Elena Granata: «Ridiamo Milano e le città a chi le abita davvero»

Dalla città a tempo determinato alla città progetto di vita. Per superare un livello di inadeguatezza umana e culturale divenuto insostenibile. Oggi l’emergenza dell’abitare è un fatto di normalità. “C’è una vera e propria sostituzione dell’abitante stanziale con quello temporaneo. A Milano in primis, ma anche a Bologna, Roma o Napoli e in altri grandi centri”. Così si annullano le relazioni, il vissuto autentico, le dinamiche culturali. E la città che è declinata in prodotto. Ma da questo modello estraniante e respingente dell’abitare si può uscire positivamente. Il prossimo passo è darsi una mossa anche politica. Parla l’urbanista del Politecnico di Milano 


20 giugno 2025
Vetrina per ricchi
Conversazione con Elena Granata a cura di Nicola Varcasia

Elena Granata Urbanista Politecnico di Milano

C’è qualcosa di inadeguato nelle città rispetto ai nostri bisogni più profondi. Riconnettersi con questo qualcosa è uno dei massimi compiti culturali di oggi.
Perché ci restituisce il senso dell’azione di fronte alle tante emergenze dell’abitare. O meglio, come ricorda Elena Granata, di chi ha un progetto di vita, dello stare. Urbanista del Politecnico di Milano, divulgatrice ad ampio raggio, Granata spiega attraverso alcune immagini molto efficaci verso quale direzione le città debbano trasformarsi. Coinvolgendo anche la dimensione della politica attiva. 

Quando ci siamo accorti dello scarto tra le città come sono e ciò che desideriamo?
Negli anni del Covid. Costretti a casa, abbiamo espresso collettivamente dei bisogni di natura, spazio aperto e relazioni. Poi la parentesi si è chiusa e quei bisogni sono stati riaddomesticati. Ma le questioni sono ancora più urgenti.

Che cos’è la città “a tempo determinato” che lei ha descritto di recente anche nei Dialoghi di Pistoia?
Le città sono sempre state il luogo degli abitanti da un lato e degli utilizzatori dall’altro. Lo ha raccontato bene il sociologo Guido Martinotti a proposito della città dei turisti, uomini d’affari e degli altri fruitori temporanei.

Cos’è cambiato?
Oggi c’è una vera e propria sostituzione dell’abitante stanziale con quello temporaneo. A Milano in primis, ma anche a Bologna, Roma o Napoli e in altri grandi centri.

Perché?
La città nel suo insieme è vista come un grande prodotto dove edifici, case, residenze e negozi si riducono a merce.

Porta Nuova verde organizzato poco e isolato simbolico e museale

Non è il capitalismo?
È la sua evoluzione spinta. La città è sempre stata una miniera da cui estrarre valori economici. Però oggi sta diventando quasi solo quello. Prevale la dimensione estrattiva, il tirar fuori il massimo dai valori immobiliari.

Chi ci perde?
Vengono sacrificati tutti coloro che hanno un progetto di vita, espressione per me fondamentale che indica stanzialità, relazioni, radicamento e continuità. Tutti elementi da contrastare a favore del flusso e della velocità. Il vero nemico della città, oggi, è chi ci vuole stare.

Di chi parliamo in particolare?
Dei giovani, ma anche di chi sta per terminare il lavoro. I giovani vanno bene finché sono studenti, ancora meglio se universitari disposti alla coabitazione o nei primissimi anni di lavoro. Ma non appena compare l’idea di sposarsi, metter su famiglia o andare a convivere, la città diventa espulsiva. Lo stesso vale per i lavoratori più precari o con redditi non troppo elevati, come infermieri, educatori, insegnanti. Tutte categorie che si nominano sempre e che, in fondo, fanno di una città una città.

Questa “città a ore” sembra contrastare la piacevolezza sognata dalla città del quarto d’ora.
Bisognerebbe dire con forza che l’idea suggestiva della città del quarto d’ora lanciata da Carlos Moreno diventa fallace nel momento in cui i servizi che la rendono possibile sono tenuti in piedi da persone che non possono permetterseli. Il quarto d’ora per chi è?

È la dissacrazione di una certa idea di città.
Se c’è un’élite che può vivere bene in una città dotata di tutti i comfort, ma chi tiene in piedi quel servizio deve abitare lontano, con una qualità di vita scarsa, allora è solo una vetrina per i ricchi. Parliamo di valori belli, democratici, ma per pochi.

Qual è la conseguenza?
Si aggravano le diseguaglianze. Non solo tra ricchi e poveri, in una contrapposizione tra fasce che c’è sempre stata. Oggi, paradossalmente, è l’intero ceto medio, quello delle professioni, dei servizi e delle famiglie con doppio stipendio e figli a non rientrare più in quel modello. La città diventa minacciosa per la categoria che ne ha fatto la storia.

Aveva accennato ai pensionati.
Per la prima volta assistiamo a un’emigrazione al contrario dei nonni dalle città verso le destinazioni dei figli. Pensionati giovani, tra i 55 e 65 anni che, nel momento in cui riducono o terminano l’attività lavorativa, scelgono di stare fuori. Perché si vive meglio, c’è più welfare e ci sono anche i nipoti. Questo fenomeno porta con sé un corollario.

Quale?
La prossimità nello stesso spazio urbano ha consentito la sopravvivenza di una rete di welfare familiare che oggi è disconnessa. Gli anziani rimasti in città, spesso proprietari di casa, sono lontani da figli e nipoti. Da qui è nato quell’esodo al contrario, ben visibile per esempio nell’hinterland milanese. Il mondo del progetto di vita e del radicamento è il più minacciato e ciò dovrebbe interessare molto anche chi si occupa di denatalità e famiglia.

Chi “si serve” della città oggi?
C’è un ordine progressivo delle persone più gradite. I turisti sono al primo posto, secondi gli studenti – perché si arrangiano – poi le famiglie senza figli e, per ultime, le coppie coi figli. Le agenzie immobiliari non le prendono neanche in considerazione.

Perché?
Il mercato è astuto, sa che in questo momento la coppia giovane con due stipendi non garantisce necessariamente la propria sopravvivenza. I clienti più affidabili sono quelli temporanei che, al limite, vengono sostituiti.
Ma c’è già una selezione verso l’alto spendente. Anche gli studenti sono a loro modo gentrificati. Arrivano dall’alta borghesia del sud, molti altri sono lombardi, ma così perdiamo per strada un pezzo di Paese.

Milabo Argonne case popolari

La seconda immagine che lei ha usato è la “città delle scatole”.
Dall’Ottocento abbiamo ereditato una città composta da scatole monofunzionali, in cui si immaginava un welfare basato su servizi elementari: l’ospedale per la salute, il museo per il tempo libero, il parco per la natura e il divertimento. Ma anche il ricovero per la salute mentale, il carcere per la pena e la scuola per l’educazione.

Cos’ha di sbagliato questo modello?
In sé nulla, il problema è che è lontanissimo dalle nostre esigenze attuali. Prendiamo l’educazione. Tutti lamentiamo il fatto che la scuola da sola non basta e dovrebbe aprirsi al territorio, collaborando con altre agenzie educative. Allo stesso modo, non può bastare soltanto l’ospedale, la città deve ripensarsi intorno alla cura considerando i temi dell’invecchiamento e degli stili di vita.

In che modo?
La questione dello stile di vita oggi è fondamentale nella prevenzione di certe malattie croniche o dei tumori. Per fare un esempio semplice, se una città scoraggia lo sport, chiudendo le piscine pubbliche per trasformarle in club per ricchi, rende di fatto impossibile il nuoto nelle popolazioni più povere.

Vale anche per il verde?
È ormai chiaro a tutti che il parco pubblico non è sufficiente. Le indicazioni di salute delle città ci dicono che dovremmo avere il 30% di alberi nel nostro contesto di vita, vedere almeno tre alberi dalla finestra e poter raggiungere un parco a 300 metri.

La accuseranno di utopia.
È ovvio che alcune parti della città non potranno tendere a queste condizioni. A maggior ragione, la natura dovrebbe uscire dal parco per essere distribuita più equamente nella città, fuori dalla scatola.

Gratosoglio

Per quanto riguarda la cultura?
Da tempo si è capito che la cultura e l’arte non possono stare solo nei musei, ma nei luoghi di vita. E non uscire soltanto durante le varie week. L’innovazione urbana oggi riguarda principalmente l’ibridazione degli spazi che riescono a uscire dalla monocultura per diventare qualcosa di più mescolato.

Esempi emblematici?
Il carcere di Volterra, con al suo interno un teatro stabile. Il Policlinico Gemelli, con il giardino oncologico al decimo piano. O le sale di studio nei musei a Roma, dove gli studenti possono studiare e, intanto, guardare le bellezze di Roma.

Qual è il senso di queste ibridazioni?
Sono accessibili a tutti, qualsiasi città potrebbe facilmente aprire i suoi spazi a più di una funzione. Non possiamo più sprecare spazi inutilizzabili quando la vita preme. Mentre i giovani non sanno dove trovarsi e passano tutto il pomeriggio a casa da soli, noi teniamo chiuse le scuole e nei musei paghiamo le persone per tenere aperti locali in cui non va nessuno. 

Servono politiche nuove?
Occorre valorizzare la varietà delle possibilità offerte da ogni contenitore, almeno nel pubblico. Dobbiamo “rompere le scatole” per rendere i luoghi disponibili già oggi più adatti ai bisogni nuovi.

C’è bisogno anche di materiali diversi in quella che lei chiama “la città di pietra”?
Il cemento e l’asfalto sono i più inappropriati per gestire la crisi climatica. Non potremo cambiare la pelle delle nostre città in un colpo solo. Ma, per adattarle alle nuove condizioni, dovremo cominciare a ragionare sui materiali che aiutano a vivere meglio.

Quali sono le opportunità?
Sappiamo già tutto. Non c’è mai stata tanta concordia tra i tecnici delle discipline che studiano la crisi climatica. In altre questioni i pareri sono più contrastanti. Qui ci sono anche soluzioni a portata di mano delle amministrazioni.

Può portare qualche esempio?
Bisogna introdurre le cosiddette nature based solution, soluzioni ispirate alla natura, che sfruttano la dimensione drenante dei suoli. Una di queste è la depavimentazione. I giardini drenanti, già diffusi in tutta la Brianza, consentono di assorbire l’acqua piovana – evitando il sovraccarico della falda o delle fognature – mentre portano più verde e spazi di socialità in città. Altre soluzioni sono le piazze inondabili, la piantumazione e l’organizzazione dello stoccaggio dell’acqua piovana, su cui siamo ancora molto indietro.

Basterebbe la volontà collettiva e politica.
È un basterebbe drammatico, ingombrante. C’è poca cultura in merito a certe soluzioni mediamente a basso costo. La politica è inconsapevole dei rischi.

Quali sono?
Una città a tempo determinato va verso la Disneyland, dove a breve mancheranno i servizi primari, come la scuola o il personale ospedaliero. Avremo tanti turisti, ma nessun centro di salute mentale. Ci accorgeremo presto che una città non vive soltanto di tempo libero.

Rispetto alla città delle scatole?
È grave non avvertire come un campanello d’allarme il sottoutilizzo delle strutture pubbliche. Tutto ciò che non viene messo a disposizione delle esigenze di una comunità viene sottratto alla comunità stessa. Allo stesso modo,

Venendo alla città di pietra?
Se insistiamo con un modello di sviluppo che densifica anziché rendere gli spazi più rarefatti, in modo da impedire le condizioni per l’adattamento climatico, avremo una città che si suicida.

Lucia Laura Esposto via Fratelli Castiglioni

Le tre immagini sono molto legate.
Siamo tutti dentro questo meccanismo. Non ci sono i turisti cattivi e gli abitanti buoni: quando prenotiamo una casa per un weekend a Parigi stiamo sottraendo risorse a qualcuno che poteva stare lì. Non possiamo uscirne da un giorno all’altro, ma la consapevolezza di come oggi tutto sia interconnesso dovrebbe spingere i mondi della cultura a chiedersi che cosa vuol dire sentirsi responsabili degli effetti delle nostre azioni oggi. Non per smettere di viaggiare, ma per iniziare a porsi la domanda.

La cultura può aiutare a trovare le connessioni?
Occorre quella che chiamo l’intelligenza connettiva – la capacità di leggere le coerenze e le connessioni tra le cose –  per capire come la questione abitativa sia legata a quella del turismo, a certi modelli di lavoro povero e di mobilità e così via.

Proviamo, in conclusione, a collegare i puntini.
Da qualsiasi questione si parta – casa, educazione, lavoro, salute, svago – comprendiamo che è in atto una trasformazione dei principali bisogni dell’umano in beni e quindi in soldi, in economie. Ma ci sono cose che devono essere sottratte alla mercificazione e guardate nella loro interconnessione, per non dare risposte parziali e semplificatorie.

La politica come può farcela?
Tornando ad essere curiosa di sapere chi sono i suoi cittadini. I milanesi potranno essere più o meno invariati numericamente, ma non sono quelli di due o dieci anni fa. Questo dovrebbe interpellarci su che cosa pensano e quanto sono affezionati alla loro città. Una città che vota oggi non è la stessa che votava quattro anni fa.Ma questo voto, che non è solo degli immobiliaristi, ma anche dei cittadini scontenti, interessa alla politica?

Come ne usciamo positivamente?
Alla città a tempo determinato bisogna rispondere con la città del progetto di vita. E di impresa. La città delle scatole deve diventare la città che le rompe, queste scatole. La città di pietra è quella che diventa di erba e prati. Cambiando gli immaginari riusciremo a nominare le città che desideriamo.

Chi può dare questa scossa?
Il prossimo passo è darsi una mossa anche politica. Cominciare a fare rete e costruire un laboratorio che porti a una proposta. Una svegliata ce la dobbiamo dare. Non possiamo stare in panchina ancora a lungo. Il modello è chiaro, le soluzioni ci sono e quindi c’è anche la responsabilità di indicare soluzioni, azioni e percorsi. Perché la sofferenza della gente è enorme.