Franz Kafka: luce fioca che è luce

Il centenario della morte di Franz Kafka diventa occasione per accostare, sempre come novità, l’opera dello straordinario e sfuggente scrittore nato a Praga nel 1883.  Una letteratura che sconcerta, la sua; ricca d’inventiva, rinvigorente, anticonformista. Una letteratura dell’umano che parla da sola. Da incontrare per evitare lo sprofondo delle mille interpretazioni.


22 marzo 2024
Dono profondo e originale
di Mimmo Stolfi

Praga

Le visioni da incubo che hanno reso il nome di Kafka sinonimo dell’alienazione e dell’angoscia del mondo moderno sono arrivate a eclissare altri aspetti della sua opera, compreso l’umorismo.

La sua nervatura comica

Percepiamo a ragione l’orrore tragico della visione di Kafka. La sua chiaroveggenza rispetto alla disumanità, all’elemento a volte assurdo della nostra condizione, è unica. La “tristitia”, “la tristezza fino alla morte” negli scritti, nelle lettere, nei diari è senza fondo. Ma vi è anche in lui un satirista della società, un artigiano del grottesco, un umorista con il gusto della farsa e della pagliacciata. L’umorismo freddo e le acrobazie di Buster Keaton non sono così distanti. Mentre leggeva il più nero di tutti i miti moderni, “La metamorfosi”, a una cerchia di amici sconvolti, Kafka si sbellicava dalle risate. Impoveriamo la ricchezza concettuale e formale del “Processo”, non comprendiamo la sua duplicità ossessionante se ne ignoriamo la nervatura comica. K. è spesso buffo nelle sue pose rigide, con il suo colletto inamidato da conformista. Le bugie e la presunzione del pittore Titorelli sono macabre ma anche ridicole. I vari messaggeri e accoliti del Tribunale sembrano usciti da un quadro di Magritte, a un tempo minacciosi e di un umorismo surreale. Senza di loro non avremmo i clown di Beckett. Persino il galoppo allucinatorio verso il luogo di esecuzione che conclude “Il Processo” sa di circo.
Perché, come molti altri, trovo la voce di Kafka così rinvigorente, quando esprime incessantemente agonia e disperazione? Deve avere a che fare anche la ricchezza l’inventiva che è riuscito a esprimere, come ha scritto nei Diari, “raffigurando la mia vita interiore”. Lungi dal sembrare un disco rotto e lamentoso, reinventa continuamente la sua condizione, ora in una storia di animali, ora in una raccolta di aforismi enigmatici, ora in una lettera affascinante. Il genio di Kafka non si presenta mai come qualcosa di completamente formato, imbalsamato e adatto a un museo, ma come quella propensione all’auto-esame spietato e alla sperimentazione letteraria aperta che ha animato tutta la sua opera. E spesso, in fondo a un abisso, ci fa intravedere una luce, fioca, ma pur sempre una luce.

A Palazzo Kinsky, ospitava il Ginnasio statale di lingua tedesca che Kafka frequentò dal 1893 al 1901. La scuola chiuse nel 1924.

Il ruolo di Max Brod

Scrittore e critico prolifico, Max Brod era stato l’amico più intimo di Kafka e un sostenitore della sua scrittura fin dai tempi dell’università. Dopo la morte prematura di Kafka per le complicazioni di una tubercolosi nel 1924, Brod sfidò le istruzioni testamentarie di bruciare tutte le sue carte, intraprendendo invece un’impresa decennale di pubblicazione dell’opera postuma dell’amico. È a Brod che dobbiamo la sopravvivenza di alcuni dei contributi più innovativi, visionari e influenti alla letteratura moderna – in particolare, i tre romanzi incompiuti di Kafka, “Il Processo”, “Il Castello” e “America” (come Brod lo intitolò), i suoi diari e le sue lettere.
Tuttavia, Brod si prese anche notevoli libertà nel rimodellare la massa disordinata di materiale che Kafka si era lasciato alle spalle in edizioni strutturalmente coerenti e facilmente leggibili. I suoi pesanti interventi editoriali riflettevano un’immagine di Kafka a cui era affezionato, impressa per i posteri in una biografia scritta da lui stesso: il mito di Kafka come uomo puro e santo martire della letteratura.
Laddove Brod si sforzò di ripulire Kafka e di promuovere la sensazione che fosse, nelle parole di Benjamin, un “genio santo e profetico, la cui purezza lo colloca a un livello elevato rispetto al mondo“, nuove edizioni dei suoi diari, filologicamente più corrette e prive di censure, lo riportano sulla terra, senza ferire il senso della sua sofferenza e dei suoi doni profondi e originali.

Franz Kafka

Quella sillaba umile: “ma”

Quanto più tenacemente si ricerca la certezza nelle pagine di Kafka, tanto più insistentemente si raccolgono dubbio e frustrazione. È un ciclo che si autoalimenta ed è potenzialmente interminabile. Leggendolo e rileggendolo ci si rende conto che solo mettendo da parte le proprie richieste di chiarezza e coerenza si possa rendere giustizia a ciò che c’è di strano, sconcertante e persino fastidioso negli scritti di Kafka, a ciò che mette in crisi qualsiasi interpretazione ristretta o teoria riduttiva che altrimenti saremmo tentati di imporre. L’irresistibile fascino di Kafka viene preservato – anzi, a mio avviso, è accresciuto – lasciando, per quanto possibile, che la sua scrittura parli da sola, senza farla seppellire sotto l’enorme massa di interpretazioni che ha prodotto.
Kafka fa un uso quasi ossessivo della congiunzione avversativa “ma” (“aber”, in tedesco). Uno storico della letteratura, Herman Uyttersprot, ha dimostrato che la utilizza tre-quattro volte più spesso di altri autori coevi di lingua tedesca.
Come interpretare questa peculiarità? La complessità dell’anima di Kafka non gli permetteva di vedere e sentire semplicemente una linea retta. Non dubitava o esitava per cautela o codardia, ma piuttosto per chiarezza di visione. Quelli che vedono meno, quelli che sentono meno sono proprio coloro che non usano mai o quasi mai quella paroletta lì, quella sillaba umile: “ma”.

Cafè Arco, aperto nel 1907 si riunivano lo scrittore austriaco Franz Werfel e anche Kafka, assieme a Max Brod e i fondatori del Circolo di Praga, Oskar Baum e Felix Weltsch. Qui Kafka conobbe la scrittrice e giornalista ceca Milena Jesenská

Il desiderio potenziale dell’amore

Sto rileggendo in questi giorni le “Lettere” di Kafka. Ne scrisse tantissime: a Max Brod e agli altri amici, ma soprattutto alle donne, a Felice, a Milena, alla sorella Ottla.
In forma diversa, sono tutte lettere d’amore e quindi di delicatissima tenerezza ma anche di angoscia e di ripulsa. L’amore è una forza di cui Kafka ha bisogno ma dalla quale teme di venire risucchiato e imprigionato.
Cerca allora di amare da lontano, di rimandare la vicinanza fisica e di catturare nella chiarezza della pagina quel groviglio vitale di cui sente paura e nostalgia. Tramite le lettere, Kafka tese intorno alle donne della sua vita una rete inesorabile, con lo struggimento dell’amante che non rinuncia ad alcun dettaglio concernente l’oggetto amato ma anche con la gelosia del tiranno che isterilisce la vita: le lettere, strada facendo, divorano i baci che dovrebbero portare a destinazione, dice egli stesso a Milena. Per Kafka, scrivere d’amore è un rito di drammatica impotenza, vuol dire tenere a distanza l’amore, per non venirne travolti nella propria fragilità.
Eppure, Kafka mantiene sempre vivo il desiderio potenziale dell’amore, affinché la realtà non lo estingua mai.