Erdogan: il mio nuovo secolo turco

Sogni di grandezza

Dopo la vittoria elettorale al ballottaggio il presidente della Turchia pensa a un ulteriore accentramento del potere nelle sue mani. E a un protagonismo su scala internazionale in aperto contrasto con il modello delle democrazie liberali. Un piano ambizioso che lo colloca sulla stessa frequenza d’onda di Vlad, il dittatore del Cremlino. Strategia espansionistiche mentre il Paese vive una drammatica e profonda crisi economica.


23 giugno 2023
di Claudio Fontana

In tutto il mondo, Europa inclusa, il modello della democrazia liberale sembra via via meno attraente, mentre forze antidemocratiche e illiberali viaggiano con il vento in poppa. Così, quando i sondaggi pre-elettorali in Turchia davano il candidato dell’opposizione Kemal Kılıçdaroğlu in vantaggio su Recep Tayyip Erdoğan, e addirittura a un passo dalla vittoria al primo turno delle presidenziali, diversi studiosi e analisti si interrogavano su quale significato avrebbe potuto avere una vittoria della coalizione Millet İttifakı (Alleanza della Nazione) non soltanto sulla Turchia ma anche sul più ampio contesto internazionale. In questo senso, scriveva per esempio Gönül Tol, autrice del libro Erdoğan’s War: A Strongman’s Struggle at Home and in Syria, le elezioni turche ponevano un interrogativo fondamentale del nostro tempo, perché mentre viene prestata molta attenzione alla crisi in cui versano tante democrazie, era importante vedere se una nazione che sta scivolando verso l’autoritarismo potesse invertire la rotta. A urne chiuse, la risposta è negativa, o almeno è negativa per quel che riguarda il caso turco. Contro le fotografie dei sondaggi, e pur costretto a un ballottaggio al quale si avvicinava da super favorito, Erdoğan si è dimostrato resiliente. Tornano in mente le parole scritte nel 1968 da Samuel P. Huntington nel suo libro Ordine politico e cambiamento sociale. Un libro certamente controverso e criticato, come spesso accade quando parliamo delle opere di questo autore (basti pensare al dibattito sorto intorno a Lo scontro delle civiltà), ma comunque ricco di spunti di riflessione: «In ogni fase storica – scriveva Huntington – accade che un tipo di sistema politico sembri ai contemporanei particolarmente rispondente alle esigenze del periodo». Calandoci nel dettaglio del caso turco, possiamo dire che il modello iper-presidenziale proposto da Erdoğan, dunque, è risultato più convincente della controproposta avanzata dalla coalizione, nota anche come “Tavolo dei Sei”. Una proposta caratterizzata, in estrema sintesi, dalla volontà di tornare all’ortodossia economica e al sistema parlamentare vigente in Turchia prima delle riforme costituzionali promosse dall’AKP.

L’alleato Stato

Per capire cosa ha reso più attraente la proposta di Erdoğan non possiamo limitarci a pensare che nel sistema turco le elezioni non siano free and fair, come avviene in molti autoritarismi che ricorrono a elezioni soltanto per ammantarsi di un (sottile) velo di legittimità. Al contrario, diversi osservatori internazionali, tra cui quelli dell’OSCE, hanno certificato che durante le elezioni di quest’anno non si sono verificati brogli elettorali in proporzioni significative. Il problema, però, è ciò che ha preceduto le elezioni, che sono state free ma assolutamente non fair. Nella sua campagna elettorale Erdoğan e la coalizione da lui guidata hanno potuto contare su tutto il potere dello Stato. I diversi ministri uscenti che si sono candidati per un seggio in Parlamento hanno utilizzato a proprio beneficio le strutture ministeriali di cui erano a capo. Inoltre, Erdoğan non ha badato a spese per imbonire gli elettori: ha alzato gli stipendi dei dipendenti pubblici, portato il salario minimo a oltre 400 dollari mensili, favorito il pensionamento anticipato. Non solo: ha sollevato i cittadini turchi dal pagamento di un mese di bollette del gas, il tutto mentre nelle aree colpite dal sisma si dispiegava la macchina del welfare parallelo gestita dall’AKP. Questo però non ha fatto altro che peggiorare la già complicata situazione economica del Paese. Le politiche assistenzialiste e clientelari hanno gonfiato la spesa pubblica in un contesto nel quale le casse dello Stato sono già in grosse difficoltà. La Turchia è infatti flagellata dall’inflazione (l’ultimo rilevamento la pone appena sotto al 50%, ma verso la fine del 2022 aveva raggiunto l’80%), causata in buona parte dalla scelta di Erdoğan di continuare ad abbassare i tassi di interesse nella convinzione che, così facendo, avrebbe finito per abbattere l’inflazione (strategia opposta, come sappiamo, di quella proposta dalle altre Banche Centrali, a cominciare dalla BCE e dalla FED). Il risultato di queste politiche economiche eterodosse, motivate da Erdoğan anche alla luce del divieto islamico di applicare tassi di interesse, ha pesato parecchio sui cittadini turchi, che hanno visto ridursi il proprio potere d’acquisto.

Grand bazaar in Istanbul

«Noi crediamo nel piano del destino»

Se a questa disastrosa situazione economica (caratterizzata anche da una pesante svalutazione della lira turca) aggiungiamo il sisma che ha colpito la Turchia e la Siria provocando oltre 50.000 morti e nel quale le responsabilità politiche, tra condoni edilizi, pratiche clientelari per aggirare le norme anti-sismiche e scelte politiche discutibili (una su tutte: l’AFAD, corrispondente grossomodo della nostra Protezione civile, ha visto il budget ridursi dai 2,85 miliardi di lire del 2021 a 2,3 miliardi nel 2023, mentre il Direttorato per gli Affari religiosi è passato nello stesso periodo da 12,9 miliardi a 35,9), gli elementi per ipotizzare l’uscita di scena di Erdoğan c’erano tutti. O almeno, così probabilmente avrebbero agito la maggior parte degli elettori occidentali. Il punto è che molte analisi comparse in questi mesi sui media occidentali, che non facevano troppo mistero della loro preferenza per Kılıçdaroğlu, non consideravano le caratteristiche della classe conservatrice e religiosa che forma lo zoccolo duro dei voti di Erdoğan soprattutto nelle zone centrali della penisola anatolica. Lo mostra il fatto che in alcune delle regioni più colpite dalla crisi economica, come nella provincia di Konya, Erdoğan ha ampiamente mantenuto la maggioranza. Lo stesso è avvenuto, ed è ancora più significativo, nelle zone devastate dal terremoto. In queste aree ha fatto breccia la narrazione proposta da Erdoğan: «Alcuni ci prenderanno in giro, ma noi crediamo nel piano del destino. E perché crediamo nel piano del destino, diciamo che incidenti di questo tipo sono accaduti nel passato e accadranno in futuro. Accadranno sempre, ecco quello che dovremmo capire». Sarebbe riduttivo considerare questa frase semplicemente come espressione del puro opportunismo politico. Così come è riduttivo derubricare a poco più che folklore scelte come l’altezza dei minareti della moschea Çamlıca, fissata a 107,1 metri in memoria della battaglia di Manzicerta, quando nel 1071 il sultano selgiuchide Alp Arslan sconfisse e catturò l’imperatore bizantino. Al contrario esse mostrano, al pari delle dichiarazioni antioccidentali o della battaglia contro la propaganda LGBT, il particolare tipo di islamismo su cui Erdoğan si è basato.  L’ha descritto bene il brillante ricercatore Selim Koru: «In passato l’islamismo era il tentativo di ricavare un sistema politico dall’ortodossia religiosa. Adesso è invece un ammasso di simboli mistici, spesso mescolati con altre tematiche nazionaliste o associati agli eventi di tipo carismatico […] Al cuore dell’islamismo vi è la promessa dell’eccezionalismo e della rilevanza geopolitica». Erdoğan è riuscito a creare un mix efficace di islamismo e nazionalismo che gli ha permesso di rimanere in sella.

La presenza militare della Turchia

Le somiglianze con Putin

Ma cosa aspettarsi ora dal presidente turco? Da un lato, Erdoğan potrebbe procedere verso il suo obiettivo finale, il superamento della forma di Stato repubblicana fondata da Atatürk. Dall’altro, alcune scelte nella composizione del nuovo governo danno la sensazione «di un abbandono dei toni esasperati e delle politiche non convenzionali da parte di Erdoğan, con un possibile ritorno al riformismo dei primi anni 2000, senza tuttavia rinunciare a sogni di grandezza», evidenziati dall’annuncio di Erdoğan dell’avvio di un nuovo “secolo turco”. Vedremo se i sogni di grandezza e le spinte nazionaliste di Erdoğan prenderanno il sopravvento su ogni altra considerazione. Ciò che sembra certo è comunque l’avvio di una nuova fase fatta di un personalismo ancora più marcato, caratterizzato dallo svuotamento di potere e di significato delle istituzioni repubblicane. In questo, Erdoğan sembra assomigliare sempre più a Vladimir Putin.