La famiglia, la coscienza e il potere

30 aprile 2018- Maurizio Vitali

LaPresse

Famiglia inascoltata; famiglia che vien buona; famiglia come welfare no-cost. Famiglia custode della vita come dono. Senza famiglia la società crolla. Ma lei lo sa?

Famiglia inascoltata. Estromessa dalle decisioni irreversibili sulla vita e la morte di un figlio. Come è accaduto adesso, a Liverpool, ai poveri giovani genitori di Alfie, da parte del potere clinico-giudiziario. Come accaduto ai genitori di Charlie Gard, l’anno scorso.

Famiglia coccolata: quando è scritta tra virgolette, essendo composta da due padri o due madri con prole. Vedi le premurose e ostentate iscrizioni sui registri volute dalle sindache di Roma e di Torino.

Famiglia che vien buona: quando le istituzioni non sanno dove sbattere altrimenti la testa e a che santo votarsi. Per esempio dovendo dare bimbi in affido da qualche parte. Come a Torino, dove piccoli islamici in affido sono rientrati nella famiglia d’origine allenati al segno della croce (provate a immaginare l’inverso, e girerebbero anche a voi).

Famiglia utilizzata di default come welfare neanche low, ma no-cost. Come in tutta Italia, tutti i giorni dell’intero anno, dove padri lavoratori mantengono figli disoccupati e nonni in pensione sono baby sitter, asilo nido, mensa e parco giochi dei nipotini.

In Italia le due principali emergenze riguardano direttamente i bambini e i giovani, e sono quella educativa e quella del lavoro. Nell’una e nell’altra è impossibile non prestare massimo ascolto e coinvolgere in una ruolo primario anche la realtà familiare.
Così come va fatto, ovviamente, quando si tratta della vita e della morte di un bimbo.
La strada da percorrere è quella del dialogo e delle alleanze: educative, per il lavoro, anche per la salute e la cura della vita (che in Italia per fortuna trova al momento un ordinamento molto meno avverso e tetragono di quello inglese).
Si tratta innanzitutto di una conversione culturale in cui aiutarsi: passare dal vizio della conflittualità tra gli attori in gioco alla virtù della cooperazione per il bene comune (come è più bella la parola “bene” rispetto a “interest”). Tra insegnanti e genitori, tra medici e pazienti e loro famiglie, tra istituzioni e corpi sociali.
Dalla parte del potere, occorre che esso contenga le proprie inevitabili tentazioni onnipervasive, per non dire totalitarie, riscoprendo una logica sussidiaria.
Da parte della gente, della famiglia in particolare, occorre che questa prenda coscienza di essere generativa di un dono, non di un prodotto. Una vita come dono è relazione col mistero, cuore teso al compimento, vocazione — vorrei dire diritto — all’infinito, valore e utilità costituita dall’essere voluto. Vale, ed ha utilità, perché c’è. Una vita come prodotto è relazione con lo standard economicistico e/o edonistico predeterminato e ultimamente definito dal potere. Al di sotto di tale standard la vita è scarto. Per malattia incurabile, o per scarso rendimento scolastico, o per disoccupazione.
L’appartenenza alla famiglia (non quella ideale: quella che c’è) è la prima fondamentale custodia del cuore assetato di infinito. E’ la prima custodia del senso religioso, cioè della persona. Il senso religioso, non il potere, riconosce il best interest.
In secondo luogo la famiglia è il primo insostituibile ambito dove avviene l’offerta di una tradizione, magari inconsapevole e malconcia, e trasmessa per semplice osmosi: senza questo c’è solo disorientamento che impedisce un percorso educativo. Immagino più disorientati di prima i bimbi islamici “affidati” di Torino. Non per colpa delle famiglie buone e generose, ma a causa verosimilmente di decisioni pianificate da ruoli istituzionali che si impongono senza ascoltare. Il caso è piccolo e circoscritto, ma vale a mettere in luce un fatto generale: una società libera e a misura d’uomo deve riconoscere una coscienza umana irriducibile alle istituzioni, custodita nelle persone, nelle famiglie, nelle libere aggregazioni dal basso. O si favorisce il dialogo multipolare e la costruzione di alleanze in vista del bene (lasciamo stare ‘sto best interest, che sa di tasso di interesse), o non ci sarà argine a ciò che minaccia l’irriducibilità della coscienza: il meccanismo che il grande intellettuale e scrittore ceco Vaclav Belohradsky, in un’intervista rilasciata nel 1986 a L’altra Europa descriveva così: “Gli Stati si programmano i cittadini, le industrie i consumatori, le case editrici i lettori, ecc. Tutta la società, un po’ alla volta, diviene qualcosa che lo Stato si produce”. Dio ce ne scampi e liberi.