Il Nobel Jon Fosse dà voce all’indicibile: come poeti, artisti e Apostoli…

Alla scoperta di un autore che nelle sue opere ha creato un contatto, un intreccio, un gioco di sguardi fra arte e fede. Riuscendo così nella missione estetica, dunque carnale, di dare voce a quel che non è dicibile. Al non comunicabile. Impresa che appartiene solo ai grandissimi, a una manciata di poeti, pittori, musicisti. E agli apostoli. D’altronde, per questo artista norvegese della parola, scrivere è come pregare. Una vera offerta di bellezza, per lui che si è convertito al cattolicesimo nel 2012, a ciò che rende necessità comunicabile l’indicibile.

      


15 dicembre 2023
Riconciliazione e pace
di Eugenio Giannetta

Jon Fosse – Nobel per la Letteratura 2023 – Norvegia

Jon Fosse è nato nel 1959 a Haugesund, cittadina sulla costa occidentale. È cresciuto a Strandebarm, zona della Norvegia in cui la presenza religiosa è perlopiù protestante.
Nei suoi libri ha affrontato tanti temi, tra cui il doppio e il mistero della fede, senza soluzione di continuità negli intrecci tra i due. Ha detto di sentirsi influenzato da Heidegger e Wittgenstein, è stato accostato a Beckett e Ibsen (dopo di lui è tra i norvegesi più rappresentati a teatro, ndr).
Ma soprattutto, Fosse, ha vinto il Nobel per la Letteratura 2023 (diventando il quarto norvegese a vincere il premio, ndr) per la sua capacità di dare «voce all’indicibile».

Accostato a Mark Rothko

Un compito arduo, quello di dare voce a ciò che è incomunicabile, che hanno solo certi poeti, alcuni pittori, qualche manciata di musicisti e i Vangeli. Un compito che hanno l’arte e la fede.
È curioso, perché arte e fede potrebbero apparire come due linee su binari paralleli, eppure, quasi come in un gioco di prospettiva dello sguardo, arriva un punto – forse un momento – nell’orizzonte, in cui sembrano toccarsi, fino a sovrapporsi e intrecciarsi: «E mi vedo – scrive Fosse nell’incipit de L’altro nome, Settologia I-II, La nave di Teseo, tradotto da Margherita Podestà Heir – mentre osservo il dipinto con le due linee, una viola e una marrone, che si intersecano al centro, un quadro oblungo, e noto di averle dipinte lentamente con uno spesso strato di pittura a olio», che è come se fosse amalgamato, stratificato, sedimentato, addensato.
In una recente intervista Fosse ha accolto con piacere l’accostamento con Mark Rothko, che nel 1945 scriveva: «Accetto la realtà delle cose e la loro sostanza. Mi limito ad ampliare l’estensione di questa realtà. Insisto sulla pari esistenza del mondo generato dalla mente e del mondo procreato da Dio al di fuori di questa». E qui potremmo estrapolare il primo accostamento tra le due opere, anzitutto per quello che è stato l’avvicinamento di Fosse al cattolicesimo nel 2012, con una conversione che ha inevitabilmente influito sul suo lavoro: «Sento che nella mia scrittura – ha detto in un’intervista al New Yorker – c’è una sorta di riconciliazione. O, per usare una parola cattolica o cristiana, di pace».

I silenzi che parlano

Il secondo accostamento riguarda proprio la scrittura ed in particolare l’aspetto tecnico della scrittura, il gesto, con quelle ripetizioni che sono in verità finte ripetizioni, e poi con le distrazioni colte, i ricordi fulminanti, i pensieri illuminanti, le memorie disordinate, gli abbozzi di dialoghi riempiti dai vuoti, gli intrecci – proprio come per i due colori – tra prima e terza persona.
Il critico d’arte Hubert Crehan nel 1954 descrisse i quadri di Rothko definendoli “quasi” come una «rianimazione dell’antica immagine di una visione», un po’ come accade per un’immagine biblica cui i cieli si aprano e rivelino una luce che diventa essa stessa «il contenuto della visione». Ed ecco il punto di contatto, laddove per esempio, negli scritti teatrali di Fosse sono i silenzi a parlare, e ogni vuoto racconta un pieno, ogni parola ha un suo peso specifico, ogni dialogo uno spazio entro il quale costruire il suo abisso.

Dio, molto lontano e del tutto vicino

Altro punto di contatto nell’opera dei due è l’influenza della storia di vita, seppur con le dovute differenze. Prima della conversione, Fosse è stato un alcolista. Nei suoi libri è emerso spesso il tema di Dio e della fede, come in “Mattino e sera”, per esempio, dove scrive che lo spirito di Dio esiste in tutto: «Dio esiste –dice nel testo forse più accessibile per accostarsi alla sua opera–, ma è molto lontano e del tutto vicino, perché è presente in ogni singolo essere umano».
È in noi, va solo trovato, come in una missione, parola la cui etimologia deriva dal latino missionem, accusativo di missio, che a sua volta viene da missus, participio passato del verbo mittere, col significato di mandare. «Una poesia – diceva Valery – non è mai finita, è solo abbandonata».
Il mandato allora è quello di cercare, con un moto avanti e con la consapevolezza di poter guardare al passato come a uno spartiacque, un momento di definizione: «Mi si chiede – scrive Rothko nel 1954 – come mi sono incamminato nella direzione che sto ora percorrendo».
Una domanda, spiega il pittore, che in qualche modo alimenta la speranza di un senso, di qualcosa che è risolto e in costante, ininterrotta, evoluzione, mentre purtroppo «quando si guarda a questo passato –prosegue Rothko–, quanta confusione, quanti vicoli oscuri e quante deviazioni».
Vacillare è bene – inciampare per approfittare dell’inciampo, fermarsi, osservare, come accade nella ‘prosa lenta’ di “Settologia” (sia ne L’altro nome I-II che in Io è un altro III-V, in libreria da ottobre scorso, sempre per La nave di Teseo) – è ancora meglio.

Mark Rothko Mark Rothko, N. 14, 1960 Olio su tela 290.83 ├ù 268.29 cm, San Francisco Museum of Modern Art – Helen Crocker Russell Fund purchase ┬® 1998 Kate Rothko Prizel & Christopher Rothko Ad

Questioni di vita e di morte

Ed ecco l’ultimo punto di contatto tra Fosse e Rothko, descritto da quella che è un’altra grande artista, ovvero Marina Abramović: «Quando vedi un quadro di Rothko – scrive, e si potrebbe traslare in ‘leggi un libro di Fosse’ – puoi anche non sapere di quali colori (che qui sostituiremo con ‘parole’, ndr) è fatto, ma appena ci stai davanti, agisce in un modo che non puoi definire razionalmente».
Si tratta di energia, e ci si finisce dentro a quella energia, come in un pozzo il cui fondo non si può udire. E questo capita, per esempio, in ogni scritto di Fosse, in ogni sua opera, che come scrive il sito del Nobel «abbraccia una varietà di generi ed è costituita da una ricchezza di teatro, romanzi, raccolte di poesie, saggi, libri per bambini e traduzioni». Di Fosse, un membro dell’Accademia svedese, tal Anders Olsson, ha detto infatti che è capace di toccare «i sentimenti più profondi, le ansie, le insicurezze, le questioni di vita e di morte».
Perciò siamo di fronte a uno scrittore che guarda alla religione come a un modo di concepire l’arte e all’arte come a un modo di concepire la fede, e racconta un vissuto di accadimenti visti dalla prospettiva del presente, ma spesso maturati nel passato. Siamo di fronte a uno scrittore che a dispetto di una narrazione che l’ha visto a lungo con la fama del solitario, si è letto invece recentemente di lui che accetta con piacere le tante richieste di interviste per il Nobel, con una sola volontà: essere raggiunto in nave. Ed è ancora lo spazio qui a farla da padrone, a dare un senso alle cose, al tempo, al valore e alla dignità: «La vita che sembrava vasta, è più breve del tuo fazzoletto», scriveva Montale nei “Mottetti”, nel 1939. Come trovare parole migliori per descrivere vastità e brevità, spazio e tempo?

Mark Rothko, Light Cloud, Dark Cloud (1957; Fort Worth, Modern Art Museum Fort Worth) ┬® 1998 Kate Rothko Prizel & Christopher Rothko – Adagp, Paris, 2023

Non usa il punto in “Settologia”

Fosse sta racchiuso ed esplode insieme in quello spazio, in quella brevità, che porta talvolta a una sorta di flusso di coscienza, dove descrive un mondo fatto di interiorità e scrive senza preoccuparsi d’altro che non sia la scrittura, ovvero ciò che di più sensato può fare uno scrittore.
D’altra parte, Fosse ha detto in passato che per lui scrivere è come pregare; non a caso, forse, la preghiera può a sua volta aiutare ad allontanare le preoccupazioni, come quella di decidere di non usare il punto in “Settologia”, per esempio, come spesso sceglie di fare anche lo scrittore portoghese António Lobo Antunes, che una volta ha detto: «Ogni libro che scrivo continua a essere un mistero. Non faccio un programma, si costruisce da solo nonostante me, come fossi un intermediario tra la voce che detta e ciò che sto scrivendo».
Come in una pennellata del pittore Asle, personaggio di Fosse. E come due occhi di lettore che, seguendo quella pennellata, si perdono nella sua intensità.