C’era una volta l’Ilva

La vicenda sconclusionata di questa società siderurgica che ha a Taranto il suo maggiore polo produttivo è emblematica di un modo tutto italiano di rapportarsi con le grandi realtà industriali. In questo Paese rimane assai complicato “fare impresa”. Davanti alle difficoltà ci si è mossi arenandosi, assecondando i problemi piuttosto che perseguendo la via delle soluzioni (in Italia privatizzare è un’attività complicatissima). Con il privato sempre sotto schiaffo di una politica di corto respiro. E con lo Stato continuamente impegnato a iniettare denaro pubblico per salvare il salvabile. Adesso, ecco il commissariamento. E tanta confusione sotto il cielo. Una storia sbagliata…

      


26 gennaio 2024
Le privatizzazioni mancate
di Gianfranco Fabi   

Può sembrare paradossale, ma tutto lascia credere che sarà imboccata in senso contrario la strada delle privatizzazioni, una strada indicata come una priorità dal Governo per rispettare i vincoli di finanza pubblica. Siamo di fronte, infatti, alla necessità di una sostanziosa iniezione di denaro pubblico per il salvataggio di una delle maggiori e più problematiche imprese italiane: le Acciaierie d’Italia, l’ambizioso nome che è stato dato all’Ilva, la società siderurgica che ha il maggiore polo produttivo a Taranto.

Tutti insieme appassionatamente

Lo stabilimento pugliese non è solo il più grande d’Europa e uno dei pochi a realizzare un ciclo integrato, dalla materia prima ai laminati finiti, ma è anche uno dei simboli di una dimensione tipica della realtà italiana, quella della confusione delle funzioni.
A Taranto negli ultimi trent’anni sono intervenuti tutti: la magistratura, gli enti locali, i sindacati, il Governo, gli imprenditori privati, con il risultato che ognuno è sembrato impegnarsi per la sua parte a provocare problemi più che a indicare (o realizzare) soluzioni.
Nelle vicende degli ultimi trent’anni, infatti, si possono leggere tutti i punti critici di un Paese alle prese con un impegno storico: quello di restituire importanti settori industriali al mercato, quindi alle logiche dell’imprenditoria e della concorrenza.
Con due obiettivi di fondo: in primo luogo inserire in questi settori logiche di efficienza e di innovazione, e poi aiutare con i proventi delle privatizzazioni il sempre indispensabile risanamento delle finanze pubbliche. Senza dimenticare che per anni molte attività avevano potuto mantenersi in vita grazie ad aiuti di Stato diventati sempre più difficili da giustificare per le regole del mercato unico europeo.
E così all’inizio degli anni ’90 si avvia un ambizioso e vasto piano di privatizzazioni, dato che era molto estesa la presenza dello Stato nell’economia: non solo acciaio, ma anche banche, telefoni, autostrade, linee aeree. Con pochi successi e molte vicende che dopo trent’anni non hanno ancora trovato soluzione come nel caso dell’Alitalia per la quale solo ora si intravvede una via d’uscita grazie all’accordo di Ita con Lufthansa.

Le gravi perdite

Per l’acciaio la privatizzazione si era resa indispensabile per evitare il fallimento dopo le gravi perdite del triennio 91-93. Il gruppo Finsider (un colosso dell’acciaio di importanza strategica dal profilo industriale, ma un colabrodo come andamento finanziario) venne posto in liquidazione scorporando l’Ilva con i grandi impianti a ciclo integrale ceduta al gruppo Riva, l’Ast (Acciai Speciali Terni) -che venne acquisita dal gruppo ThyssenKrupp- e la Dalmine che passò sotto il controllo della Techint.
La gestione ThyssenKrupp venne funestata dal disastro di Torino in cui morirono sette operai e gli stabilimenti italiani vennero poi ceduti al gruppo Arvedi.
La realizzazione negli anni ’70 del mega-centro siderurgico di Taranto, sull’onda di un miracolo economico che peraltro si era ormai arenato, aveva permesso all’Italsider di quadruplicare la sua capacità produttiva, ma aveva portato con sé anche un continuo aumento delle perdite e soprattutto dell’indebitamento e degli oneri finanziari. Taranto era il quarto centro siderurgico controllato dallo Stato e si aggiungeva a quelli di Bagnoli, Cornigliano e Piombino.
In quegli anni si era iniziato a progettare anche un quinto polo produttivo a Gioia Tauro, ma non si andò oltre alla realizzazione del porto, presto riconvertito alla movimentazione dei container.
Il centro di Taranto, con un valore stimato di 4mila miliardi (di lire) venne pagato dal gruppo Riva 1.400 miliardi. L’impegno non era solo quello del rilancio e del risanamento dei conti, che peraltro avvenne nei primi anni, ma anche quello degli investimenti per ridurre l’impatto ecologico di uno stabilimento sempre più messo sotto accusa per l’inquinamento ambientale per le polveri e le emissioni nocive.

Stabilimento Ilva a Taranto

La querelle ambientale

È proprio quello dell’ambiente il più importante punto di crisi per Taranto con le proteste dei cittadini e successivi interventi della magistratura culminati nell’ordinanza del Tribunale di Taranto che nel 2012 decretava il sequestro dell’acciaieria per “grave violazione ambientale”.
I vertici dall’azienda, da Emilio Riva al figlio Nicola, sono finiti sotto inchiesta e condannati. Sul fronte industriale inizia a questo punto un difficile e controverso impegno dei Governi con successivi interventi normativi e finanziari. Un primo decreto salva-Ilva viene varato dal Governo di Mario Monti per evitare la chiusura dello stabilimento autorizzando il proseguimento della produzione.
Come hanno commentato Marco Onado e Pietro Modiano nel libro “Illusioni perdute”, l’insuccesso della gestione Riva dimostra come «il capitalismo italiano non è riuscito ad uscire dai propri limiti genetici, limiti che finiscono per sovrastare virtù manageriali e imprenditoriali spesso notevoli e che quasi sempre hanno a che fare con una carente cultura del rispetto delle regole, in questo caso in materia ambientale e fiscale, che stanno alla base del patto sociale e che dovrebbero connotare una classe dirigente».
Non si può a questo punto non ricordare come esito ben diverso hanno avuto le privatizzazioni di Ast e soprattutto di Dalmine, completamente risanata e rilanciata dalla gestione della Techint della famiglia Rocca.

Decreti su decreti

A Taranto usciti di scena i Riva vengono poi successivi decreti per garantire alla nuova proprietà, individuata  in ArcelorMittal, una copertura da eventuali ricadute penali nella gestione operativa.
Soprattutto durante i due Governi di Giuseppe Conte lo scudo penale ha peraltro sollevato non poche critiche e contrasti all’interno di un partito, i 5 Stelle, che avevano fatto della legalità una parola d’ordine e un punto d’onore.
Ma negli ultimi anni si sono sempre cercati difficili compromessi con accordi bizantini che hanno reso ancor più complessa una gestione già di per sé difficile con il rapporto tra parte pubblica, individuata in Invitalia, l’agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa di proprietà del ministero dell’Economia, e gli imprenditori privati di ArcelorMittal.
L’azienda indo-francese, il più grande produttore di acciaio del mondo con impianti in più di 60 paesi, ha peraltro dimostrato di considerare la gestione di Taranto in modo strumentale minimizzando gli impegni finanziari e i nuovi investimenti che sarebbero stati necessari per modernizzare un impianto complesso, di costosa gestione e di vecchia concezione.

Il tema della riconversione dell’Azienda ILVA, il tema della salute e quello ambientale

L’ombrello statale

L’Ilva, ora Acciaierie d’Italia, tornerà quindi sotto l’ombrello dello Stato. Ci sarà un nuovo commissario per l’ennesimo traghettamento verso un traguardo per ora indefinito. Eppure in Italia non mancano imprenditori di grande esperienza nel mondo dell’acciaio: da Marcegaglia a Gozzi, da Arvedi a Pasini, da Rocca a Beltrame. Ci sarebbero in teoria tutte le esperienze e le competenze necessarie, come peraltro ci si aspettava dalla famiglia Riva. Ma mancano le dimensioni. I primi dieci gruppi italiani dell’acciaio fatturano insieme un quarto di quanto fatturi ArcelorMittal nel mondo.  

La fatica di Sisifo

Un tempo ci si riferiva all’acciaio parlando di industria pesante, sia per la natura dei prodotti, sia per la necessità di un forte apporto di capitali e tecnologie. A queste definizioni ora si può aggiungere la complessità della situazione: soprattutto se, come detto, bisogna fare uno slalom continuo tra le rivendicazioni dei sindacati, le incursioni della magistratura, le pressioni dei politici, le incertezze dei mercati, le potenzialità dell’innovazione, la scarsità dei capitali, il necessario rispetto dell’ambiente.
Tutti elementi nobili e giusti. Ma che messi tutti insieme rendono la gestione di un’impresa una sfida continua. Una fatica di Sisifo.