzazione: l’Iran era già al tavolo dei negoziati. Secondo: l’obiettivo è in realtà quello di provocare se non un regime change, quantomeno una modifica sostanziale degli equilibri interni al sistema istituzionale iraniano.
In un’intervista concessa a Iran International il 16 giugno Netanyahu ha ampliato lo scopo delle operazioni: la minaccia esistenziale per Israele non sarebbe più solo il programma nucleare ma anche quello missilistico, e l’azione dello Stato ebraico, ha detto il primo ministro, si concluderà con la fine dell’esistenza della «tirannia radicale» iraniana. Il nome stesso dell’operazione (leone nascente) risulta ambiguo. Esso rimanda infatti al Libro dei Numeri (23,24), dove si legge: “Ecco, un popolo si alza come leonessa e si drizza come leone; non si coricherà finché non abbia divorato la preda e bevuto il sangue delle vittime”.
In questo contesto, a quale popolo si riferiscono gli strateghi israeliani? A quello di Israele che combatte contro i suoi nemici, o a quello iraniano che dovrebbe rivoltarsi contro gli ayatollah? Gli inviti di Netanyahu a rovesciare il regime fanno pensare a questa seconda opzione. Quello biblico non è però l’unica citazione implicita nel nome dell’operazione lanciata da Israele. Il riferimento al leone rimanda infatti anche a quello che impugna la spada e si trova al centro della bandiera in uso in Iran prima della Rivoluzione del 1979. Non a caso forse l’unico iraniano a esprimere pubblicamente il suo apprezzamento per l’operato di Israele è stato proprio l’erede dello scià di Persia. Chi ne immagina un ritorno a Teheran, però, difetta di consapevolezza della situazione e dimentica che i Pahlavi non godono di alcuna legittimità tra la popolazione iraniana.
La più ampia ambizione israeliana è stata poi confermata da Netanyahu stesso, il quale in un’intervista concessa alla Fox News ha ammesso di sperare in una caduta della Repubblica Islamica. Anche la scelta degli obiettivi colpiti in questi giorni mostra che Israele è aperto a diverse opzioni: perché colpire le installazioni petrolifere iraniane, la televisione di Stato e altre infrastrutture civili che nulla hanno a che vedere con il programma nucleare iraniano? Quella israeliana è una strategia non priva di rischi: più infatti Netanyahu amplierà la portata dei suoi attacchi, più l’Iran concepirà quanto sta avvenendo come una minaccia esistenziale. Questo potrebbe portare Teheran, e in particolare la Guida Suprema, a lungo criticata dei fondamentalisti per essere troppo indecisa, cauta e prevedibile, a cambiare strategia.
Trump ha dimostrato finora tutta la sua riluttanza ma difficilmente potrebbe esimersi dell’entrare nel conflitto qualora gli iraniani compissero l’errore di attaccare le monarchie arabe del Golfo o tentare di bloccare il traffico commerciale nello Stretto di Hormuz. Si spiega anche in questo modo il veto che Trump avrebbe imposto all’operazione israeliana per uccidere Khamenei.

Operazione riequilibrio della regione
Chi scrive non ha dubbi nell’affermare che la Repubblica Islamica è un regime brutale e un enorme problema irrisolto per la regione. Tuttavia, se c’è una lezione che dovremmo aver imparato dalle esperienze in Afghanistan, Iraq e Libia è che abbattere un regime autoritario non è sufficiente né per migliorare le condizioni di vita della popolazione né per produrre un miglioramento dell’equilibrio politico regionale.
Al contrario, fu proprio l’abbattimento di Saddam Hussein, nemico degli ayatollah, a favorire l’ascesa dell’influenza di Teheran nella regione. Dopo il 2003 l’Iran estese la sua presa su Baghdad e, grazie all’alleanza con la Siria di Bashar al-Asad e con Hezbollah in Libano, riuscì a stabilire un corridoio terrestre che dalla capitale iraniana raggiungeva i confini di Israele. Dovremmo avere imparato, insomma, che «lo strumento militare, privo di una prospettiva politica, è solo una crudele esibizione di potenza», come ha scritto il professor Riccardo Redaelli in un recente editoriale sul quotidiano Avvenire.
L’obiettivo politico di Netanyahu sembra sempre più essere quello di giungere a un riequilibrio complessivo della regione che passa dalla caduta – o almeno dalla neutralizzazione – dell’Iran. Un esito in realtà favorevole a molti attori arabi della regione, ma il cui raggiungimento potrebbe richiedere un costo incalcolabile in termini di vite umane. L’obiettivo dichiarato di Trump era di portare la pace in Ucraina e Medio Oriente poco dopo il suo insediamento. I fatti ci dicono che Trump ha fallito. Vedremo se sarà lo stesso per Netanyahu e la sua hubris.
Articolo chiuso martedì 17 alle 12:00