Incontro con l’arte di Mueck: quando il corpo “sente” di essere fatto

L’impatto con i personaggi dell’artista australiano è un’esperienza realistica. Sono opere che respirano. In quei corpi c’è tutto, c’è la vita. La sua carica è nel segno della trasgressione. Che poi sa cedere il passo alla commozione. Specie quando ci sono i bambini. I suoi corpi sono metafora della condizione umana universale, quella che sperimenta il proprio limite e continua a tendere all’assoluto. In mostra a Milano, alla Triennale, fino al 10 marzo

      


26 gennaio 2024
Scultura contemporanea
di Marina Mojana

Ron Mueck , Wild-Man

I suoi personaggi sono così realistici che sembrano respirare.

Vene, rughe, pori, peli del corpo, ciglia, ciocche di capelli, imperfezioni, atteggiamenti quotidiani, sguardi che fissano, oltrepassano o scrutano in tralice, nessun dettaglio viene trascurato. Il risultato è così perfetto che la somiglianza delle sue opere tridimensionali con la “vita reale” può essere inquietante.

Ron Mueck, Museo Ca’ Pesaro, Venezia

Opere surrealiste

A metà degli anni Novanta Ron Mueck, classe 1958, ridefiniva il realismo come estetica, rinnovando il linguaggio della scultura contemporanea grazie a un espediente geniale: più grandi o più piccole del vero, le sue opere non competono mai con le statue di un museo delle cere.
Per questo scarto dimensionale rispetto al reale, sono opere surrealiste, piuttosto che iperrealiste.
La prima volta che vidi un suo corpo in posa fu alla Biennale di Venezia del 2001, si chiamava Untitled (Boy), era un ragazzino accovacciato, indossava soltanto un paio di pantaloncini verdi, alto cinque metri, spaesato e spiazzante, sembrava giunto da un altro pianeta.
Pensai al significato del corpo umano e a un futuro prossimo venturo in cui si sarebbe chiesto all’arte di progettare involucri sempre più realistici con cui rivestire robot e macchine umanoidi. In fondo il film Blade Runner di Ridley Scott, uscito nel 1982, aveva già lanciato la sfida.
Poi rividi i corpi di Ron Mueck nel 2005, alla Fondation Cartier pour l’art contemporain di Parigi, in occasione della sua prima personale europea. C’erano cinque nuove opere, alcune monumentali, altre lillipuziane: In Bed una donna si svegliava sotto un piumino bianco fissando il visitatore con sguardo indecifrabile, familiare e anonimo al tempo stesso; Wild Man era un gigante nudo, teso e impaurito; Spooning couple riproduceva un uomo e una donna distesi a letto insieme, in posizione fetale (a cucchiaio), con indosso soltanto una maglietta; erano piccoli adulti e suggerivano un’intimità dell’altro mondo che il nostro sguardo stava violando. Two Women erano due vecchiette, formato hobbit; si facevano compagnia guardando lontano, con i loro mocassini ortopedici, le calze elastiche e il cappottino sgualcito erano così autentiche da evocare in me ricordi personali.

Triennale di Milano, opera esposta di Ron Mueck

Tra mondo reale e mondi possibili

Dopo anni di lavoro esclusivamente con la fibra di vetro, Mueck iniziò a utilizzare anche il silicone, una sostanza più flessibile che gli permise di impiantare direttamente uno per uno i peli della testa e del corpo, di acconciare i capelli con forbicine da parrucchiere, di modellare abiti e stoffe come fosse un sarto e poi di mettere in posa i suoi personaggi, cercando il profilo migliore, come fanno i fotografi di scena.
Creando sculture isolate e solitarie, l’artista invitava a riflettere sulla solitudine, sul divario tra come percepiamo noi stessi e come appariamo agli altri.
Sono passati quasi vent’anni e ho ritrovato i suoi corpi alla Triennale di Milano, nella prima personale italiana dell’artista australiano, aperta fino al 10 marzo. Mueck è riuscito a coniare un linguaggio in cui il realismo artistico introduce nel mondo dell’inconscio.
Accessori come un capo di abbigliamento o una fascina di rami secchi suggeriscono una trama, riaccendono la memoria, ridefiniscono lo spazio e creano un ambiente amplificato, che consente a ogni spettatore di elaborare la propria personale narrativa. Che siano monumentali o più piccole della vita, le sculture di Ron Mueck creano una tensione palpabile tra mondo reale e mondi possibili.
Nell’arco di vent’anni, tuttavia, qualcosa è cambiato. Il nuovo corso del lavoro di Mueck non è più una riproduzione lenticolare, quasi morbosa, di corpi osservati con ossessiva attenzione, isolati, curati, accarezzati, amati nei dettagli fino alla perfezione; ora sono gruppi di figure umane (This Little Piggy) o di animali (En garde) in reciproca relazione di morte.
Continua il gioco del fuori misura – dal branco di tre cani nerissimi alti tre metri, al bozzetto con cinque piccoli uomini che stanno uccidendo un maiale – ma il processo plastico si semplifica e le forme appaiono più sintetiche per esaltare l’azione in una complessità di ritmi che cambiano al cambiare della posizione dello spettatore.

A girl, Ron Mueck

La prima volta delle misure reali

Nel mezzo della mostra milanese c’è Mass, potente installazione di 100 teschi umani, giganti, bianchi e algidi, realizzati nel 2017, un ammasso ciclopico di alveoli dentali vuoti, di suture sul cranio, di orbite cave.
Il percorso termina con Baby (opera del 2000), raffigura un neonato di 26 centimetri. Per la prima volta le misure sono reali e il corpicino in posa è quello illustrato in un testo di ostetricia che mostrava il maschietto sollevato per i piedi subito dopo la nascita.
Mueck lo ha capovolto e lo ha appeso nel mezzo dell’ultima parete bianca, come un piccolissimo crocifisso indifeso. Perché soltanto davanti a un bambino appena nato la carica trasgressiva di Mueck cede il posto alla commozione? Che cosa è per l’artista il corpo umano?
La storia del corpo nell’arte del XX secolo inizia con un grido di dolore (L’urlo di Edward Munch del 1893), intercettato dai più grandi autori che colsero lo spirito del Novecento come il secolo della lotta dell’umanità contro Dio, contro la natura e contro il proprio corpo. Deformato, maciullato, disintegrato, il corpo, disunito in sé, è il protagonista di molti capolavori cubisti, espressionisti, astratti e informali, fino alle opere della Body Art e dell’Arte Povera.
Tuttavia negli stessi anni ci furono altri artisti – affascinati dalle ideologie totalitarie degli anni Venti e Trenta e poi da quelle del consumismo, dell’edonismo e delle bio-tecnologie affermatesi tra il 1980 e il 2000 – che cercarono di ridare un contenuto – e dunque una forma – al corpo umano. Descrissero un corpo artificiale, strumentalizzato, reso monumentale e meccanico, palestra di ingegneria genetica e di chirurgia plastica, in cui si resuscita il Golem, l’automa che si prende la scena come nei manichini di Giorgio de Chirico, oppure che deprava l’umano come nelle sculture di Patricia Piccinini. Sono corpi senza anima.

Mueck prepara l’opera esposta in Triennale a Milano

Frammenti di qualcosa che è stato completezza

Il corpo, però, non è soltanto polvere di stelle; fondamentalmente è qualcuno, è la manifestazione, il linguaggio, di una persona. È il respiro che porta il pensiero; è il passo che struttura il tempo e lo spazio. È la nostra presenza sulla terra non decisa da noi, compreso il dato della necessità, dal sonno al cibo.
Eppure il corpo è anche il mezzo con cui si arriva agli altri; il corpo si ha per qualcuno/qualcosa, per la vita, per il lavoro, per costruire, per comunicare. Il corpo è me stesso davanti al mondo e mi rende cosciente di qualcosa che non è corpo in me: si può chiamarla mente, coscienza, oppure, approfondendo, Spirito santo. Il segno di un’immortalità per la quale il corpo “sente” di essere fatto.
Questa consapevolezza è presente nel lavoro di Ron Mueck; i suoi corpi sono il frammento di qualcosa che un tempo era completo, sono metafora della condizione umana universale, sperimentare il proprio limite e continuare a tendere all’assoluto.