Arcipelago GULag, cinquant’anni dopo: la Storia non si cancella

Solženicyn

Mezzo secolo fa usciva, stampato a Parigi (Il KGB aveva confiscato il “pericoloso” manoscritto), il saggio di inchiesta narrativa scritto da Aleksandr Solženicyn. Quell’opera fece scalpore in tutto il mondo perché mandava in frantumi anni e anni di menzogne e illusioni legate all’Urss. L’intento dell’autore non fu quello di opporre un’ideologia a un’altra, ma di andare al fondo della propria umanità. Una testimonianza che fa ancora rumore. Che dice molto a questo presente di guerra e di rigurgiti totalitari.


02 giugno 2023
di Angelo Bonaguro

Alexandr Solzhenitsyn @Sternenberg

Quando il 18 novembre 1962 sul mensile letterario sovietico Novyj Mir uscì
Una giornata della vita di Ivan Denisovič, l’allora sconosciuto scrittore Aleksandr Solženicyn aveva già alle spalle 8 anni di lager e il confino.
Il racconto suscitò notevole scalpore per il suo contenuto – la giornata di un detenuto politico in un campo di lavoro, – e le copie si esaurirono presto.
«Il Denisovič mi mise in una situazione eccezionale – scrisse l’autore: – centinaia di persone m’inviarono testimonianze sui lager; dovevo dar loro ascolto, raccogliere, elaborare. Così cominciai a comporre l’Arcipelago».

Due inverni di scrittura instancabile
Era dal 1958 che Solženicyn pensava ad un affresco storico sul sistema carcerario sovietico: l’istruttoria, i processi, i trasferimenti, le colonie penali, il confino e la trasformazione interiore dei detenuti…
Allo scrittore interessava conservarne la memoria, per impedire che la tragica esperienza di milioni di uomini fosse cancellata per sempre e condannata all’oblio.
La stesura dell’Arcipelago GULag gli prese due inverni di lavoro instancabile, nascosto in un casolare sperduto, in Estonia, e aiutato da una stretta cerchia di amici, «nella cospirazione più assoluta», perché l’epoca del «disgelo» avviato con Chruščev si stava rapidamente concludendo.
Alla fine dell’estate del 1973 il KGB confiscò il manoscritto, e Solženicyn dispose di farlo uscire da YMCA Press a Parigi. Dunque, sono passati cinquant’anni.
La portata del «saggio di inchiesta narrativa» fu enorme. Il filologo Vladimir Kotel’nikov ha osservato che dopo l’Arcipelago «non si poteva più scrivere, né pensare, né parlare come tutti avevano fatto fino ad allora» ed ha aggiunto che grazie a quel testo «in Russia è stato frantumato il male totale, impersonale, anonimo»: «Tracciando una panoramica storica delle istanze punitive degli anni ‘20-30, abbozzando ripugnanti ritratti di coloro che pianificarono e realizzarono repressioni senza precedenti per crudeltà e dimensioni, egli pone una domanda inevitabile: “Da dove viene questa razza di lupi nel nostro popolo?”.
La risposta scaturisce dall’intera narrazione: il male si è annidato nelle parti delle nostre viscere rimaste impenetrabili alla luce del cristianesimo, non toccate dallo Spirito, non sviluppate nella comunione umana».

Solzhenitsyn al primo internamento

Un percorso di purificazione interiore
Nel suo viaggio tra i gironi danteschi del GULag, raccontati ora in prima persona ora riprendendo le testimonianze raccolte, Solženicyn testimonia come anche nelle peggiori situazioni sia possibile incamminarsi lungo un percorso di purificazione interiore. Come spesso avviene negli ambiti del dissenso dell’Est, l’intento dell’autore non è quello di opporre un’ideologia a un’altra, ma di andare al fondo della propria umanità: «Se fosse così semplice! Se da una parte ci fossero uomini neri che tramano malignamente opere nere e bastasse distinguerli dagli altri e distruggerli! Ma la linea che separa il bene dal male attraversa il cuore di ognuno. Chi distruggerebbe un pezzo del proprio cuore? (…) Ci fermiamo stupefatti davanti alla fossa nella quale eravamo lì lì per spingere i nostri avversari: è puro caso se i boia non siamo noi, ma loro».
L’autore pone a sé stesso questa domanda, ed esige che ciascuno di noi faccia altrettanto: «Se la mia vita avesse preso una piega diversa, non sarei diventato boia anch’io? È una domanda paurosa, se si vuole rispondere onestamente».
Il giovane capitano Solženicyn, che nel febbraio 1945 fu arrestato per aver espresso critiche a Stalin in una lettera a un commilitone, all’inizio era ancora animato dalla presunzione: «Ero fiero di essere arrestato, non per furto, non per diserzione o tradimento, ma perché con la forza dell’intuito avevo penetrato i malvagi segreti di Stalin».
Ma mentre rimuginava i «malvagi segreti» del «tiranno asiatico», altri soldati semplici, prigionieri come lui, portavano a turno la sua ingombrante valigia; e quando uno di loro era spossato dal peso, un altro, «un prigioniero di guerra che aveva sperimentato Dio sa cosa durante la prigionia tedesca (e forse anche la misericordia), prese di sua volontà la valigia per portarla. La portarono dopo di lui gli altri prigionieri di guerra, anch’essi senza alcun ordine della scorta. Ma non io… Volevo, e forse avrei anche potuto, migliorare appena appena la nostra vita russa. Intanto, altri portavano la mia valigia…».

La memoria è il tuo tascapane da viaggio
Nel suo percorso catartico Solženicyn ha modo di convincersi che «dietro fisionomie ordinarie si celano anime straordinarie».
È il tema della memoria e degli incontri, di cui è costellato l’Arcipelago: «La memoria sia il tuo tascapane da viaggio. Ricorda, fissa nella memoria (…).  Guardati intorno, sei circondato da uomini», e «quando capitava un uomo interessante bisognava farlo parlare senza porre tempo in mezzo, altrimenti lo si sarebbe mancato per la vita».
In quest’ottica, passano in secondo piano persino le pagine dedicate alla ricostruzione storica, altrettanto significative: è l’io, è il cuore dell’uomo che il capitano Solženicyn impara a conoscere nel GULag, e ce ne dà formidabile testimonianza.
«Hai risposto a qualcuno in tono irato? Vuol dire che non lo hai ascoltato bene e non hai saputo comprendere il suo modo di vedere. (…) È l’ascesa. Prima non perdonavi nulla a nessuno, implacabilmente condannavi e osannavi con pari irruenza; ora una serena tolleranza pronta a perdonare tutto, sta alla base dei tuoi giudizi, non più categorici. Ora che hai capito la tua debolezza, puoi capire la debolezza altrui, così come puoi capire la forza altrui. Forse non impari ad amare il prossimo da cristiano, ma impari ad amare chi ti sta vicino. I vicini in spirito, coloro che ti circondano in prigionia. Quanti di noi hanno dovuto ammettere che in carcere hanno conosciuto per la prima volta un’autentica amicizia!».
Per questo al termine del suo percorso potrà dire: «Sulla mia schiena curva portai fuori dagli anni di prigione l’esperienza di come l’uomo diventa malvagio e come diventa buono… A poco a poco mi si rivelò che la linea di demarcazione fra bene e male passa non fra gli Stati, non fra le classi, non fra i partiti, ma attraverso ciascun cuore umano, e attraverso tutti i cuori umani».

Oggi è un’opera da rimuovere
Dopo la pubblicazione all’estero dell’Arcipelago, nel febbraio 1974 Solženicyn fu privato della cittadinanza sovietica ed espulso dal paese.
In Russia l’opera completa poté uscire solo nel 1990. Dal 2009 Arcipelago GULag è stato inserito nei programmi scolastici per volere dell’allora primo ministro Vladimir Putin dopo un incontro con la vedova dello scrittore.
Oggi un alto funzionario del partito Russia Unita, il cui leader è lo stesso Putin, ha proposto di rimuovere l’opera perché «infangherebbe la patria».
Secondo Roman Romanov, direttore del Museo del GULag di Mosca, questa iniziativa è solo la reazione nei confronti di un passato scomodo: «Credo tuttavia che possiamo accettare quell’esperienza e superare la negazione del nostro passato». Ma in epoca di guerra, quando riemerge cupa la mitologia sovietica, è assai difficile. «La memoria è il punto debole dei russi – ammoniva Solženicyn, – soprattutto la memoria del male».