Eppure è una bambina

Il terribile epilogo della vicenda terrena di Indi Gregory – la piccolissima inglese di otto mesi affetta da una grave malattia neuromuscolare metabolica congenita – vittima della repentina sospensione dell’assistenza ventilatoria disposta da tre giudici del Regno Unito, non può essere derubricato a drammatica notizia di cronaca.
Quel che è successo è un fatto. Un atto di cultura di morte contro la libertà, la dignità, e i diritti di ogni persona. Anche della persona Indi, per quanto ammalata inguaribile e destinata alla morte prematura. Riflessione argomentata e approfondita di un genetista clinico, Membro della Pontificia Accademia per la Vita, già Professore Ordinario, Facoltà di Medicina e Chirurgia, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma

      


17 novembre 2023
La vita è sempre un bene
di Roberto Colombo 1

Opera di Letizia Fornasieri – 2000 @Courtesy

Si è amaramente conclusa, prima dell’alba del 13 novembre, la vicenda terrena di Indi Gregory, la bambina inglese di otto mesi affetta da una grave malattia neuromuscolare metabolica congenita. Nella coscienza dell’uomo in cui è vivace il senso religioso della vita (non importa la fede: ebraica, cristiana, islamica o altra) si è aperto per lei l’orizzonte dell’eternità – come per gli altri bambini che lasciano il mondo poco dopo essere venuti al mondo – nelle braccia di Dio, sorgente di pace e di bene, che l’aveva chiamata all’esistenza nove mesi prima di vedere la luce. La sua nascita al cielo è avvenuta in una stanza dell’hospice dove era stata trasferita dal Queen’s Medical Centre di Nottingham (UK) per la procedura di estubazione. La repentina sospensione dell’assistenza ventilatoria è stata disposta dai giudici Peter Jackson, Eleanor King and Andrew Moylan che hanno respinto il ricorso di Claire e Dean Gregory, i genitori di Indi, dopo la sentenza di primo grado emessa dal giudice Robert Peel.
La probabilità di un arresto respiratorio e cardiocircolatorio per mancanza di stabilizzazione della piccola paziente dopo la rimozione non graduale del supporto ventilatorio era molto elevata, perché, con il suo quadro clinico critico, il cosiddetto “weaning” (“svezzamemento” respiratorio: la delicata transizione dalla ventilazione meccanica alla respirazione spontanea) ha una elevata incidenza di fallimento. La procedura autorizzata dai giudici, per la stessa natura di rimozione di un supporto vitale clinicamente indispensabile a questa piccola paziente, è stata intenzionalmente volta a porre fine anzitempo alla vita di Indi.
Per poter continuare a vivere (quanto tempo? Nessuno è in grado di affermarlo; non di rado, la “resilienza somatica” dei bambini, pur in condizioni cliniche gravi, è imprevedibile) la piccola avrebbe dovuto essere assistita, curata – senza terapie risolutive, che attualmente non esistono – in modo appropriato al suo stato fisiopatologico, e questo è medicalmente e infermieristicamente possibile, perché avviene già in centri di intensivologia neonatale e pediatrica e di cure palliative per i bambini. Non farlo è stata una scelta, non una necessità ineluttabile. E, come per ogni decisione non cogente, è legittimo discutere su di essa in modo argomentato, senza che per questo nessuno si senta autorizzato a stracciarsi le vesti, siano esse i panni di una madre e di un padre, il camice di un medico, la toga di un giudice o la giacca di un filosofo.

La malattia da cui Indi era affetta

L’abbrivio di ogni riflessione sulla condotta dei medici, le istanze dei parenti stretti di un degente (per i bambini, in primis i genitori), le deliberazioni dei responsabili di una struttura sanitaria e le eventuali sentenze dei giudici che riguardano la vita, la salute e la morte di un paziente – la cosiddetta “etica clinica”e il “diritto clinico” – deve partire, per conservare il realismo, dall’attenta, puntuale considerazione della malattia che ha colpito la persona in questione 2.

Scienza, competenza e sapienza: distinguere per unire

Alcuni commentatori sui quotidiani nazionali hanno disquisito (fatuamente) della presunta differenza di preparazione clinica, esperienza nelle cure palliative neonatali, strumentazione intensivologica od organizzazione di reparto della staff medico-infermieristica, tra il Queen’s Medical Centre di Nottingham e/o altri nosocomi neonatali del Regno Unito, da una parte, e l’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma, dall’altra.
Una simile affermazione non solo è priva di riscontri documentali, ma ingiustamente penalizza la scienza e la competenza dei medici e degli infermieri britannici, l’elevato livello diagnostico e terapeutico delle loro équipe, la presenza – accanto ad essi – di figure professionali psicologiche, sociologiche ed etico-giuridiche che li sostengono nella comunicazione con i pazienti e i loro familiari, e l’architettura gestionale dei centri medici che formano la rete del National Health Service (Nhs) al di là della Manica, nonostante la crescente limitatezza delle risorse economiche e i tagli di personale operate dei governi britannici.
La scienza e la competenza non può essere negata ai colleghi che lavorano nel Regno Unito e agli amministratori della sanità pubblica della Gran Bretagna. Dove sta dunque la differenza, per una bambina affetta da una malattia genetico-mitocondriale inguaribile (attualmente, ovunque nel mondo), tra essere ricoverata nell’ospedale della contea del Nottinghamshire e in quello di proprietà della Santa Sede?
La differenza non risiede nella scienza medica (sperimentale e clinica), nella competenza diagnostico-terapeutica, e neppure nella capacità curativa (intensivologica o palliativa-neonatale). Entrambe le équipe mediche “sanno” e “sanno fare”. Entrambe non avrebbero applicato terapie futili a Indi (giusta rinuncia al cosiddetto “accanimento terapeutico”). Entrambe non avrebbero strappato alla morte la piccola paziente, che presto o tardi sarebbe subentrata. Lo staff britanno, però, ha deciso di non continuare a curare la piccola paziente, non supportare i genitori nello stare sempre vicini a lei, e di anticiparne intenzionalmente il decesso in ospedale attraverso la sospensione dei supporti vitali.
Quello romano, invece, era disposto a prenderla in carico e ad accompagnarla con cure medico-infermieristiche appropriate fino al momento della morte (prognosi infausta sulla base di simili rari casi di pediatrici con lo stesso difetto genetico-metabolico).
Morte che sarebbe probabilmente avvenuta come conseguenza di una progressiva insufficienza omeostatica multisistemica (interessamento di più distretti anatomofisiologici, in particolare quelli che comprendo il sistema nervoso, il cuore e la muscolatura scheletrica e della respirazione, che sono tra i maggiori consumatori di energia del nostro corpo) come accade quasi sempre, purtroppo, per le malattie mitocondriali (in senso genomico o solo cellulare) a esordio precocisissimo, e questo è il caso di Indi.
L’équipe del Bambino Gesù sarebbe stata accanto ai genitori della bambina non con proposte di anticiparne volontariamente la morte, ma di custodirne con amore la vita che le restava da vivere, rispettando le sue energie vitali ancora presenti, alleviandone il dolore e godendo della sua presenza, pur per un breve tempo, prima del decesso. Il tutto – è opportuno ripeterlo – senza alimentare illusioni di guarigione o di lunga vita che la medicina non può e non deve promuovere (i miracoli, sempre possibili ex parte Dei, non sono anticipabili ex parte hominis: non sono alla portata dell’homo/mulier medicus/a).
È una questione di sapienza, non di scienza e di competenza. Una sapienza che non è riducibile a conoscenza empirico e sa donare “sapore”, gusto, amore anche ad una vita umana brevissima (quanto lo sarebbe stata, effettivamente, quella di Indi, non lo sappiamo: la prognosi quoad vitam è una inferenza statistica sulla base dei casi noti e non ha carattere predittivo individualmente certo).
La moralità nell’agire – che è l’esito della sapienza perché consiste nel nesso tra un’azione ed il significato ultimo inscritto in essa, la sua “verità” – si esprime nell’amore alla realtà, alla vita nostra e degli altri, più di quanto siamo attaccati all’idea che di essa ci siamo costruiti (l’inevitabile, ma non insuperabile, “pre-concetto”).
La sapienza, e, di conseguenza, la moralità, allarga gli orizzonti della conoscenza, della ragione, e non ci fa fermare al “primo punto di vista”, quello che solitamente non coglie ciò che è fondamentale, ma sola la “apparenza” della realtà, in una prospettiva che c’entra con la questione in gioco, ma non è tutto né, solitamente, ciò che più vale.
Un “errore di prospettiva” o una “prospettiva parziale” (non fa differenza: cioè che afferra solo una parte della realtà, non l’intero, è lontano dalla verità) è proprio ciò che caratterizza quello che potremmo chiama l’approccio “britannico” alla malattia inguaribile nei neonati (ma anche nei non ancora nati). Un approccio che è presente non solo, e neppure prevalentemente, nelle posizioni dei singoli intensivisti neonatali (o degli ostetrici) e delle loro équipe sanitarie – i quali, se fossero davvero “liberi” dal timore di conseguenze negative per i loro contratti di lavoro e la carriera, esprimerebbero posizioni diversificate – ma è anzitutto pervasivo nella cultura e nella politica dominante del Nhs e dello stesso governo e parlamento del Regno Unito.

Il neonato è un uomo o una donna, anche se nato da poco

Vi sono affermazioni che sembrano una tautologia (e lo sarebbero, se non fossimo immersi in una cultura e in una politica – anche quella sanitaria – nella quale nulla è più dato come acquisito da tutti, come condiviso sine dubia). Una di queste è quella che il professor Jérôme Lejeune esprimeva così dinnanzi alle corti giudiziarie degli Stati Uniti e dell’Europa quando veniva interrogato sulla vita umana ed il suo sviluppo: «A man is a man is a man» [«Un uomo è un uomo ed è un uomo»].
Al termine di questa frase non ci può stare altro che un punto: ogni punto e virgola, virgola, inciso, parentesi o nota a piè di pagina che tenti di precisare, condizionare, delimitare, subordinare o scavalcare l’affermazione ne riduce la portata di verità antropologica originaria e fondativa (anche solo secondo ragione; ancor più nella prospettiva della Rivelazione di Dio). Un’affermazione laicissima, diacronica, apartitica, non etnicamente né geograficamente limitata, anonima e comprensibile anche per bambino che è appena entrato nell’età della ragione e sa distinguere un altro bambino da un cagnolino o un gattino.
E se un neonato o un bambino è un uomo, ciò implica che ha il valore, la dignità e i diritti fondamentali di un uomo. La sua vita vale, la sua vita è degna di vivere, e la sua vita è un diritto da rispettare, indipendentemente dai giorni, mesi e anni che ha già vissuto e da quelli che gli restano da vivere. La malattia, anche quella inguaribile (con i mezzi attuali della medicina), non rende questi piccoli – come non rende un giovane, un adulto o un anziano – “meno uomini” L’art. 6 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia (CRC, approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite ed entrata in vigore il 2 settembre 1990) recita: «Gli Stati parti [della Convenzione, tra cui il Regno Unito, che l’ha accettata e ratificata nel 1991] riconoscono che ogni fanciullo ha un diritto innato alla vita.  Gli Stati parti si impegnano a garantire nella più ampia misura possibile la sopravvivenza e lo sviluppo del fanciullo»: la loro vita non ha “meno valore”, non è “meno degna” (di essere vissuta) e non ha “minori diritti” di quella di un bambino sano. I diritti dei piccoli e dei fragili non sono dei diritti piccoli e fragili.
Nella Carta di Roma, documento sottoscritto dai responsabili sanitari dei policlinici di quattro università romane nel febbraio del 2008, si legge: «Con il momento della nascita la legge attribuisce la pienezza del diritto alla vita e quindi all’assistenza sanitaria. Pertanto un neonato vitale va trattato come qualsiasi persona in condizioni di rischio ed assistito adeguatamente». Considerazioni analoghe sono state espresse dal Consiglio Superiore di Sanità (Ministero della salute) nel 2008.
L’autorevole consesso ha ribadito che «al neonato, dopo averne valutate le condizioni cliniche» devono essere «assicurate le appropriate manovre rianimatorie, al fine di evidenziare eventuali capacità vitali, tali da far prevedere possibilità di sopravvivenza, anche a seguito di assistenza intensiva».
Un neonato o un bambino malato – anche se la malattia di cui soffre non è attualmente guaribile e la prognosi è infausta – ha diritto ad essere curato fino al momento del decesso (che può avvenire in età pediatrica o successivamente) con la migliore assistenza, medica, infermieristica, psicologica e sociale disponibile nel Paese in cui è nato o in altro Paese disposto ad accoglierlo.
Non devono sussistere confini nella presa in carico dei piccoli malati e la collaborazione tra istituzioni ed enti sanitari di diversi Stati deve essere promossa, non ostacolata, dal potere esecutivo e giudiziario di ciascuna Nazione. Neppure l’inimicizia tra i popoli e le tensioni bellicose tra i governi riescono a fermare lo slancio professionale e umano dei medici e degli infermieri nelle regioni del mondo dove la violenza e le ostilità sono endemiche.
Negli ospedali israeliani, palestinesi, siriani e libanesi i pediatri di ogni etnia e religione accolgono e curano neonati e bambini provenienti da famiglie di ogni territorio mediorientale, senza distinzione alcuna, trasferendo competenze, risorse e personale da un centro medico all’altro.
Perché così non dovrebbe accadere anche per una Nazione dalle lunghe tradizioni di civiltà, democrazia e cultura sanitaria quale è l’Inghilterra? Non è forse nato in Gran Bretagna, nella metà del XIX secolo, il movimento moderno per l’assistenza e la cura fisica, psicologica e spirituale dei malati nella fase terminale della loro malattia?
Non sono state proprio le autorevoli riviste mediche britanniche Lancet e British Medical Journal a pubblicare per prime degli articoli che evidenziavano la necessità di migliorare le condizioni di vita degli inguaribili e dei morenti? (cf. M. J. Lewis, Medicine and Care of the Dying: A Modern History, Oxford University Press, 2007, p. 21). Non era un’infermiera del Regno Unito la signora Cicely Saunders che aprì a Londra, nel 1967, il St. Christopher’s Hospice, considerato il primo hospice moderno, dall’esperienza del quale sono state successivamente sviluppate altre strutture e altri percorsi clinici per le cure palliative? Il St. Christopher’s venne creato a partire dal presupposto (pubblicamente dichiarato dalla Saunders) che «You matter because you are you, you matter to the last moment of your life» («Sei importante perché sei tu, sei importante fino all’ultimo istante della tua vita»).
Cosa è rimasto di tutto questo nella cultura, nella società e nella politica della Gran Bretagna?

I bilanci del Nhs e la vita degli inguaribili

La risposta a questo ed altri interrogativi è da ricercare nell’allocazione per settori di intervento delle risorse rese disponibili dal Governo di Sua Maestà al sistema sanitario pubblico della Gran Bretagna, allocazione che il Nhs ha gestito secondo criteri di management sanitario “politicamente corretti” rispetto alla cultura e al potere legislativi del Regno Unito e agli indirizzi impressi dai governi che si sono succeduti al Numero 10 di Downing Street.
Lo scorso 5 luglio l’Inghilterra ha festeggiato i 75 anni del Nhs. Un traguardo segnato, purtroppo, da una serie di criticità che hanno mostrato ai cittadini l’immagine di una sanità pubblica (di cui erano un tempo giustamente orgogliosi) che si è ritrovata fragile come forse mai prima d’ora. Nato nel 1948, pochi anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale, l’Nhs fu ideato per offrire servizi sanitari a tutti, a prescindere dalla possibilità di pagarli, sulla base di un modello, quello della Workmen’s Medical Aid Society, proposto da una comunità di minatori e operai, categorie sociali non abbienti.
Sorto per tutelare e promuovere la vita e la salute dei più poveri, deboli e indifesi cittadini, questa prestigiosa istituzione pubblica si è ritrovata ora a fare delle scelte che penalizzano proprio loro, e tra questi vi sono i bambini nati con malattie congenite gravi e non guaribili (i più bisognosi di assistenza tra i piccoli pazienti, che hanno fame e sete di cura), le cui “aspettative di vita” non riescono a competere con quelli dei non portatori di questi handicap, perché richiedono una investimento di strutture, personale e risorse economiche pro capite molto più elevato. Aiutare a superare la fase critica pre-, peri- e neonatale di questi piccoli inguaribili significa dover affrontare tutto quello che richiederà – in termini sanitari, sociali e finanziari – la loro cura quando cresceranno e fino a quando vivranno. Quanto meglio saranno curati, tanto più si allunga (anche solo in termini di mesi o pochi anni) la loro prospettiva della vita.
Garante della vita e della salute dei cittadini, il Nhs assurgeva a nuovo idolo del benessere britannico, così che Nigel Lawson, Cancelliere dello Scacchiere della premier Margareth Thatcher, era solito additarlo come la «cosa che per gli inglesi più si avvicina alla religione». Per questo era ed è tuttora “intoccabile”, e il governo e la magistratura del Regno Unito ne difendono sempre a spada tratta le decisioni, ne assecondano le scelte (anche quando sono discutibili) e talora ne coprono anche gli errori. Ma la crescita del Nhs ha subìto una battuta d’arresto in seguito alla crisi finanziaria del 2008. Gli investimenti pubblici in sanità sono fermi da più di vent’anni. I tagli al bilancio operati dai governi hanno messo in ginocchio i manager degli ospedali. Così, tra l’altro, i posti letto sono passati dai 299mila (anno 1987) a 141mila prima del Covid-19 (anno 2019). E sono scesi, più che in proporzione, i posti disponibili in terapia intensiva neonatale e per le cure pediatriche a media ed alta intensità. Anche l’assistenza sociosanitaria alle famiglie con bambini gravemente disabili ne fatto le spese. Secondo la Health Foundation, un ente di beneficenza indipendente e think tank per l’assistenza sanitaria per le persone del Regno Unito, nel biennio 2019-2020 la spesa della Gran Bretagna per i servizi sanitari è stata di circa 187,6 miliardi di sterline a fronte dei 227,4 miliardi messi a disposizione, in media, dai Paesi dell’Unione europea.
Inutile nascondere che i tagli ai diversi settori della sanità vengono fatti sotto pesante pressione politica, e non solo in Inghilterra. Le classi sociali e le fasce di età che più contano per il consenso pubblico ad un governo e i cui membri mettono la scheda nell’urna elettorale non possono venire “traditi” dai ministri e dai parlamentari attraverso scelte che minacciano la loro salute e la loro vita. Dura lex sed lex, quella della politica sanitaria. E i medici e gli infermieri che non ne condividono le scelte devo piegarsi ad esse per non perdere il posto di lavoro od essere discriminati nella carriera.
Chi è stato a lavorare, anche per brevi periodi, negli ospedali britannici dove vi sono dipartimenti di medicina materno-fetale, centri di diagnostica pre-natale, e unità di terapia intensiva neonatale conosce personalmente il clima di sofferta connivenza che si è venuto creando a seguito delle linee guida attuate nei casi simili a quelli di Charlie Gard, Alfie Evans, Indi Gregory e numerosi altri che non sono balzati alla ribalta della cronaca solo perché i genitori erano d’accordo con le decisioni dell’équipe medico-infermieristica. Oppure, pur non essendolo, per timore non hanno opposto resistenza legale a queste decisioni che hanno posto fine anzitempo alla vita dei loro figli affetti da malattie inguaribili.

La sofferenza dei bambini: un’obiezione insormontabile alla loro cura?

Non possiamo però eludere un’obiezione sollevata da più parti (“laiche” e anche confessionali): consentire il trasferimento di Indi a Roma, presso l’Ospedale Bambino Gesù che si era offerto di accoglierla e prendersene cura, non avrebbe provocato inutili sofferenze alla piccola paziente? Più ampiamente, lasciarla in vita non sarebbe stato un “inutile tormento” per lei ed i suoi genitori, un “dolore senza ragione”, una “tortura mostruosa”, od una “ostinazione disumana”?
Due considerazioni (salvo miglior giudizio di più autorevoli voci o penne). Anzitutto, come sappiamo dalla testimonianza dinnanzi al giudice Peel dei medici che la assistevano al Queen’s Medical Centre, la bambina era già sotto «trattamento analgesico» e riceveva «otto trattamenti per il suo comfort». Si suppone quindi che il dolore era adeguatamente controllato con una tipologia e posologia di trattamento appropriata. Stante che il trasferimento dal Regno Unito a Roma sarebbe avvenuto con una areoambulanza adeguatamente attrezzata per il tipo di paziente (come avviene in tutti i voli sanitari) e che personale medico-infermieristico specializzato del Bambino Gesù sarebbe stato presente a bordo – come era stato predisposto al tempo del caso di Charlie Gard – quale ulteriore significativo stress algico non sarebbe stato possibile controllare con i farmaci già testati come efficaci al letto del piccolo paziente dalla équipe britannica, modulandone opportunamente la somministrazione come un anestesista-intensivista neonatale sa fare? E quali rischi maggiori per la sua vita avrebbe potuto correre durante il volo o il percorso in autoambulanza antecedente e successivo ad esso, rispetto a quelli del trasferimento all’hospice e della estubazione poi avvenuta?
Seconda (e non contingente) considerazione. L’argomentazione del “dolore” (più precisamente, della “sofferenza”, che include la percezione soggettiva, la memoria, l’elaborazione e l’accettazione o l’orrore del dolore) è una obiezione invalicabile per decidere di un’azione che possa provocarlo in me o in altri? Ogni nostra libera scelta, che abbia ricadute su di noi oppure su altre persone, oggi o prevedibilmente in futuro, la facciamo esclusivamente in previsione che non possa generare sofferenza alcuna? Il criterio ultimo della vita è la sua “analgesia” fisica, psicologica o spirituale?
Diversi autori hanno scritto che viviamo in una società a tensione idealmente analgesica (e non solo perché il consumo annuo pro capite dei farmaci analgesici cresce senza sosta).
Non so se questo sia vero. Di certo, alcune mie scelte, consapevolmente ponderate, non le ho prese anzitutto perché esenti dal rischio della sofferenza per me e/o per altri.
E così le persone che incontro, con cui condivido alcune decisioni, o che accompagno discretamente nel dialogo verso le loro libere determinazioni, non mostrano come criterio assoluto quello di “non dover soffrire” o di “non far soffrire gli altri”.
Certamente, questo è uno criterio molto rilevante, da includere sempre – e tra i primi – soprattutto quando pensiamo al dolore altrui. Il dolore non lo si augura a nessuno (neppure ai nemici), la sofferenza non è auspicabile. Ma non è l’unico criterio, ed il suo peso nella decisione da prendere è bilanciato dallo scopo, dal valore che riconosciamo alla nostra vita e a quella di ogni donna e uomo la cui vita non è indifferente rispetto alle nostre scelte.
La stima per la propria vita ed il suo valore per sé, per gli altri (e agli occhi di Dio), l’amore di un padre e di una madre per il proprio figlio e di un marito per la propria moglie (e viceversa), l’affetto dei figli verso i genitori, la dedizione professionale e umana di un medico e di un infermiere rivolta ai propri paziente, la gratitudine verso chi ci ha messi al mondo, fatti crescere, educati e si è preso cura di noi (e verso il Padre Eterno che ci ha creati), la fedeltà alla propria missione nel mondo (per chi lo riconosce, quella cui il Signore ci ha chiamati), e tutto il resto tra ciò che più impegna la nostra libertà, la tensione umana verso il nostro destino e la compagnia al destino dell’altro, non li misuriamo, non li pesiamo forse in rapporto al senso, al significato ultimo (o, talvolta, solo penultimo) della nostra esistenza e delle persone cui vogliamo bene  e che ci vogliono bene, dei nostri cari e degli amici e, perché no, di tutto il creato?
In questa “misura” (che non è nostra, ma ci proviene dall’Autore della vita), su questa “bilancia” (che il Creatore tiene in mano) il dolore, la sofferenza si sfida con il significato dell’esistenza ed è sfidato da essa. Così siamo sempre proiettati oltre il dolore e la sofferenza per poter stare dinnanzi ad esse con occhi luci (anche di lacrime) e con la carne ferita (anche mortalmente), ma mai privi di speranza.  La libertà muove un passo, si decide non quando è esclusa la possibilità della sofferenza per sé e per gli altri, quando il dolore non si palesa all’orizzonte, ma il giorno, il momento in cui ti senti amato da qualcuno per cui vale la pena di soffrire e che ci ama così intensamente che le sue sofferenze non ci paralizzano, non sono la nostra condanna.
Non è necessario (anche se solo arrivando lì si percepisce la vertiginosità di quanto detto) andare ai piedi della Croce e alzare lo sguardo al Crocifisso, oppure incontrare i santi che sono ancora in terra o guardare alla vita di quelli in cielo per cogliere cosa è implicato ultimamente nel “senso della sofferenza” (per questo, sono avvincenti e convincenti alcune pagine degli scritti del beato don Carlo Gnocchi sul “dolore innocente” dei bambini malati). Può essere sufficiente, anche se non definitivo, riflettere sulla nostra condotta di vita e su quella di chi conosciamo, per scoprire che, ogni giorno, non ci muoviamo solo per evitare il dolore nostro e degli altri, ma per una positività della vita che è più forte del dolore e che nessuna sofferenza può cancellare in noi e in loro, e per la quale non siamo disposti a rinunciare anche all’eventualità di dover soffrire e far soffrire gli altri.

Sempre (e/o solo) ai genitori la decisione?

Nell’arena del dibattito pubblico sul caso Indi, così come in quelli di altri bambini e bambine inguaribili che hanno subito la stessa sorte per via giudiziaria dopo un duro contenzioso con la struttura sanitaria e i medici e sono ricorsi ai giudici, vedendo confermata la decisione di porre fine intenzionalmente alla loro vita, molte voci – contrarie a quanto accaduto – si sono levate per affermare che gli unici a potere e dovere decidere devono essere i genitori. Analogamente, per quanto concerne casi che riguardano malati adulti in fase terminale della malattia o gravemente disabili non in grado di esprimere il proprio consenso o dissenso rispetto a decisioni di “fine vita”, simili voci hanno chiesto di lasciare ai figli, ai fratelli e sorelle, alle mogli o ai mariti la scelta definitiva sul provocare o meno la morte dei loro congiunti.
Anzitutto, una domanda (provocatoria). Se i casi di Charlie, Alfie, Indi ed altri resi noti dalla stampa fossero stati alla rovescia – ossia, nell’aula dei tribunali britannici la sfida era tra i medici che portavano prove della possibilità e ragionevolezza del prendersi cura del neonato e della loro disponibilità a farlo, da una parte, e genitori che negavano un’aspettativa di vita per il proprio figlio degna di essere sostenuta ed accompagnata e si rifiutavano di vederlo continuare ad essere ricoverato in ospedale – cosa avrebbero detto costoro? In realtà, questa non è un’ipotesi peregrina, ma quanto accade realmente (anche se i riflettori non vengono puntati su di essa) in diversi Paesi europei e del Nord America, in taluni ospedali pediatrici e in certi Stati ancor più frequentemente che il caso opposto.
Del resto, non è forse una situazione simile a quella della interruzione volontaria della gravidanza, quando la gestante viene a conoscenza di una lieve anomalia del feto, compatibile con la vita del nascituro e per la quale esiste una terapia validata che i medici ostetrici e neonatologi assicurano avere un’ottima o buona probabilità di successo (anche se questo comporta interventi prima o dopo il parti e una maggiore attenzione ed impegno per i genitori e qualche sofferenza per il figlio, da piccolo o da grande), e decide comunque di abortire? Se vi sono casi in cui il medico suggerisce lui stesso alla donna di interrompere la gravidanza e lei si dimostra contraria, ve ne sono altri in cui il primo non intravvede la necessità di un aborto e la seconda lo richiede comunque. Ci si può chiedere (ma la domanda è oziosa, perché la risposta è nota) come mai, nello stesso Regno Unito, a decidere sull’accesso aborto sia ultimamente la donna stessa, mentre a decidere sulla vita del neonato debbano essere i medici e i giudici.
Occorre ribaltare la prospettiva per tentare di giungere ad una posizione che non vada a scapito del “meritevole di tutela” (secondo le convenzioni internazionali sui minori, spesso disattese). Chi può decidere (nel senso di deliberare eticamente o giuridicamente, in modo vincolante) se un neonato affetto da una malattia inguaribile ha diritto a continuare a vivere finché non sopraggiunga (eventualmente) la sua morte dopo essere stato curato in modo appropriato? Nessuno. Il diritto alla vita di un essere umano, che ha la sua radice ontologica nel fatto che è un essere umano (senza ulteriore qualificazione: l’affermazione “A man is a man is a man” di Lejeune), o lo si riconosce per tutti e in ogni caso, oppure non lo si può attribuire a qualcuno da parte di nessuno.
Ogni decisione a riguardo finisce per essere arbitraria e discriminatoria. In un’epoca in cui tanta attenzione viene giustamente posta alla “non discriminazione” tra persone in base alle loro attitudini, ai loro orientamenti (anche sessuali) e alle loro scelte di vita, come è possibile ammettere una “discriminazione” sul diritto alla vita e alle cure essenziali fondata sullo stato di salute o malattia, le aspettative circa la durata della vita stessa, la cosiddetta “qualità della vita”, le possibili sofferenze, il “consumo di risorse sanitarie”, il “costo per la società” ed altro ancora?
Come scriveva San Giovanni Paolo II nell’enciclica Evangelium vitae, «La vita è sempre un bene. È, questa, una intuizione o addirittura un dato di esperienza, di cui l’uomo è chiamato a cogliere la ragione profonda» (n. 34).
Sicuramente, a motivo dell’amore che nutrono per i propri figli e della relazione di paternità e maternità che ne è l’origine e il fondamento, i genitori sono generalmente i più portati ad intuire e riconoscere che la vita dei loro neonati e bambini “è sempre un bene” e a difenderla da ogni possibile aggressione. Ed è giusto che essi siano i primi a venire interpellati dai medici (e dai giudici) circa la prosecuzione dell’esistenza dei loro figli malati inguaribili.
Ma, purtroppo, essi non sempre giungono a “cogliere la ragione profonda” del bene che è la vita di coloro che hanno generato, un bene in ogni condizione e circostanza, per quanto faticosa, dolorosa, impegnativa dell’esistenza. In questi casi, la tutela del bene fondamentale della vita di un bambino non può essere riconosciuta eticamente e giuridicamente esclusivamente a loro, e questo comporta lo “strappo alla regola” (indesiderabile, ma purtroppo necessario) che prevede che la tutela e promozione della vita del bambino passi nelle mani di un altro soggetto, cui la l’autorità costituita ricorre secondo le leggi vigenti.
Questa “tutela vicaria”, così come quella “naturale” dei genitori, è per il bene del bambino (non per la prevaricazione su di esso), che l’intera società è chiamata riconoscere come il “bene comune” più importante, alla salvaguardia e promozione del quale sono chiamati i genitori, i medici, gli infermieri, il sistema sanitario, quello scolastico ed ogni altra istituzione preposta alla cura e all’educazione dei minori.
Purtroppo, come mostrano i casi ricordati, la cultura dominante nel Regno Unito (e non solo in questo Paese) e la politica che da essa nasce e in essa si riconosce, non coltiva più il primo e fondamentale “bene sociale” che è quello della vita di tutti, ma lo subordina ad altri beni derivati dalla vita, che senza di essa non sussisterebbero, tra i quali i primi sono quelli che sostengono il welfare, come l’economia e la finanza.
Ma laddove sfiorisce la “cultura della vita” e si fa strada la “cultura della morte” (come pretesa risoluzione delle difficoltà della vita individuale e sociale), anche il benessere viene meno e la conflittualità cresce.

La sussidiarietà come possibile soluzione dei nodi che restano da sciogliere

Nell’irriducibile tensione tra le libertà, i diritti e i doveri dei singoli e quelli della comunità umana (in tutte le sue articolazioni sociali) gioca un ruolo distensivo e potenzialmente risolutivo l’affermazione nell’etica e nel diritto (nazionale ed internazionale) del principio di sussidiarietà e la sua applicazione nella concretezza delle situazioni di micro- e macroconflittualità.
Non si sottrae a questa opportunità la circostanza della malattia congenita inguaribile e con ridotte aspettative di salute e di vita che può colpire i neonati e generare conflittualità tra diverse persone fisiche e giuridiche come nel caso di Indi e di altri bambini nati nel Regno Unito. Se quando non riesci a portare da solo il peso di una situazione che grava sulle tue spalle, si affianca qualcuno che, da buon cireneo, ti aiuta a portarlo, si fa carico di quello che ti sta schiacciando o per il quale non intravvedi una via di uscita dignitosa, allora è possibile riprendere il cammino, tornare a guardare la luce e a non pensare solo alle tenebre. Una simile possibilità non può restare solo l’iniziativa episodica dello slancio di amore, di amicizia o di collaborazione tra soggetti, enti o istituzioni.
Deve diventare una prassi di solidarietà sociale resa possibile (attraverso leggi, norme o contratti) dall’applicazione del principio di sussidiarietà, principio “laico”, anche se è uno dei cardini della Dottrina sociale della Chiesa.
Nessuno è obbligato, eticamente o giuridicamente, a fare ciò che non è in grado di compiere, tenuto conto delle sue energie fisiche, psicologiche e spirituali e delle risorse umane e materiali che ha a disposizione. Ad impossibilia nemo tenetur (nessuno è tenuto a fare cose per lui impossibili) recita una massima latina presente anche nel Digesto dell’imperatore Giustiniano.
E se si rifiuta di farle non può essere additato come colpevole o biasimato come malvagio. Vi sono situazioni fisiche, psicologiche, familiari, economiche o sociali nelle quali i genitori non se la sentono di continuare a tenere con loro, un figlio gravemente malato, inguaribile, fortemente disabile, che necessita continue attenzioni, energie, risorse che essi non hanno la forza di trovare in sé e per lui.
Si offra loro, come prima istanza, una rete di aiuto volontario fatta di altre persone, altre famiglie e professionisti (sull’esempio di tante associazioni di genitori di bambini affetti da malattie congenite o acquisite presenti in numerosi Paesi, in particolare negli Stati Uniti). L’amicizia tra questi genitori, a partire dalla condivisione di un bisogno comune, è sorprendente in sé e in ciò che è capace di generare. Se questo non è sufficiente, o se i genitori insistono nel chiedere la fine anticipata della vita del loro figlio malato di cui non riescono a prendersi cura, intervenga la tutela giuridica attraverso l’affidamento ad altri genitori o, temporaneamente, ad una comunità od istituzione appropriata, fino al termine naturale della sua breve esistenza terrena.
Nel caso in cui sia un centro clinico od una amministrazione sanitaria e non essere in grado di sostenere l’onere della cura di questi bambini a prognosi infausta, il sistema sanitario nazionale o gli istituti di ricovero e cura privati si rendano disponibili ad accoglierlo, attraverso programmi di collaborazione regionale o nazionale, offrendo ai genitori un’alternativa concreta e valida, cui non possono ragionevolmente opporsi.
Qualora, all’interno di un singolo Paese, simili risorse cliniche e sociosanitarie non fossero disponibili, oppure le politiche sanitarie del governo non ne autorizzano l’impiego, sia consentito, su richiesta dei genitori e previo accordo con le autorità di un altro Paese, il libero trasferimento (medicalmente assistito) dei piccoli pazienti in nosocomi disposti ad accoglierli e a prendersene cura nel decorso della loro malattia.
La solidarietà tra i popoli e le Nazioni fa parte integrante e preponderante della missione delle Nazioni Unite e dell’Organizzazione mondiale della sanità.
Nessuna giurisdizione nazionale o internazionale e nessun magistrato può legittimamente opporsi ad un’opportunità adeguata ed effettiva di cura offerta da un altro Paese senza oneri per il proprio, in nome di un preteso valore vincolante universale delle proprie decisioni o di quelle dei medici suoi connazionali.
Se così non accade, siamo di fronte ad un “accanimento tanatologico” che è altrettanto inaccettabile quanto lo è un “accanimento terapeutico”. La vita di un uomo non tollera accanimenti di nessun genere. Chiede solo di essere amata per come è, non per quello che noi sentiamo o vorremmo che fosse.
E solo l’amore apre alla speranza (anche oltre la morte), l’odio la uccide. «Solo lo stupore conosce» (è una frase attribuita a San Gregorio di Nissa) che, nonostante tutto, Indi era e resta (ora in cielo) una bambina come tutte le altre. Lo stupore per la sua breve vita rigenera quello per tutti i nostri figli e le nostre figlie. Rigenera la nostra stessa vita, nella sua origine e verso il suo destino eterno.


1 Genetista clinico, Membro della Pontificia Accademia per la Vita, già Professore Ordinario, Facoltà di Medicina e Chirurgia, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma.

2 Nel caso di Indi Gregory, la diagnosi molecolare di cui siamo a conoscenza è quella di aciduria combinata D,L-2-idrossiglutarica (D2L2AD), una rarissima malattia metabolica congenita a trasmissione autosomica recessiva (prevalenza: meno di un caso su un milione di nati) dovuta ad un difetto nella struttura della proteina che trasporta l’acido citrico (indicata con la sigla CPT) attraverso la membrana mitocondriale interna. È una molecola della classe dei co-trasportatori (chiamati anche “antiporta”) che permette lo scambio tra l’acido citrico a l’acido L-malico, entrambe coinvolti nel ciclo biochimico di Krebs, che è parte integrante del processo metabolico di produzione della energia chimica necessaria alle cellule del nostro corpo e avviene negli organelli cellulari chiamati “mitocondri”. La proteina CPT è costituita da una sequenza di 311 aminoacidi codificata dal gene SLC25A1, la cui sequenza ed organizzazione è stata descritta per la prima volta nel 1997 dagli studiosi italiani Vito Iacobazzi, Graziantonio Lauria e Ferdinando Palmieri dell’Università di Bari. Il difetto genomico, e probabilmente anche citogenetico, presente nelle cellule di Indi, e che soggiace a quello della proteina CPT, non è stato reso noto dal Queen’s Medical Centre e dovrebbe trattarsi (come descritto in letteratura scientifica) di una mutazione nel gene SLC25A1 (cambiamento di sequenza nel Dna) in forma isolata, oppure in combinazione con una delezione presente nel cromosoma 22q11.2 (suggerisce quest’ultima ipotesi la concomitante presenza di un difetto cardiaco, la tetralogia di Fallot).
È rilevante osservare che la D2L2AD non è una malattia mitocondriale (mitocondriopatia) in senso genomico (il gene causativo, SLC25A1, non è localizzato nel genoma dei mitocondri, bensì in quello del nucleo), ma solo in senso cellulare (la proteina difettosa fa parte della struttura dei mitocondri ed è coinvolta nel meccanismo molecolare di produzione dell’energia cellulare). Questa differenza, di non poco conto, ha creato confusione in alcuni tentativi giornalistici di informazione sulla patologia di cui soffriva Indi, che è stata erroneamente messa in relazione a quella di Charlie Gard – la sindrome da “deplezione del Dna mitocondriale” – di un altro bambino che è deceduto in Inghilterra nell’estate del 2017 per l’interruzione dei supporti vitali. Al contrario, Alfie Evans, morto l’anno successivo a Liverpool (UK) a causa di un’analoga decisione, era affetto anche lui da un difetto del Dna nucleare, non mitocondriale: la deficienza di GABA-transaminasi, un enzima il cui gene codificante (denominato ABAT) è localizzato sul cromosoma 16p13.2. Poiché il decorso e la prognosi di una malattia causata da un difetto molecolare congenito dipendono, tra l’altro, dall’età dell’esordio delle manifestazioni cliniche e dalla loro gravità, nonché dalla rapidità di una diagnosi dirimente, e le prime due sono, non di rado, correlabili al tipo di difetto genomico e proteico con il quale è nato il bambino, la esatta definizione del quadro clinico e molecolare è rilevante anche per una valutazione del percorso di accompagnamento curativo maggiormente appropriato.
I casi di D2L2AD nel mondo sinora noti alla comunità scientifica e clinica internazionale sono circa 40 ed è probabile che altri siano ancora non studiati o pubblicati. La malattia si presenta con sintomi muscolari e neurologici di entità variabile, la cui gravità è quasi sempre inversamente proporzionale all’età di esordio dei sintomi clinici. I neonati che manifestano lesioni importanti del sistema nervoso centrale già nei primi mesi quasi sempre non raggiungono l’anno di vita, mentre i bambini diagnosticati in età più avanzata hanno una prognosi quoad vitam più favorevole. Esistono anche forme lievi di D2L2AD (che rappresentano il 10-20% del totale dei casi) in presenza di alcune mutazioni identificate nel gene SLC25A1. Per esempio, nel 2021 sono stati descritti due bambini cinesi con mutazioni SLC25A1 giunti fino a 2 e a 9 anni di età al momento dello studio dei loro casi. Al presente, non è validata nessuna terapia farmacologica o di altro genere che possa essere risolutiva per i sintomi più gravi della D2L2AD, anche se alcuni trattamenti possono dare qualche giovamento.
La qualità e la continuità delle cure (non terapeutiche) fornite ai piccoli pazienti D2L2AD sembra essere importante per il decorso della malattia. Scrivono gli autori della più estesa review dei casi di D2L2AD sinora pubblicata: «Abbiamo anche notato una forte correlazione positiva tra la cura medica estensiva e l’aumento delle aspettative di vita [dei bambini], indipendentemente dal tipo di mutazione o di attività residua [della proteina CPT]. Questo può essere spiegato in parte da una modificazione della storia naturale della malattia attraverso la prevenzione degli episodi di apnea, del rischio di aspirazione [polmonite da aspirazione], e dell’arresto respiratorio attraverso un supporto ventilatorio ed il miglioramento dello stato metabolico per mezzo di una nutrizione ottimizzata mediante l’impiego del tubo g [nutrizione enterale]» (Ana Pop et alia, Journal of Inherited Metabolic Disease 2018, 41: 169-180, p. 177). Questo tipo di approccio curativo è quello che era in corso per Indi al Queen’s Medical Centre sino al momento della esecuzione della decisione del tribunale ed il suo trasferimento all’hospice per il distacco del supporto vitale. L’ appropriatezza clinica di queste cure interrotte è pratica medica basata sull’evidenza recensita in letteratura scientifica.
Da quanto apprendiamo dal testo della sentenza del giudice Peel (13 ottobre 2023, pp. 3-5), Indi presentava una forma di D2L2AD a esordio precoce in cui era presente un «danno cerebrale progressivo» con «grave ventricolomegalia bilaterale», cui si aggiungeva una «tetralogia di Fallot» (cardiopatia congenita complessa, il cui difetto principale è rappresentato da una deviazione antero-superiore del setto infundibolare; è la più comune cardiopatia congenita cianogena, nel 15% dei casi associata una delezione del cromosoma 22q11.2; la sua correzione chirurgica è un intervento consolidato della cardiochirurgia neonatale, solitamente entro il primo anno di vita). Il quadro clinico di Indi è apparso subito grave, con «frequenti episodi di profonda desaturazione e bradicardia». Le sono state applicate terapie con «uso di citrato e una dieta chetogenica», le quali «hanno portato ad una riduzione nella frequenza degli episodi di desaturazione». Tuttavia, i medici del Queen’s Medical Centre hanno dichiarato al giudice che «la prognosi complessiva rimane invariata». È stata estubata il 31 agosto e reintubata il 6 settembre «dopo un episodio di desaturazione» e, da allora, essa aveva inseriti «due tubi nasali, uno per la ventilazione e uno per la nutrizione». Non sono presenti «marcatori di infezioni», pur manifestando qualche episodio febbrile.