Enzo Jannacci, il cantastorie inarrivabile

Irriducibile alle ideologie

Dieci anni fa moriva il narratore in musica per eccellenza. Milanese fino al midollo, ha raccontato fatti e fattarelli attraverso vicende di persone per lo più ai margini. Per lui la realtà non era qualcosa da schivare, ma da fotografare. Con umanità piena. Come quella volta memorabile al Festival di Sanremo. Con un brano che rimane una fucilata. Una roba malavitosa. Non da rose e fiori. Ma da carezze.


24 marzo 2023
di Walter Gatti

Dieci anni fa (29 marzo 2013) si spegneva Enzo Jannacci, quello che a un certo punto ha detto che per tutte le Eulane Englaro del mondo “servirebbe la carezza del Nazzareno”. Lui – cardiologo, diplomato al Conservatorio, musicista nella Milano degli anni ‘50 insieme a Giorgio Gaber, Adriano Celentano, Tony Dallara, Ricky Gianco, Franco Cerri, Gino Paoli e Luigi Tenco – aveva un segreto: era un narratore inarrivabile. Beninteso: un narratore in musica. Al centro di tutte le sue canzoni c’erano storie, fatti, vicende, racconti, flash, eventi. Enzo era il principe dei cantastorie, inserito obbligatoriamente in quella trinità artistica di cui fan parte anche Fabrizio De André e Francesco Guccini.

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Un mondo in canzoni di domande e speranze

Narrare storie in forma di canzone non è da tutti. Si pensi (purtroppo) all’oggi della canzone: sentimenti, frazioni di sentimenti, palpiti, istanti emozionali, debolezze in forma devastante, ma nemmeno una sola storiella, neppure uno scampolo di fatto o fatterello. Certo: nell’oggi ci sono depressioni a iosa, insulti in quantità, introspezioni leggerissime ovunque, ma nessun racconto di cose viste, accadute, con protagonisti che fanno (o sono vittime di) cose reali. Ahi ahi, dove s’è nascosta la realtà mentre siamo impegnati a far canzoni cantando d’altro….
Immerso fino al collo nella Milano pimpante del dopoguerra, Jannacci incideva i primi due dischi (“La Milano di Enzo Jannacci” e “Sei minuti all’alba”) facendo sintesi della milanesità degli anni ‘60, con Dario Fo, Cochi e Renato, Giorgio Strehler, raccontando di barboni e terroni (si ricordi la tristezza per le pene d’amore di “Soldato Nencini”), di goliardi e potenti, di speranze e di fallimentari delusioni.
Impossibile non pensare a Testori, a quello che ad esempio scrive delle bassezze sportive del Dio di Roserio. In questo periodo di esordi, l’Enzo che stringe amicizia sempre più stretta con Giorgio Gaber, scrive cose inaudite per quell’epoca di boom economico, di ripartenza post-bellica, di cultura che si allontana galoppando dalla triade borghese Dio-Patria-Famiglia. Cosa scrive di inaudito Jannacci?
Cose su cui nessuno scriverebbe. Ad esempio scrive Passaggio a livello, una canzone ‘minore’ (poi interpretata anche da Luigi Tenco), un istante di immensità, un flash che porta dentro un mondo di domande e speranze, un brandello di poesia che potrebbe essere di Montale:

Fermi a un passaggio a livello
Mi hai parlato di te in modo che io non conoscevo
Piano mi hai sfiorato la mano, sussurrato parole dimenticate

Ma in un baleno è schizzato via il treno
Abbiam smesso di guardarci, poi mi hai chiesto se era un merci

Torna a parlare di te, a parlare del cuore, delle cose dimenticate
No, mi hai guardato ridendo
Sei rimasta lì muta, muta come t’ho conosciuta

Voce e sottovoce

Erano i primi anni ‘60: da allora Jannacci non si è più fermato ed ha continuato a fare il cantastorie scrivendo cose inaudite. Dall’altro lato di Milano Gaber metteva in piedi una sfida tutta sua alle coscienze nella forma del teatro-canzone. Jannacci, invece, scriveva canzoni che metteva nei dischi, che portava in tour che erano spettacoli teatrali, come i recital Parlare con i limoni e Tempo di pace pazienza, in cui musica, ironia, dramma, personaggi e invettive entravano in un unico calderone da cui ne emergeva un pastone tutto suo di umanità irriducibile a mode, ideologie e vezzi artistici passeggeri. Raccontava sempre e comunque, l’Enzo Jannacci, sia quando faceva blues che quando sottovoce disegnava l’acquerello di Vincenzina, storia di degrado di periferia post-industriale davanti ad un’industria che ha chiuso i battenti (Vincenzina davanti alla fabbrica, Vincenzina il foulard non si mette più…Una faccia davanti al cancello che non apre più…Vincenzina hai guardato la fabbrica, Come se non c’è altro che fabbrica, E hai sentito anche odor di pulito E la fatica è dentro là…).

Lo “scatto” a Sanremo

E a un certo punto Enzo se ne va a Sanremo (che nei primi anni ‘90 aveva dei cartelloni pazzeschi) e ci porta una delle sue canzoni più tremende e (per l’appunto) inaudite: La fotografia. È una storia che non si dovrebbe neppure pensare di raccontare: il padre malavitoso che osserva per terra un tratto bianco fatto con il gesso dalla polizia. Quel tratteggio è la sagoma del figlio, morto in un istante di bassa manovalanza criminale.

Così adesso che è finito tutto e sono andati via
e la pioggia scherza con la saracinesca della lavanderia
no io aspetto solo che magari l’acqua non se lo lavi via
quel segno del gesso di quel corpo che han portato via
e tu maresciallo che hai continuato a dire andate tutti via
andate via che non c’è più niente da vedere niente da capire
credo che ti sbagli perché un morto di soli tredici anni
è proprio da vedere perché la gente sai magari fa anche finta
però le cose è meglio fargliele sapere.

Guarda la fotografia
sembra neanche un ragazzino
io son quello col vino
lui è quello senza motorino

Impossibile seguire questo testo senza farsi condurre dall’impianto musicale della canzone, emozione pura per una storia tutta sbagliata. Parte come una confessione a mezza voce, si sviluppa come melodramma ed esplode nel ritornello come un balletto ironico, tristissimo e caustico, in cui morte e paternità, denuncia sociale e disillusione fanno parte di un unico dolente e inscindibile quadro d’insieme.
Forse non è la sua canzone più celebre o più bella, ma è indubbiamente questa la canzone inarrivabile di Jannacci, quella in cui tutto viene frullato a uso e consumo del brivido di chi ascolta: compassione e rabbia, metropoli e politica, affetti e balordaggine, polizia e pioggia, giovani e adulti, fastidio e fuga si mescolano nello sguardo di quel padre inconsolato e inconsolabile, che spera solo di provare a scordare ciò che sarà impossibile da dimenticare.
Ecco la “storia delle storie” raccontata da Enzo, quella del padre di piccola malavita, che va a far compagnia a tutte le altre sue “invenzioni”, da Giovanni telegrafista e nulla più, stazioncina povera, c’erano più alberi e uccelli che persone, a quello che Andava a Rogoredo, cercava i suoi danée; girava per Rogoredo e vusava come un strascée: No, no, no no, non mi lasciar.
Tanti personaggi strambi e inconsueti abitano le sue canzoni, proprio come nella vita. E “compassione” è lo sguardo segreto con cui lui racconta tutte quelle vicende, che facevano ridere e piangere, incazzarsi e sbellicarsi. Come quando parla di tossici, disoccupati e depressi vari in Se me lo dicevi prima (Ma sì se me lo dicevi prima, Prima quando? Ma prima no? Ma io ho bisogno adesso, io sto male adesso, Ehh io ho bisogno di lavorare adesso, io sto male adesso: sto bene e sto male… Bisogna saperlo prima che dopo non c’è lavoro, Capito, eh?), sarcastica inquisizione del bauscia che “se la tira” davanti alle rogne altrui.

6 via Ascanio- Forlanini

La compassione come sguardo

Compassione, esatto. Non analisi, ma compassione: questo è lo sguardo dello Jannacci cantastorie. Nelle fabbriche della periferia milanese di Vincenzina, quelle di Greco, di Sesto, quelle che erano vicinissime alla Via Gluck di Celentano, oggi i cancelli sono riaperti.
Ma dentro ai capannoni non ci sono più le catene di montaggio, gli operai e i padroni, gli scioperi e le manifestazioni. In quelle vecchie fabbriche della Milano periferica ci sono le nuove sedi delle new-co ad alta tecnologia, ci sono le aziende hi-tech, ci sono gli spazi del coworking, tutti lindi e puliti, dove la gente lavora in cloud, con palestre per muscolosi e mattoni a vista negli spazi open space. Oggi Vincenzina non guarda più nessun cancello.
Il padre della fotografia non lo si vede più (o magari è in Via Padova e dintorni), perché sembra che Milano (come tante altre metropoli) sia contesa dai fighetti della ZTL e dai tatuati che cantano rap e trap in una miscela di etnie italico-mediterranee.
Chissà come Jannacci avrebbe cantato questo tempo di estremi che non si considerano, si ignorano e si sopportano a malapena. Chissà come quella carezza che aveva invocato sui padri e sui figli, sugli onesti e sugli irregolari, potrebbe ancora scivolare su tutti loro….