David Grossman: convivere per vivere

«Sapremo non smettere di pensare e di essere un cuore sensibile, aperto, vulnerabile? Sapremo essere un cuore pensante, ancora e ancora?». Così, con questo drammatico interrogativo che contiene la verità dell’invocazione, una delle voci più alte e dialoganti d’Israele termina il suo ultimo libro “La pace è l’unica strada” (Mondadori). Un testo che propone articoli e discorsi dello scrittore dopo la carneficina di Hamas del 7 ottobre 2023 e la risposta di guerra israeliana nella striscia di Gaza. Un libro prezioso che rilancia la sfida rivoluzionaria della convivenza in Terra Santa fra ebrei e palestinesi.


12 aprile 2024
La strada della pace
di Walter Ottolenghi

David Grossman

Fare la guerra è più facile che fare la pace. Una delle prime frasi scioccanti che si incontrano nella lettura della breve ed essenziale riproposizione di articoli e discorsi di David Grossman “La pace è l’unica strada” (Mondadori, 2024, pp. 96, € 16,00, ebook € 8,99).

Essere è meno banale di fare

Una manciata di parole che inchiodano ciascuno alla propria responsabilità, smascherano ogni velleità e possibilità di chiamarsi fuori, di assolvere sé stessi facendo il bilancio di colpe preferibilmente di altri.
Perché la pace non è raccattare i rottami del disastro e rimettere in ordine la scena del crimine e non è nemmeno l’illusione di ristabilire la giustizia, in genere quella di chi ha vinto. La guerra “si fa”, con le sue procedure e i suoi obiettivi, il suo iter di morte. La pace non si fa, si è. Essere è meno banale di fare. Essere di pace e in pace è indipendente dall’aver fatto o non fatto un’esperienza di guerra.
David Grossman è sicuramente un uomo di pace, come lo sono molti altri israeliani noti e meno noti e molti palestinesi. Moderni profeti inascoltati, come altri uomini di pace in altri paesi, la cui esistenza e testimonianza da sole non bastano purtroppo ad evitare che le guerre si facciano e si ripetano. Però seminatori di speranza, il vero e unico germe della pace.

David Grossman. “Noi in piazza per difendere i princìpi su cui è nato Israele” – da Francesca Caferri – La Repubblica 8 marzo 2023

Una consapevolezza del bene

E questa pace tutto è tranne che un intervallo precario tra episodi di ostilità.
È la costruzione ininterrotta di una consapevolezza del bene, dell’eguaglianza e dell’equità, che unisce e crea legami anziché dividere. E rende più difficile la vita dei professionisti dei disegni di potere basati sulla manipolazione dei più bassi istinti di diffidenza, razzismo, vendetta. Di tutto quello che spiana la strada agli estremismi.
Non solo tra chi è già radicalizzato di suo ma anche tra i tanti che in assenza di una credibile ipotesi di pacificante convivenza tra le diversità cedono all’ineluttabile inerzia di un “collaborazionismo della disperazione”.
Tutte cose, possiamo osservare per inciso, tragicamente viste in Europa tra le due guerre mondiali. Anni di pace falsa, dove le ideologie del disperato nulla travolgevano le intimidite voci di chi ancora osava sperare in un futuro di rispettosa e leale convivenza di diversità, ciascuna a suo modo portatrice di contributi alla prosperità comune, spirituale e materiale. Un piano inclinato verso nuove guerre.

La mobilitazione delle coscienze

Una società che perde lo slancio vitale dei suoi ideali fondativi, con la conseguente disarticolazione del suo tessuto di relazioni umane e perdita dei punti di riferimento originanti dell’orientamento delle sue forze politiche facilita lo scivolamento verso soluzioni semplicistiche dei problemi. Di facile spendibilità su mercati elettorali dominati dall’incertezza o addirittura dalla paura. Estremismi e tentativi di discutibili riforme costituzionali, ma anche accondiscendenze a settori fondamentalisti, messianici e ultraortodossi. Quanto di peggio si possa immaginare in uno scacchiere determinato da delicati equilibri etnici e religiosi e dove a ogni posizione provocatoria se ne contrappone automaticamente una di segno opposto.
Il tarlo della guerra è già all’opera in uno stato di pace solo apparente. Difficile pensare che nessuno se ne renda conto. Ancora più difficile capire perché si eviti di comprenderne le conseguenze fino al momento in cui il conflitto non deflagri con tutta la sua violenza.
Un consenso politico ottenuto col mercato delle illusioni e dello sfoggio dei muscoli ideologici ma orfano di qualsiasi progetto che includa un disegno di stabilizzazione duratura basata su una visione realistica delle forze in campo, incluse le implicazioni delle ingerenze e delle tensioni internazionali, non porta da nessuna parte e lascia scoperti i fianchi a ogni disegno ostile.
Quelle di Grossman non sono solo analisi spietate sugli errori e sulle mancanze del potere, ma diventano anche strumento di un impegno di mobilitazione delle coscienze nei dibattiti e nelle piazze, dove lui e i suoi amici ci mettono la faccia.

Ebraismo “laico e umanistico”

Un impegno che affronta alla radice la domanda vera dell’enigma: il senso dell’esistenza di uno stato ebraico. Qual è la mission di questo unicum nel panorama mondiale? L’ebraismo in cui Grossman si riconosce è da lui definito “laico e umanistico” e questo è il contesto culturale in cui si può strutturare un corpus statale per sua natura orientato all’inclusione, al rispetto delle diversità e alla pace. Non certo privo di una forte identità, però.
Un’identità dove l’eredità culturale dell’ebraismo convoglia gli ideali di dignità, rispetto della vita e uguaglianza trasmessi dal messaggio biblico.
“Avrete una stessa legge tanto per lo straniero quanto per il nativo del Paese” (Levitico 24,22). “Uno Stato ebraico è la patria nazionale del popolo ebraico che considera la piena uguaglianza dei cittadini la sua più grande prova di umanità, nonché il compimento della visione dei suoi profeti e dei suoi padri fondatori”.

Il limite delle soluzioni calate dall’alto

Buona fortuna, verrebbe da augurargli dalla vecchia Europa che in tre secoli non è ancora riuscita a sbrogliare del tutto la matassa di laicità e identità che si intersecano in mix variegati tra diverse latitudini e longitudini. Con corsi e ricorsi che si alternano nel tempo e un ago della bilancia che oscilla con disinvoltura da un estremo all’altro secondo tempi e circostanze.
La libertà naviga nel mare delle contraddizioni e delle confusioni ed è una costruzione che richiede un impegno e una fatica che non fanno sconti, mai finiti. Esattamente come la pace.
Nella terra di Israele e Palestina la costruzione della pace ha però un carattere di urgenza che richiede cambiamenti radicali all’interno delle comunità etniche locali, non sostituibili, come la storia ha insegnato, da soluzioni calate dall’alto della diplomazia internazionale. Pure utili e necessarie per spegnere gli incendi quando il fuoco ormai divampa. Altra cosa, invece, è la Pace.

Dove poggia la speranza di pace

Grossman, da uomo di pace, concentra la sua analisi sul campo israeliano, che è quello dove più sente il dovere morale di agire: tra la sua gente. Ed è anche quello dove ha più probabilità di incidere efficacemente sulle coscienze di chi condivide più strettamente lo stesso destino. Nella nostra posizione terza possiamo sicuramente presumere che il campo palestinese soffra delle stesse contraddizioni e incomprensioni, anche se chi ha la medesima coscienza critica non sembra aver modo di far emergere con altrettanta chiarezza e risonanza la propria voce, almeno abbastanza da farla arrivare fino alle nostre orecchie.
Pure la speranza della pace posa sulla presenza di questi uomini giusti dell’uno e dell’altro popolo. Uomini che non ripongano le loro aspettative in disegni di corruzione e bramosie personali di potere. Che nell’uno e nell’altro campo sono i veri motori di una guerra senza fine.  
Anche se le diplomazie locali e internazionali riuscissero nell’intento di far tacere le armi la tregua potrebbe non trasformarsi mai in pace. Nemmeno con un trattato formale che la sancisca e nemmeno con la chimerica creazione dei due stati. Due società dominate da visioni millenaristiche strumentali a classi dirigenti formate da signori della guerra, che ne sfruttano l’effetto illusorio per manipolare le frange più marce o più disperate delle popolazioni, sono la garanzia di una guerra infinita.  
La strada della pace è veramente l’unica. C’è bisogno che gli uomini di pace in Israele riescano a riportare il loro paese sui binari della democrazia sostanziale, che includa le garanzie dello stato di diritto, apparentemente ancora deboli nell’applicabilità, a tutte le componenti del complesso mosaico di cui è composto il paese. Analogamente gli uomini di pace palestinesi dovrebbero poter costruire il loro stato con i medesimi obiettivi, cammino anche più lungo e complesso di quello dei loro vicini. Tenendo conto della necessità di rescindere ogni canale di influenza da parte di potenze internazionali legate a centrali del fondamentalismo e del terrorismo.
Aspirazioni che più che da nuovi equilibri politici traggono forza da speranze nuove, da cambiamenti dei cuori. Anche e soprattutto nel mezzo della tragedia. Come nelle domande finali del libro. «Sapremo non smettere di pensare e di essere un cuore sensibile, aperto, vulnerabile? Sapremo essere un cuore pensante, ancora e ancora?».