Cormac McCarthy: l’uomo e la sua disperata speranza

Quel che ci lascia il grande scrittore americano morto il 13 giugno sono libri pieni di tutto. Quindi di vita intera. Romanzi che vedono lontano e prima. Che respingono la facile consolazione. Perché la realtà va vissuta da uomini veri. In terra di confine. Su scomodi cavalli. Senza chinarsi alla rassegnazione. Perché con la vita si duella. Come nei western. Magari con la Bibbia sul tavolo troppo segnato.


7 Luglio 2023
letteratura dell’adesso
di Enzo Manes

Cormac McCarthy

Cormac McCarthy avrebbe compiuto novant’anni il 10 luglio. Invece si è spento il 13 giugno nella sua appartata residenza di Santa Fè, New Messico, profondo Sud degli Stati Uniti.  Prima di andarsene ha lasciato due romanzi a cui ha lavorato per anni: “Il passeggero” e “Stella Maris”. Negli Usa usciti insieme, in Italia, “Stella Maris” avrà distribuzione dopo l’estate. Sempre per Einaudi, come per tutti i suoi libri. Due romanzi che possono vivere separatamente, ma assolutamente intrecciati.
McCarthy ha reso la sua letteratura un intreccio totale con la vita che non risparmia nulla. In quel che ha scritto niente è mai risultato innocuo. Ha plasmato storie di individui sempre al limite, se non oltre, innervate da una diffusa sete di disperata speranza. Verità e non ossimoro.
Ha scritto secondo i suoi tempi, quando aveva da dire qualcosa. Se lo è preso tutto il tempo che gli occorreva Ha parlato quasi solo con i suoi romanzi, i suoi pensieri li trovi nella sua letteratura, in quella lingua severa, asciutta, memorabile esaltata nei dialoghi ordinari, viscerali, appesi a un esile filo che, nonostante i travagli, pare tenere e trattenere l’essenziale. Non cercava altre forme per esprimersi, non certo le interviste che rifuggiva. Le interviste, diceva, fanno male alla testa di uno scrittore. «Se hai qualcosa da dire: scrivi».

Lontano dalle domande ipotetiche

Così ha fatto. Quella di Cormac McCarthy non è una letteratura di domande ipotetiche. Non ha mai girato intorno alle cose. Non si è affidato ai se. La sua è una letteratura dell’adesso. Dell’urgenza dell’adesso: dei delitti, delle pene, delle odissee, dei viaggi, della frontiera, dei confini, dei deserti fisici e metafisici, della civiltà occidentale sderenata tra l’olocausto e l’atomica di Hiroshima, dell’America sudista delle facce bruciate e dei ranch che sono più autentici della patinata Manhattan. Del sangue che scorre nei morti ammazzati, dell’epica dei duellanti, del tanto male, dell’inferno sulla terra, dell’inferno che, però, non incenerisce tutto. Delle domande che sono solo una domanda: che affiora a modo suo. Non certo per mettersi d’accordo con la vita ma per impastarsi con la vita. McCarthy vede nel presente quel qualcosa che ai più sfugge e non solo per distrazione. Gli scrittori discordanti e poco confortevoli sono fatti di questa pasta. Uomini, null’altro. E allora, in ogni parola, McCarthy non poteva che farci i conti con gli uomini. Uomini nelle loro storie sgangherate. Il più spesso terribili. Storie piene di cose che si muovono e li muovono anche quando il tempo sembra procedere appena. Piene di vita fangosa. Nei luoghi derelitti di vita. Ha detto, una volta: “Le cose separate dalle loro storie non hanno senso. Sono semplici forme. La storia, d’altro canto, non può mai venir separata dal luogo al quale appartiene, perché essa è quel luogo”. La storia è il luogo. La storia è Dio nella storia. È Dio nel luogo. McCarthy non ci prova nemmeno a cacciarlo via. Dio c’è reso nella maniera rude di uno scrittore mai appagato, del Sud fino al midollo, a cavallo su una sella francamente insicura.

Foto ©Richard Misrach, Animals

Il fuoco della vita che resta acceso

Come prendere allora parte ai romanzi di McCarthy? Da dove incominciare la traversata con lui? Da qualsiasi parte peschi bene. Azzardiamo: a cavalcioni sul quadrupede per cavalcare la “Trilogia della frontiera”: “Cavalli selvaggi”; Oltre il confine”; “Città della pianura”. Cioè: Il viaggio iniziatico del giovanissimo cowboy Billy e del suo fratellino Boyd, a cavallo fra Texas e Messico. Un attraversamento fisico e metafisico, ovviamente con i tempi del western. Gli incontri sono fatti, il confine è più di una meta da raggiungere e varcare, i duelli sono nelle circostanze che si impongono. E anche le bestie sono personaggi. Perché nulla vive per caso.
Poi? Per seguirlo in quel che McCarthy intende per disperata speranza ecco “Suttree” (scritto nel 1979 e pubblicato in Italia nel 2009). Il protagonista è proprio uno dei suoi, ne ha viste e patite, la sua solitudine mette a disagio (così è troppo!); eppure, la sua condizione quasi estrema, desolante e desolata, non lo annulla. C’è dell’altro in quell’uomo disarcionato dalla vita. McCarthy non lo molla a quel che parrebbe un destino segnato dalla sconfitta su tutta la linea. E nella franchezza descrittiva ci provoca a non allontanarlo da noi. Perché, guardandoci allo specchio, potremmo imbatterci nella sua dolente figura.
“La strada”, Premio Pulitzer 2007. Padre e figlio, McCarthy non attribuisce loro un nome, avanzano su un terreno che punta a Sud. Per vivere, per scampare alla distruzione, agli effetti di una catastrofe originata da qualche accadimento che non viene esplicitato. In un contesto slegato tra padre e figlio cresce un legame che commuove. L’amore non può essere schematico:

Ce la caveremo, vero, papà?
Sì. Ce la caveremo.
E non ci succederà niente di male.
Esatto.
Perché noi portiamo il fuoco?
Sì. Perché noi portiamo il fuoco.

In un mondo spazzato via il fuoco della vita rimane acceso in quella relazione, così naturale. L’umano resiste, non si scioglie come la neve che si posa sulla mano del figlio.  Questo è l’ispiratissimo McCarthy de “La strada”: «Tutte le cose piene di grazia e bellezza che ci portiamo nel cuore hanno un’origine comune nel dolore. Nascono dal cordoglio e dalle ceneri. ‘Ecco’ sussurrò al bambino addormentato. ‘Io ho te’».

Foto ©Richard Misrach, Desert fire, 1985

Temi che non danno scampo

Con “Non è un paese per vecchi” (2005) rieccoci in Texas, lungo il confine con il Messico. Il male si prende il centro della scena. La violenza è sfuggita di mano, il grilletto facile è il ritornello quotidiano. Anton Chigurth incarna quel presente ormai cieco di valori. Lui fa dell’assassinio una legge. Prova a braccarlo lo sceriffo Bell. Mentre, entrambi, sono sulle tracce di un reduce del Vietnam, un certo Llewelyn Moss, che si è trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato. Lui che si era illuso di aver sfruttato la materiale e fruttifera occasione di una carneficina fra narcotrafficanti. Un romanzo infernale, che mozza il respiro. Laddove lo sceriffo Bell non ha scartato dalla propria vita i valori della convivenza codificata che hanno segnato il Texas.

“Sunset Limited” (2006) non è un romanzo, ma una sceneggiatura teatrale. Anche qui, come ne “La strada” i nomi non importano. Il duello, fatto di incalzanti domande e risposte, è fra un bianco e un nero. Sul tavolo, una Bibbia. Nel loro dialogare così serrato e sempre più acuminato non vi è scarto, ma tutto è sostanza. Stare al mondo e come starci è il punto. È il tema: carne, sangue. Nel loro duro confronto si ragiona non per assecondare l’arte del ragionamento. Si ragiona perché le domande abbiano un senso, affondino in quel che conta per davvero. A McCarthy non interessa buttarla sulla consolazione. Non è cosa per uno scrittore che ha scelto di azzannare la letteratura come si fa come la carne al sangue, solo scottata. Il libro si legge in poco più di un’ora. Poi lo si rilegge. Perché quelle domande non danno scampo, non possono darlo.

E siamo a “Figlio di Dio” (1973). Il protagonista è tale Laster Ballard, un personaggio respingente, brutto, piccolo, rozzo, con il viso affondato in una barba che quasi lo nasconde come una maschera desolata. Spavaldo. Vive nell’abbandono. Uno così non può che cadere, sprofondare giù: viene condannato innocente per violenza carnale. È un libro dove la violenza domina. Il titolo provoca indirizzando: che nessuno sia innocente pur figlio di Dio? Il culmine del degrado umano si raggiunge con “Meridiano di sangue” (1985). Massacri, aggressioni, asfissia. Prevale in modo inesorabile l’insensatezza della violenza cifra di una vita che pare perdersi in pozze di sangue vivo e rappreso. Un assaggio del clima irrespirabile che si respira in quelle pagine che comunque attraggono è doveroso:

«Gli uccisi giacevano in una grande pozza di sangue comune. Si era rappreso in una specie di budino segnato da orme di lupi o cani, e ai margini si era seccato e crepato come una ceramica rosso borgogna. C’era sangue che si allungava in lingue scure sul pavimento e c’era sangue che copriva come malta le pietre del lastricato e correva nel portico dove le pietre erano state scavate dai piedi dei fedeli e da quelli dei loro padri prima di loro, ed era colato giù lungo gli scalini e sgocciolato dalle pietre fra le tracce rosso scuro dei devastatori».

L’infelicità è una scelta

E veniamo a “Il passeggero”, uscito in Italia da poco più di mese. L’uomo della storia è Bobby Western (il cognome è perfetto per il McCarthy pensiero, così tanto cowboy). Sappiamo che gli è morta la sorella Alicia, suicidatasi per il Natale: il regalo che non ti aspetti. Bobby ha ottimi studi alle spalle, non proprio geniale come la sorella, matematica sopraffina. Ora, perché non gli è andata per il verso giusto, fa il sommozzatore di recupero. Durante un’immersione nel Mississippi trova un velivolo intatto, con i corpi senza vita di nove persone perfettamente accomodati al proprio posto. Nessuno ha scritto un rigo su quell’inabissamento. Non si trova la scatola nera. Strano, pensa Bobby. Ma la stranezza maggiore la scopre quando due tipi lo raggiungono a casa per saperne di più visto che nel velivolo manca il decimo corpo. Il decimo passeggero è scomparso. E i due chiedono a lui. Naturalmente non ottengono risposta perché Bobby Western non sa nulla di quel mistero. Non gli credono i due figuri, forse al soldo dell’Fbi o di altra agenzia governativa. Quel fattaccio enigmatico rischia di far molto male a Bobby. Allora decide che è meglio fuggire dall’inevitabile arresto. Si tratta di una fuga, anche qui fisica e metafisica. Di disperata speranza. Scandita da incontri sinceri, da perdite che fanno male, vere quindi. Il libro racconta del rapporto fra Bobby e l’amata sorella. Di persone che intendono aiutarlo (indimenticabile l’amica trans Debussy Fields). Con disinteresse, sono le diverse forme dell’amore e dell’amicizia che esistono anche in quel mondo buio, misterioso, fatto di caccia all’uomo e di fuga per vivere senza magari non dover più inabissarsi. Però, chi cerca ancora il sogno americano è un illuso, non può che andare a fondo come quei passeggeri, scomparso compreso. McCarthy lo ha sempre scritto. E qui insiste nel renderci partecipi della deriva. Di quella deriva umana che è anche la nostra. Vietato illudersi. Il tramonto dell’Occidente non è finzione. L’alba? Nella disperata speranza.

Dopo l’estate, in “Stella Maris”, il luogo che ha raccolto l’allucinata Alicia, scopriremo di più del grande e impossibile amore fra lei e Bobby. Dalla prospettiva della suicida. Mentre lui, per intanto al termine della provvisoria fuga, continua a misurarsi con la realtà come fanno i guardiani del faro. Silenti, che vedono e osservano l’orizzonte. Comunque, non rassegnato al male di vivere:

«La sofferenza fa parte della condizione umana e bisogna sopportarla. Ma l’infelicità è una scelta».