Alasdair MacIntyre. Dopo la virtù, la regola e la riscoperta della vita buona
A partire dall’immagine conclusiva di After Virtue, questo articolo ripercorre la critica di Alasdair MacIntyre, il filosofo scozzese morto lo scorso 21 maggio, alla modernità morale, mettendo in luce la centralità della virtù come pratica comunitaria e storicamente situata. In dialogo con Aristotele, ma anche con Nietzsche e con la crisi del progetto illuminista, MacIntyre propone un ritorno alla “vita buona” attraverso la riscoperta di tradizioni vive e incarnate. La figura di San Benedetto diventa così metafora di una rinascita possibile: non imperiale, ma comunitaria
6 giugno 2025
Etica incarnata
di Marco Dotti

C’è un’immagine che chiude After Virtue, libro seminale del filosofo scozzese Alasdair MacIntyre, apparso nel 1981, tradotto in oltre quindici lingue e capace, come pochi, di segnare decenni di riflessione etico-morale.
È un’immagine carica, e forse persino sovraccarica, di densità simbolica: siamo in attesa non di un nuovo Cesare, ma di un altro San Benedetto. Non un capo, ma un custode. E come ogni immagine di questo tipo, anche questa è stata spesso fraintesa: si è pensato a un ritorno nostalgico al passato, a un ritiro dalla storia. Al contrario. «Ciò che conta in questa fase», scrive Alasdair MacIntyre in Dopo la virtù, «è la costruzione di forme locali di comunità all’interno delle quali la civiltà e la vita intellettuale e morale possano essere sostenute durante le nuove età oscure che sono già su di noi». E se la tradizione delle virtù è riuscita a sopravvivere agli orrori delle età oscure che il nostro mondo ha attraversato, conclude, «non siamo del tutto senza speranza. Stiamo aspettando non Godot, ma un altro – senza dubbio molto diverso – San Benedetto».

La modernità come frammento
MacIntyre non invoca restaurazioni. Invita a scrutare l’orizzonte. Nell’attesa che si presentino segnali di nuove fondazioni. Le stesse che rendono possibile, nelle epoche di transizione, la sopravvivenza di un’idea di bene condivisa. La sua filosofia – e qui l’omaggio a Benedetto trova senso – è un invito a riscoprire la virtù come pratica incarnata, non come principio astratto.
Nato il 12 gennaio 1929 a Glasgow e scomparso il 21 maggio scorso, MacIntyre ha attraversato quasi un secolo con un pensiero sempre più ostinatamente controcorrente. Formatosi tra marxismo e tomismo, convertitosi al cattolicesimo negli anni Ottanta, è stato professore in università prestigiose come Oxford, Princeton, Notre Dame. Nel suo quasi secolo di vita, ha assistito alla nascita e alla caduta di ideologie, al collasso dei linguaggi morali, alla disgregazione delle tradizioni. Ma After Virtue resta, oggi più che mai, un lascito decisivo non segnato dal tempo: un libro che diagnostica, con la precisione e attenzione, la condizione della modernità, nata da una crisi radicale. Una crisi del giudizio etico.
Non è un caso che, nel suo linguaggio spesso evocativo, MacIntyre apra After Virtue con un apologo. Immagina così un mondo post-apocalittico in cui la scienza è stata distrutta e ciò che ne rimane sono frammenti: formule sconnesse, lessico tecnico decontestualizzato. Gli uomini parlano ancora di “protoni” e “neutrini”, ma non sanno più cosa siano. «Una simulazione di scienza», scrive. Ecco: la nostra condizione morale è simile. Continuiamo a usare parole come “dovere”, “giustizia”, “bene”, ma le abbiamo private del contesto di senso che le rendeva intelligibili.
In questo scenario, la virtù è diventata orfana. L’etica moderna, ci dice MacIntyre, avrebbe smarrito il proprio telos, il fine umano, per paura di ogni finalità, di ogni discorso. In altri termini; per paura di doversi confrontare col senso, scoprendo il proprio non senso. Dopo il fallimento del progetto illuminista di fondare la morale su basi razionali universali, ciò che resta è solo una disputa infinita tra pretese incommensurabili: utilitaristi, kantiani, contrattualisti. Tutti con pretese assolute, tutti con argomenti deboli.

La virtù come pratica, non come principio
Ma cosa sono le virtù per MacIntyre? Qui il filosofo riscopre Aristotele, e lo fa, come avrebbe detto un poeta a lui caro, Costantino Kavafis, «contro il vento e contro il tempo». La virtù, spiega il filosofo, non è una qualità privata. È una pratica sociale, una forma di eccellenza coltivata all’interno di una comunità storicamente situata. Non è “fare il bene” in astratto, ma diventare buoni attraverso il proprio mestiere, la propria tradizione, il proprio racconto.
C’è una differenza, sottile e decisiva, tra “avere delle virtù” e “essere virtuosi”. La virtù è ciò che tiene insieme una vita umana nella sua unità narrativa: “Il sé umano – scrive – non ha identità se non quella che deriva da questa storia di cui è l’eroe”. In questo senso, l’etica non è mai individuale. È sempre un’etica della partecipazione, della trasmissione, della tradizione.
La crisi della modernità è dunque la crisi di un linguaggio etico che ha reciso le proprie radici teleologiche. In un celebre passaggio del suo libro, MacIntyre chiede chi, oggi, siamo disposti a scegliere: Nietzsche o Aristotele? O l’uomo che va oltre l’uomo e che crea i propri valori nel vuoto, o l’essere umano che scopre il bene, vivendolo e condividendolo all’interno di una forma di vita comune. MacIntyre ha grande rispetto per Nietzsche. Ne riconosce la lucidità distruttiva e l’estrema, radicale onestà. Ma rifiuta la sua soluzione. Perché una morale senza telos finisce per essere solo volontà di potenza mascherata.
In questo senso, la via che resta da percorrere dopo la virtù è la via di una tradizione intesa non come solco, ma come continua interrogazione del vivente. Parlare di “tradizione” non significa, infatti, parlare di staticità. La tradizione, rimarca MacIntyre, non è mai chiusa: è una conversazione viva, una ricerca in divenire. È ciò che ci permette di giudicare criticamente il presente senza cadere nel relativismo. Solo dentro una tradizione possiamo dire che certe pratiche sono sbagliate, che certi modi di vivere sono disumani. La tradizione è la condizione stessa della possibilità di critica. Non nega la ragione: la storicizza.

L’emotivismo come sintomo della crisi morale
Un nodo centrale della diagnosi di MacIntyre è l’emotivismo, ovvero la riduzione dei giudizi morali a mere espressioni di preferenze soggettive. Come ha osservato l’attento Simone Paliaga su Avvenire, qualsiasi considerazione morale, quando cade nell’emotivismo, diventa un’espressione consapevole o non riconosciuta di preferenze individuali. Difettando così di qualsiasi principio di valutazione razionale e rendendo ardua la costruzione di un progetto di vita condiviso (Avvenire, 26 maggio 2025). Un punto ricordato anche da Jane O’Grady che, sul Guardian, ha scritto come «MacIntyre proponesse una rivisitazione dell’aristotelismo secondo cui la moralità non è un insieme di principi astratti selezionati autonomamente, ma una narrativa sociale (social narrative) in cui la nostra narrazione personale si inserisce» (The Guardian, 25 maggio 2025). Da qui l’importanza delle trame di senso condivise. Di forme locali di comunità in cui rigermini il senso dell’io e del noi. E così torniamo alla regola di San Benedetto. Benedetto non fonda un’utopia. Fonda una comunità. O meglio: delinea un itinerario verso la comunità. Una regola. Una forma di vita in cui la virtù è custodita nel quotidiano, nel lavoro, nello studio, nella preghiera. L’ora et labora è un’anticipazione del futuro. Un solco che apre il terreno del reale, fecondandolo col possibile.
«Un punto di svolta decisivo in quella storia più antica – scrive MacIntyre – si ebbe quando uomini e donne di buona volontà si distolsero dal compito di puntellare l’imperium romano e smisero di identificare la continuazione della civiltà e della comunità morale con la conservazione di tale imperium. Il compito che invece si prefissero (spesso senza rendersi conto pienamente di ciò che stavano facendo) fu la costruzione di nuove forme di comunità entro cui la vita morale potesse essere sostenuta, in modo che sia la civiltà sia la morale avessero la possibilità di sopravvivere all’epoca incipiente di barbarie e oscurità. Se la mia interpretazione della nostra situazione morale fosse esatta dovremmo concludere che da qualche tempo anche noi abbiamo raggiunto questo punto di svolta. Ciò che conta, in questa fase, è la costruzione di forme locali di comunità al cui interno la civiltà e la vita intellettuale e morale possano essere conservate attraverso i nuovi secoli oscuri che già incombono su di noi».
MacIntyre invita a pensare comunità virtuose non come enclave, ma come spazi di esistenza in alternativa alla dissoluzione morale di un individualismo moderno che depaupera il soggetto e le sue forme di relazione. L’etica, se vuole essere tale, deve tornare a essere incarnata. E per incarnarsi, ha bisogno di luoghi, di pratiche, di memoria. In una parola: di comunità vive, attive. Forse per questo, nonostante il quasi mezzo secolo passato dall’edizione del suo nucleo originario, la tesi di Dopo la virtù continua a risuonare come una eco antica e al tempo stesso innovatrice. La verità non si possiede, si abita, sembra ribadire. Non ci serve un nuovo imperatore. Non arriverà Godot in questo finale di partita. Serve qualcuno che semini e semini e semini ancora in luoghi dove la virtù possa tornare ad avere senso. Senza paura di confondere il cammino con la meta.