Cronaca di un altro ‘68

di Walter Ottolenghi

 Si poteva ancora attraversare l’Europa su un treno a vapore? Sì, anzi, si doveva, se si partiva dalla vecchia Franz-Josef Banhof di Vienna verso quella che era “l’altra” Europa, quella dietro il muro e le barriere di filo spinato e torri di guardia. Con i miei 19 anni ero il più giovane del gruppo. Gli altri (Carlo Buora, Massimo Guidetti e Rosalba Mozzati, che qualche anno dopo sarebbe diventata mia moglie) erano amici del centro culturale Charles Péguy di Milano, conosciuti tramite ex compagni di scuola di Gioventù Studentesca, realtà che si stava sfaldando – ed io con lei – nel confronto con l’esuberanza ideologica che stava caratterizzando quell’inizio del 1968. La proposta, vista da oggi, aveva, di per sé, tutti i connotati della follia: “Andiamo a conoscere quello che sta succedendo a Praga, con la svolta di Dubček e Svoboda”.

Il clima del ’68 italiano aveva avuto sicuramente un impatto forte nell’accettazione di questa proposta. Dopo aver partecipato entusiasticamente alle prime fasi del movimento studentesco, comitati di agitazione, assemblee e occupazioni dell’Università Statale di Milano (anche qualche foto sull’Unità – ormai smarrita –  mi ritraeva in questa veste) ero rimasto seriamente deluso dalla piega rigidamente ideologica e anche violenta che il movimento aveva rapidamente preso. L’iniziale istanza di protesta contro l’autoritarismo (in università, in famiglia, nella politica e nel lavoro) aveva prestissimo lasciato il campo a un altro autoritarismo, più sgangherato nella forma, ma sicuramente più intollerante e totalizzante nella sostanza. Il primo sangue versato nei corridoi della Statale negli scontri tra le diverse fazioni aveva segnato il punto chiaro di non ritorno.  L’inizio aveva colto nel segno, ma la strada presa era senza sbocchi credibili. Il mio disincanto nasceva dall’aver ben imparato, negli anni di liceo al Berchet, la differenza tra autoritarismo e autorevolezza, grazie all’incontro con persone come don Luigi Giussani, il grecista prof. Piero Scazzoso, il preside Yoseph Colombo e tanti altri che sapevano trasmettere la propria passione mettendosi all’ascolto senza nulla imporre.

La provocazione per andare a vedere dal vivo il tentativo di cambiamento di una società prepotentemente autoritaria, a partire da presupposti che si presentavano come post-ideologici e, sicuramente, non violenti, era troppo forte per lasciarla cadere nel vuoto. Così, eccoci sulla vaporiera, in attesa di valicare la “cortina”. Era il marzo 1968.  Il viaggio aveva comportato l’acquisto di un biglietto di seconda classe di sola andata per la ragguardevole cifra di 14.000 Lire (una 500 nuova ne costava 400.000; il biglietto di ritorno lo comprammo in valuta locale, con un itinerario che prevedeva un periplo via Ungheria e Jugoslavia, per massimizzare il forte sconto previsto all’interno del blocco socialista da una lega internazionale della gioventù alla quale ci eravamo nel frattempo iscritti su suggerimento dei ragazzi del posto). Più qualche migliaio di lire per il passaporto e il visto consolare.  Il tutto finanziato dai risparmi sulla paghetta e da un robusto sussidio di papà, un comunista di lungo corso che, dopo la galera fascista e l’esilio, aveva stracciato la tessera del PCI nel ’56, dopo l’ammissione dei crimini di Stalin da parte del PCUS e la repressione sanguinosa della rivolta ungherese, convinto più dai servizi fotografici di Epoca che dalle acrobazie verbali degli inviati e degli editorialisti dell’Unità. Un po’ preoccupato per la mia avventura ma, penso, contento della mia voglia di spaziare a 360° e di andare a toccare con mano il nuovo esperimento di “socialismo dal volto umano”.

All’arrivo a Praga non si perde nemmeno un minuto. Incontriamo un amico di Forlì (Tonino Setola) che ci ha preceduti di un paio di giorni e che ci presenta una studentessa laureanda in lingue romanze (Růžena Růžičková), conosciuta come guida dell’agenzia turistica nazionale, che ci farà da interprete nei giorni successivi e ci organizzerà il programma di incontri. Per prima cosa con i suoi compagni di università. Il clima è euforico, sia per l’entusiasmo per il nuovo corso, per la scoperta della libertà di parlare senza timori, di potersi radunare all’aperto senza creare sospetti, sia anche per l’eccitazione – peraltro reciproca – di un incontro con ragazzi “dell’altra faccia del mondo”.  Decidiamo di iniziare col raccontarci le nostre storie. Ci parlano di loro: alcuni sono di Praga, altri vengono da città di provincia e vivono nei pensionati universitari. Ci raccontano del clima cupo e delle limitazioni con cui hanno dovuto convivere fino a pochi mesi prima, delle nuove speranze e, anche, della storia e delle tradizioni del loro Paese. Nessuno nutre sentimenti antisocialisti o di rivalsa, ma tutti portano dentro l’amarezza di aver convissuto con quanto di peggio un’ideologia al potere potesse produrre. Lo spazio di libertà era in famiglia, con gli amici più fidati e, per chi aveva la fortuna di essere intonato, le corali che cantavano nelle chiese, dove era possibile ritrovarsi per le ripetute prove e, quindi, creare col tempo una familiarità di rapporti. Adesso si trattava di riprendere il filone di una civiltà e di una cultura orgogliosamente europee, non solo nella musica e nell’arte, ma anche nella tradizione della libertà di pensiero, dai tempi di Jan Hus a quelli dei presidenti Tomáš e Jan Masaryk, e della profondità spirituale, dei pensatori, dei poeti e dei santi della loro terra. Anche la vita religiosa si trovava adesso di fronte a un territorio nuovo, non più solo limitato all’ambito di famiglia, di amici selezionati, ma aveva il modo di venire allo scoperto. Sì, ma come? Ci chiedono del ’68 in occidente, della piega che ha preso. “Mandateceli qui, che gli insegniamo qualcosa del comunismo…”. Raccontiamo di noi, di come abbiamo imparato che non si può pretendere il possesso delle verità, ma che la vita è un percorso di verifiche che passano attraverso l’esperienza e che la dimensione comunitaria dell’esperienza è una modalità privilegiata di sostegno del percorso e del suo rendersi comunicabile. Nonostante gli sforzi dell’interprete, il nostro vocabolario sembra arrivare da un altro pianeta. La traduzione della parola “esperienza” rimanda al mondo della ricerca scientifica, mentre le parole “comunità” e “comunitario” riecheggiano inesorabilmente le modalità aggregative del regime comunista. Però siamo tutti contenti di stare insieme, tiriamo notte discutendo e nei giorni successivi ci ritroveremo anche con altri loro amici per scampagnate nei parchi naturali che circondano la città, per continuare a parlare e cantare, con panini e chitarre.

Si dormiva, poco, in case di famiglie ospitali. Un bel modo per fare amicizia con persone più grandi di noi, che ci raccontavano della situazione del mondo del lavoro, della scuola, di come tirar su i figli ecc., oltre che fornire un certo sollievo al nostro budget. Queste case, in quei giorni, erano diventate la base dove organizzare incontri con personaggi che erano in prima linea nell’impegno di costruire il processo di cambiamento in atto, a partire dal loro contributo culturale. Personaggi come Václav Havel, Jiří Němec e altri, musicisti, scrittori e poeti. E, poi, giornate dense di visite alle redazioni di radio e giornali di tutti i tipi. Ovunque accolti con cordialità e stupore, voglia di raccontare i loro progetti e le loro speranze e curiosi di sentire di noi, di come mai ci interessavamo così da vicino di loro. In una di queste visite di redazioni ci colpì la vivacità di una persona, a cui chiedemmo un appuntamento per approfondire meglio alcuni spunti che avevamo colto (difficile adesso ricordare quali). Appuntamento subito accordato. Si chiamava Jozef Zvěřína e divenne poi uno dei nostri più grandi amici.

Molte delle persone che conoscemmo avevano passato l’esperienza della prigionia politica, alcuni, come lo stesso Zvěřína, arrivando a fare il bis: prima coi nazisti e poi coi comunisti. Sentire il racconto della loro vita era come veder mischiato un film di guerra con gli atti degli apostoli. Soprattutto colpiva un tratto comune: tutti avevano trovato un modo per vivere queste esperienze e uscirne senza venire a compromessi con la propria dignità. La forza stava nella memoria delle esperienze che avevano vissuto, di ciò che erano stati, e nel desiderio di tornare a riannodarne i fili. In altre parole: una speranza indistruttibile. Anche per chi portava nel corpo i segni delle miniere di uranio, destinati pochi anni dopo a reclamarne la vita, dopo una tardiva riabilitazione legale e un breve ricongiungimento con le loro famiglie.

In loro nessun segno di livore o rivendicazione, nessun incupimento travestito da ideologia. Semmai, la consapevolezza che la libertà di essere se stessi, di salvaguardare la propria dignità, comporta sempre un prezzo da pagare, a volte molto duro, ma che ne vale comunque la pena. E, poi, in tutti un sense of humour che non solo ne faceva degli interlocutori imperdibili, ma faceva intravvedere anche l’equilibrio interiore maturato nelle vicissitudini della loro vita. Capaci di valutare con realismo la loro situazione attuale, una finestra di opportunità di cui approfittare per uscire allo scoperto in tutti i modi possibili, mostrarsi, stringere legami e tessere relazioni che sarebbero risultate preziose in futuro, nutrendosi di speranze, ma senza superficiali illusioni. Senza, soprattutto, perdere tempo con progettazioni di utopiche società ideali o velleità di nuove egemonie culturali.

Impietoso il confronto con tanti tromboni politici e mediatici nostrani o con tanti tromboncini che si allenavano a raccoglierne il testimone – a distanza di anni, devo ammetterlo, con un buon successo – in veste di imbonitori di assemblee studentesche o di massimalisti velleitari, oppure affilando le armi per le loro future imprese di sangue e disperazione. Quello che ci eravamo lasciati alle spalle nelle nostre università esaltava ancora di più la statura dei personaggi che incontravamo. Eravamo affascinati dalla loro storia, dalla loro profondità e saggezza, dalla vastità del loro spessore culturale, ma anche dalla disponibilità ad accoglierci e a mettersi in ascolto di noi, così giovani, sprovveduti e anche un po’ viziati dalla vita agevole degli anni del boom.

Come dimenticare l’attenzione con cui lo storico Zdeněk Kalista ci accoglieva al “suo” tavolo fisso al Caffè Slavia, trascurando la conversazione con gli altri intellettuali e letterati che si ritrovavano abitualmente nello storico locale per raccontarsi del loro lavoro e scambiarsi progetti e speranze. Aveva subito una lunga prigionia a causa di una falsa testimonianza estorta a un suo stretto familiare, così ci avevano raccontato: da parte sua, nemmeno un cenno.

O il teologo Antonín Mandl, quando intonava “Non, je ne regrette rien” con il suo volto scavato dalla leucemia contratta per la lunga esposizione a materiali radioattivi durante i lavori forzati. Oppure l’ex diplomatico Václav Vaško, che all’avvento del regime era stato costretto a separarsi dalla moglie russa e dalla figlia, che non poterono abbandonare Mosca per seguirlo. Ora lavorava per un circo, dove pare si divertisse molto, e dopo il lavoro si dedicava alla sua intensa attività pubblicistica, quella che gli era costata la fine della carriera e un po’ di anni di prigione. E tantissimi altri, grandi protagonisti della cultura del loro Paese, ancora giovanilmente curiosi della nostra curiosità e ansiosi di trasmetterci la loro esperienza umana prima del loro sapere.

Meno di una settimana di un’intensità mai vissuta prima, culminata la mattina della Pasqua 1968 quando, con i ragazzi che avevamo incontrato, siamo saliti sulla torre della cattedrale del Týn, nella piazza della Città Vecchia, facendoci largo tra ragnatele e penne di piccione, per sciogliere le campane pasquali: avrebbero suonato per la prima volta dal 1948. Per poi scendere e partecipare ad una affollatissima e straordinariamente intensa e partecipata liturgia celebrata da padre Jiří Reinsberg, altro pilastro della vita praghese di quegli anni. Con la sua saggezza “rabbinica”, depositaria della memoria della Praga “profonda”, e con il suo equilibrio fatto di candore, astuzia e prudenza era riuscito a fare della chiesa centrale della città un punto di riferimento per tutti, anche per i pezzi grossi del partito che portavano i figli a battezzare di nascosto.

Ci accordammo, alla fine del nostro soggiorno, per riprendere il filo dei tanti discorsi durante l’estate successiva.


Cronaca di un altro ’68 (2)

A differenza del nostro primo viaggio a Praga in marzo, questa volta, con la buona stagione, in luglio, il viaggio sarebbe stato fatto in macchina. La mia R4 di seconda mano e la Mini di Marina Loffi, che si era unita al gruppo. Questa la sua memoria:

“Partimmo con due macchine: Walter Ottolenghi, Rosalba Mozzati, Massimo Guidetti, Luigi Patrini, Romana Romano e Annamaria Giannini.

Alla frontiera fra Austria e Cecoslovacchia un evento funesto: un soldatino di leva manovrando maldestramente il pilone di cemento che allora sbarrava il confine distrusse una portiera dell’auto di Walter. Per fortuna eravamo tutti sbarcati. Sosta infinita per fare le pratiche di rimborso (fortunosamente andato a buon fine due anni dopo l’invasione russa di agosto) e arrivo all’appuntamento fissato nella piazza del Týn con enorme ritardo.

Era sera inoltrata ma la piazza rigurgitava di gente, soprattutto giovani, e il suo pavimento era ricoperto di scritte in gesso inneggianti a Svoboda, presidente della repubblica da poco eletto e Dubček, segretario del Partito Comunista Cecoslovacco, simbolicamente usati per manifestare la presa di distanza dai sovietici.

Mentre entravamo nella chiesa del Týn, gremita nonostante l’ora per un concerto, un coro stava cantando O vos omnes di Tomàs Luis da Victoria, un mottetto che amavo moltissimo e che anch’io cantavo con il coro di G.S. Mi parve un abbraccio di benvenuto.

Individuatici a vicenda non so come, venivamo ospitati in casermoni all’estrema periferia della città e la mattina dopo, su impulso di Massimo, sempre spinto dalla volontà di capire, come avrei più tardi verificato, visitammo la redazione di Mlada Fronta, la rivista organo del Partito Comunista giovanile che però sosteneva allora le ragioni della Primavera.

Poi l’incontro con i Kaplan, Jiří e Maria, all’epoca poco più che quarantenni, che avevano 9 figli e abitavano una piccola porzione di una villa, se ben rammento appartenuta un tempo alla famiglia di Maria. Pochissime stanze ma una sala bellissima, accogliente, con una grande stufa di maiolica e dove la maggior parte dei figli alla sera dormiva, stesi sul pavimento in sacchi a pelo (per lasciare i letti agli ospiti).

In quella e altre occasioni ci rendemmo conto che si trattava di una casa-approdo: lì convergevano le più diverse persone, per attitudine, estrazione, provenienza.

Intellettuali, operai, studenti, anche il futuro presidente Václav Havel. Tutti ospitati con calore e … musica: anni dopo in una lettera Jiří, descrivendo il corteo di nozze di una sua figlia, mi raccontò che la sposa era stata accompagnata alla chiesa da un’orchestra ‘di strada’; lui, tutti i figli e molti amici suonavano infatti uno strumento.

Da casa Kaplan la partenza per Šumava nella foresta boema, dove Pavel (Sepekovský) aveva una grande baita senza acqua né elettricità. Con Jiří sarebbe rimasto per l’intera vacanza insieme a noi e a una decina di giovani cecoslovacchi provenienti da vari luoghi. Noi ragazzi dormivamo nel fienile. Ricordo particolarmente Pavel Novak, Vašek Renč, figlio di un drammaturgo messo in prigione dal regime, Petr Kryl, Honza…, Jana … che aveva capelli lunghissimi oro veneziano e alla mattina quando ci tiravamo su dal fieno sembrava Lorelei.

Le giornate trascorrevano semplicemente fra passeggiate, giochi, preghiera, discussioni e racconto delle reciproche esperienze e problemi, in tutte le lingue e le forme possibili, sotto la guida lieve dei due adulti. Ricevemmo anche la visita di padre Reinsberg. Era fortissimo il desiderio di comunicare e comunicare con verità dentro le differenze di temperamento e situazione umana. Ne trattengo ancora oggi una immagine intensa. Parecchio tempo dopo, durante una vacanza a Praga in tempi di repressione, incontrai Jiří al ristorante dell’Opera – un luogo da lui ritenuto sicuro – con mio cognato Guido che aveva fatto parte del Collettivo di architettura ed era su posizioni comuniste. I due si parlavano in francese (stentato da parte di mio cognato) con la stessa intensità e cordialità (della vacanza) di Šumava, con la volontà di incontrarsi sul serio nonostante le difficoltà della lingua. Credo che sia un’intenzione verso l’altro di questo tipo quella in grado di suscitare l’interlocutore e ricordo la pazienza e la magnanimità affettuosa di Jiří nell’ascoltarlo e nel rispondergli, come pure la lezione costituita da quel dialogo fra loro.

Vašek Renč, che suonava benissimo la chitarra e componeva, scrisse in quei giorni una canzone, Jdu cestou necestou, (Vado ovunque, per strade e sentieri) che parlava di strada, di amore e solitudine, di rovi; una sorta di sigillo di quel periodo passato insieme.

Non so se il tempo di Šumava sia stato fruttuoso per tutti i partecipanti, anche per le sventure che si sono abbattute sulla loro vita a partire dall’agosto del ’68, penso di sì, forse in modi diversi, comunque tra noi tutti – italiani e non – produsse in pochi giorni un senso di familiarità e per me è stato un’occasione grande di crescita.”

Tutto questo avveniva in luglio. Nel mese di agosto fummo noi ad ospitare in Italia alcuni di loro. Il 21 di quel mese le forze armate sovietiche e del patto di Varsavia invadevano il territorio cecoslovacco, ponendo fine alla Primavera di Praga. Fu un’esperienza sconvolgente per noi e per i nostri amici. Dopo cinquant’anni ne serbano ancora il ricordo, come ci hanno scritto recentemente:

“Grazie per i saluti dei nostri amici. Una riflessione sul nostro soggiorno in Italia ci mette un po’ in difficoltà. Naturalmente ci fa piacere che i nostri amici italiani non ci abbiano dimenticati dopo tutti questi anni…

Se guardiamo indietro non possiamo negare che il nostro viaggio in Italia nell’anno 1968 ha avuto per noi un grande significato e ci ha influenzato molto…

Però il soggiorno in Italia è capitato nel periodo in cui sono giunti da noi i carri armati russi. Chi ci ha ospitato ha vissuto con noi molto intensamente quei momenti – per di più è successo nella notte in cui noi ci siamo recati da Padre Pio a San Giovanni Rotondo. I carri armati hanno alla fine influenzato le nostre vite più del soggiorno in Italia, il che è comprensibile.

Due di noi sono rimasti in Italia e hanno scelto la via del servizio spirituale, un altro ha fatto la stessa scelta in Cecoslovacchia. Anche questo ci ha influenzato. Gli altri hanno avuto assicurata una vita grigia, illuminata dai rapporti personali, da sporadici avvenimenti culturali e certamente dalla vita di fede.”

O ancora, ricorda Růžena:

 “Venne la Primavera di Praga che fece cadere molte delle nostre paure e soprattutto ci fece superare il senso di diffidenza e di sospetto che fino a quel momento ci aveva impedito di fidarci l’uno dell’altro. Gli studenti di diverse facoltà che frequentavano la stessa chiesa – la centralissima chiesa della Madonna del Týn – cominciarono allora a salutarsi, a parlare liberamente di sé ai compagni … poi a Pasqua venne dall´Italia un gruppo di studenti un po’ speciali, che io presentai ai miei amici e a persone importanti di Praga, persino l’arcivescovo František Tomášek.

   Da questi incontri nacque un bel progetto: un gruppo di studenti cechi furono invitati in Italia alle vacanze di vari gruppi perché facessero conoscere oltrecortina la loro esperienza di fede vissuta sotto un regime totalitario ateo. Potevamo partire solo singolarmente, o al massimo a due a due, muniti di un invito personale da parte di italiani: i nostri amici italiani generosamente ci ospitavano pagando tutte le nostre spese, anche quelle di viaggio. Fu così che potemmo recarci dalle Dolomiti al campeggio di Peschici e a Catania concludendo il nostro viaggio a Roma.

   Partimmo da Praga all’inizio dell’agosto del 1968 e a Peschici ci raggiunse la notizia dell’occupazione del 21 agosto della Cecoslovacchia da parte dei carri armati russi: eravamo con don Francesco Ricci. Ricordo quanto ci aiutò a seguire i telegiornali italiani e, contemporaneamente, le trasmittenti libere cecoslovacche che completavano le informazioni italiane. In quei momenti per noi tanto tristi fu il suo continuo incoraggiamento a non perdere la speranza nei momenti difficili che ci diede il sostegno di cui avevamo bisogno. ‘Don Chilometro’ (per i suoi due metri di statura) è diventato per noi un vero padre.

   Al momento di rientrare in patria qualcuno decise di rimanere a Roma per diventare prete e una nostra amica, dopo anni di ricerca, decise di entrare in clausura in un monastero di suore Benedettine.  Uno di noi, poi, anche se con più fatica, è diventato sacerdote in Cecoslovacchia e oggi è Vescovo ausiliare di Praga.

Possiamo affermare dunque che la grande fede, la generosità e l’esempio di don Francesco Ricci, il prete del sorriso e della massima disponibilità, ha dato davvero meravigliosi frutti.”


Cronaca di un altro ’68 (3)

Anche per noi il 21 agosto, data dell’invasione russa della Cecoslovacchia, fu uno choc. Eravamo in vacanza in tante località diverse. Ci sentimmo e decidemmo di tornare a Milano, forse anche per superare insieme il senso di impotenza che ci aveva preso. Fu subito chiaro che non potevamo tenerci dentro quello che avevamo visto e conosciuto e che rischiava di sfuggire dalla memoria sotto l’incombere della nuova tragedia di un intero popolo. Cominciammo a parlarne in privato e in pubblico, in tutte le occasioni che riuscimmo a sfruttare, aiutati dal fatto che l’attualità degli eventi suscitava curiosità e domande. Un amico editore, Sante Bagnoli, allora agli inizi della sua avventura culturale e imprenditoriale con le edizioni Jaca Book, ci diede ampio spazio per la pubblicazione delle nostre testimonianze.

Fu però presto chiaro che il mondo intellettuale italiano aveva fretta di archiviare questa parentesi imbarazzante della storia. La sinistra ufficiale espresse il proprio dissenso per l’invasione, senza però arrivare a tagliare il cordone ombelicale con Mosca. La “nuova sinistra” e molti intellettuali d’avanguardia erano rimasti abbastanza indifferenti verso un fenomeno che metteva in crisi le loro certezze, ponendo ancora una volta in luce il volto liberticida del “socialismo reale”. Meglio voltar la faccia dall’altra parte, piuttosto che solidarizzare con chi aveva rimescolato le carte del loro incrollabile impianto ideologico: le lotte buone erano solo quelle contro l’America e le “multinazionali”. Quelle per la libertà di pensiero, contro il capitalismo di stato e l’imperialismo sovietico, puzzavano di revanscismo borghese e di corruzione consumista. Per tutti gli altri, i Patti di Yalta costituivano un bastione invalicabile della realpolitik europea, con cui fare i conti. In Italia, in particolare, anche la maggior parte di intellettuali, giornalisti e politici di area cattolica o moderata, erano preoccupati di favorire e incoraggiare la timida evoluzione del Partito Comunista, che avrebbe poi preso il nome di “migliorismo”: il PCI rimaneva un antagonista elettorale, ma bisognava costruire ponti e non esasperare fratture, creare un clima dialogante che permettesse il pacifico superamento di “storici steccati” e, chissà, un futuro compromesso di collaborazione per il bene del paese. In parole povere, grande spazio – giustamente – al Vietnam, alla Bolivia e al Sudafrica e, ogni tanto, alla Spagna e al Portogallo, ma dell’eroica lotta pacifica per la libertà di uomini disarmati contro il secondo esercito più potente del pianeta non glie ne fregava un granché a nessuno, anche se tutto quanto avveniva a quattro ore di macchina dalla nostra frontiera. Dopo poche settimane, la vicenda sarebbe passata nelle pagine interne dei giornali.

A noi, però, più che le prospettive politiche, interessava la valenza umana delle esperienze fatte nell’incontro con persone ancora permeate di idealità, radicate in quanto di più nobile la tradizione europea avesse costruito, disinteressate al proprio tornaconto immediato, fatte della pasta che anni dopo il mondo avrebbe conosciuta incarnata in nomi come Václav Havel, Lech Wałęsa o Karol Woytiła. Ci sembrava una ricchezza troppo grossa per non condividerla, dovevamo raccontarla come potevamo, approfittando di quella breve finestra di opportunità data dall’attenzione mediatica suscitata dall’invasione militare. Oltre a spargere la voce tra amici e renderci disponibili per andarne a parlare ovunque ci invitassero, in privato come in pubblico, ricordo il tentativo fatto in settembre, andando a Roma e facendoci ricevere dalle redazioni politiche dei principali quotidiani delle diverse tendenze. Clima ovunque cordiale e incuriosito, ma il messaggio nella sostanza era “Bene ragazzi, adesso lasciateci lavorare”. Ricordo anche la visita all’Osservatore Romano, ricevuti da un prelato interessato soprattutto a sondare la nostra affidabilità interrogandoci sulla nostra opinione sulla recentissima enciclica Humanae Vitae.  L’atmosfera era surreale, finché non riuscii a trattenere la mia battuta: “Non si preoccupi, noi siamo di quelli bravi”. Seguirono cinque secondi di apnea generale, ma almeno si cambiò discorso. Al momento vidi dei fulmini incrociarsi negli sguardi dei miei amici, salvo poi esplodere in una scrosciante risata una volta abbandonato l’austero ufficio. In fondo, anche questo era ’68 e, poi, era il giorno del mio ventesimo compleanno.

All’inizio del nuovo anno accademico, in università il Movimento Studentesco mi appariva ormai come una ripetitività di riti e liturgie svuotati di ogni prospettiva. Dietro ogni slogan e ogni parola d’ordine sentivo riecheggiare l’ineluttabilità di un esito che la storia aveva già messo alla prova nell’esperienza del paese dei miei nuovi amici e che, come avevo nel frattempo imparato, era del tutto simile a quanto vissuto in Polonia, Ungheria e nella vicinissima Jugoslavia. Il percorso verso la verità e la giustizia puntava decisamente in un’altra direzione.

Così, mentre mi preparavo ad attraversare anni che per la nostra società sarebbero stati di smarrimento per alcuni, di esaltazione per altri, di delusione per quasi tutti, mi ritrovavo a riannodare i fili della mia esperienza, come decontaminato da ogni illusione ideologica e da ogni schematismo di pensiero preconfezionato, almeno questa era la sensazione. Rimaneva però, per me e per i miei compagni d’avventura, l’ansia per le persone che avevamo incontrato e delle quali non avevamo più notizie. Eravamo anche paralizzati dal timore che scrivere una lettera o fare una telefonata avrebbe potuto provocare conseguenze spiacevoli per loro. Finché, nell’autunno del ’69 non arriva una cartolina con solo due parole: “Vi aspettiamo”. Non ce lo siamo fatto ripetere. E le tracce non si sono più perse.