L’altra faccia della guerra: la disinformazione a colpi di tastiera
Gli attacchi informatici generano false notizie. Alimentano convinzioni pericolose. Servono al potente di turno per creare consenso intorno ai propri progetti. Come dimostra la guerra in atto. Con bombardamenti informatici che producono danni ingenti. La strategia di Putin per preparare il terreno all’invasione. E il precedente delle primavere arabe.
di Andrea Avveduto
Mai come oggi, la guerra non significa solo missili, bombe e carro armati, ma anche tweet, troll, virus informatici. Putin lo ha capito da un pezzo, ed è per questo che dobbiamo guardare alla crisi tra Russia e Ucraina di oggi non solo come il rapido evolversi degli eventi, ma come un’operazione ben più complessa e iniziata anni fa.
La chiamano Cyber war, si combatte a colpi di attacchi informatici, ma è anche la guerra della disinformazione e delle fake news. E su questo, la Russia è stata maestra. Ha fatto discutere l’intervista al Vescovo di Kiev rilasciata qualche giorno fa, prima dell’invasione, riferendosi alle dicerie che circolavano in quei giorni sulla guerra e la paura della gente: «Queste notizie servono alla gente o sono strumento di manipolazione nelle mani altrui, di persone alla quali la disinformazione conviene? Lancio un messaggio a politici e giornalisti: ricordatevi sempre che ogni parola ha un peso e una conseguenza».
A conti fatti, i timori delle persone erano giustificati, ma il vescovo puntava il dito su un altro aspetto, e chi conosce da vicino la situazione sa benissimo che la guerra è iniziata ben prima, con un obiettivo più subdolo e concreto: destabilizzare l’Ucraina dall’interno. Indebolendo il paese e cercando di guadagnare una certa reputazione in Occidente, Putin ha lavorato mesi nell’ombra prima di prepararsi a sferrare l’attacco finale. E anche per il primo ministro Zelensky, la propaganda russa è una delle armi più micidiali della guerra: «Siamo sotto attacco non solo dalle bombe, ma anche dai falsi. È importante ottenere notizie vere da fonti ufficiali».
Il banco di prova
Non è un fenomeno nuovo, intendiamoci. Ma possiamo dire che l’Ucraina è stato un vero e proprio banco di prova per cominciare a sferrare degli attacchi hacker importanti, tanto da destabilizzare un paese. Un caso recentissimo è quello di venerdì 18 febbraio 2022, quando sui canali telegram dei separatisti è apparso un video poi diventato virale. Il video mostrava un gruppo di sabotatori in lingua polacca che provavano a far saltare un serbatoio di cloro in un territorio sotto il controllo dei separatisti del Donetsk.
I filorussi raccontano in questo video che i sabotatori erano stati uccisi e il video era stato recuperato dai loro cadaveri. Poi però si è scoperto che il video era stato progettato e creato alcuni giorni prima, confezionato ad hoc per avere una scusa che giustificasse l’intervento armato russo. La guerra funziona anche così. E di questo fenomeno che sta prendendo sempre più piede ne ha parlato ampiamente e magistralmente la giornalista Marta Ottaviani nel suo libro “Brigate Russe” (ed. Ledizioni), uscito nelle scorse settimane, dove tra le altre cose ripercorre le tappe di questa guerra non lineare iniziata diversi anni fa. Facciamo un po’ di ordine nei fatti.
Nel giro di due anni, tra il 2016 e il 2017, un gruppo di hacker ucraini è entrato in possesso di circa 4000 mail datate dal 2014 in poi. Appartenevano alle eminenze grigie del Cremlino, e il quadro che viene dipinto da questa marea di messaggi è impressionante. Molto semplicemente gli hacker ucraini comprendono che l’obiettivo di Mosca non era innanzitutto l’invasione, ma di spaccare l’Ucraina in due, facendo della zona sud orientale un distretto fedele a Mosca.
I piani non sono andati come Putin aveva in mente, ma alcuni risultati sono stati raggiunti: l’annessione della Crimea e la nascita delle due repubbliche di Donetsk e Lugansk. Le forti spinte separatiste vengono naturalmente incoraggiate ancora oggi, mentre lo scontro continua ad andare avanti sui diversi fronti. Mosca si è affrettata a smentire tutto, ma le analisi condotte da giornalisti indipendenti mettono bene in evidenza l’incredibile macchina della propaganda russa.
Ecco come la descrive Ottaviani nel libro: «La Russia ha cercato di interferire in ogni modo nelle elezioni ucraine, organizzando e finanziando una campagna che prevedeva una federalizzazione soft del Paese e dove i suoi sostenitori il più delle volte erano persone pagate. Grazie a questa è riuscita a creare l’illusione di un appoggio spontaneo da parte della popolazione locale e ha ingannato anche una fetta dell’opinione pubblica occidentale».
Il risultato di questo sforzo lo abbiamo avuto sotto gli occhi: Mosca da stato aggressore è diventato mediatore ai tavoli diplomatici, cercando di imporre una narrativa tendenziosa su scala globale. Putin non vuole una semplice annessione, ma desidera sedurre e conquistare la mente e il cuore degli ucraini, instillando dubbi, minando certezze.
La platea internazionale intanto si convinceva che nella parte meridionale del paese tutti fossero desiderosi di riunificarsi con la Russia, ricreando il mito dell’Unione Sovietica. Centinaia, e migliaia di post, tweet e profili finti nascono per assediare le bacheche dei nostri social network: un vero e proprio esercito. D’altronde viene proprio da dare ragione a Churchill quando ormai quasi 80 anni fa diceva che “in tempo di guerra la verità è un bene così prezioso che bisogna difenderlo con una guardia del corpo di bugie”.
Potremmo dire che questo motto a Mosca (ma non solo) è diventato un sistema. Perfetto per i nostri tempi, quando non facciamo più molta fatica a credere a tutto quello che appare sulle nostre bacheche, se ben condito con slogan populisti. Ed è proprio in questo modo che si comportavano gli account falsi creati ad hoc: alternavano commenti sull’Ucraina a momenti di vita fintamente normali, per ottenere più credibilità. Spiega ancora la Ottaviani: «Chi postava ricette, chi i video delle loro star preferite, chi i risultati dell’ultima partita di hockey su ghiaccio.
Il dilemma delle multinazionali social
Dietro quelle maschere si celava la stessa persona, che recitava a soggetto a seconda del personaggio a cui doveva dare vita. Poteva essere un padre di famiglia preoccupato per il futuro dei suoi figli, un esperto di strategia militare, una studentessa». Ognuno con una peculiarità diversa, un registro comunicativo differente per interagire con un pubblico variegato. Avvalendosi fondamentalmente di tre metodi ben precisi.
Il primo era condividere tutto il materiale che si trovava in rete, tendenzialmente falso, per dimostrare che le tesi portate avanti erano baste in realtà su fonti solide e attendibili. Il secondo metodo era poi di condividere materiale di fonti accreditate e attendibili, ma cadute nella trappola del caos prodotto da chi avvelenava le notizie.
E le aziende che fanno capo ai social network? Sembra che per ora tengano monitorata la situazione in Ucraina, ma al momento Meta, Twitter e YouTube non hanno ancora introdotto pubblicamente nuove regole per arginare le fake news, come hanno fatto per altre questioni.
Certo, rimane il tema più profondo di capire come può funzionare un apparato di bugie e far breccia in questo modo nella mentalità comune, in una società sempre più disorientata che non sa più a chi credere.
Non è forse la sede più opportuna per affrontare un tema così complesso, ma possiamo sommessamente affermare che le fake news raggiungono il loro obiettivo quando incontrano una mentalità ristretta, una pigrizia nell’acquisizione di conoscenza e anche di una certa irresponsabilità quando bisogna distinguere ciò che è vero da ciò che è falso. Alcuni governi hanno avvertito questa minaccia e hanno provato a emanare delle leggi per contenere questo fenomeno che – lo abbiamo visto – si è trasformato in un’arma di destabilizzazione di massa.
I governi oggi dicono di essere allarmati perché la soglia media d’attenzione non supera i dieci secondi, e del minimo tempo che le persone dedicano all’analisi delle informazioni che ricevono. Questo crea ovviamente un meccanismo consolidato: dove si crea un vuoto c’è sempre qualcuno pronto a riempirlo. Con dubbi, illazioni, vere e proprie bugie create all’occorrenza.
Lo ha capito Putin, ma non solo. Non dimentichiamoci che le primavere arabe sono state raccontate in gran parte dagli studi cinematografici del Qatar. Con Churchill, purtroppo bisogna dare ragione anche al ministro della propaganda nazista Joseph Goebbels quando diceva che “una bugia raccontata dieci volte con convinzione, l’undicesima volta diventa una verità”. E intanto sono sempre di più le guerre che vengono combattute con le penne dei leoni da tastiera, pagati profumatamente per twittare a colpi di fake news. La penna rimane sempre più potente della spada. Oggi più di allora.