L’io in azione
La guerra e il pigiama

Un racconto di vita ordinaria in una scuola al tempo dei lutti e delle macerie. In Europa. Finzione, ma non troppo. Quando il fashion determina fino a un certo punto. Poi, tra dialoghi un po’ così, stanchezza, incomprensione, impotenza, succede qualcosa. Ed è un qualcosa che mette in moto. Che fa di una classe una comunità.


25 marzo 2022
di Paolo Simone Covassi

Se esistesse il girone dei lamentosi avrebbe la forma di un’aula docenti.

Soprattutto per questo ci entro il meno possibile, giusto per prendere il registro e salutare quei due, tre colleghi che meritano.

Oggi a tenere banco è la vicepreside, una persona di solito estremamente pacata e cordiale:

“Ma si può? Decidono di venire a scuola in pigiama perché a Milano c’è la fashion week… ma si può??” E forse sarebbe finita lì se non fosse intervenuta una giovane collega di cui mi sfugge il nome: “La fashion week è stata settimana scorsa”

“Ma fosse quello il problema! Con quello che accade nel mondo questi pensano a venire a scuola in pigiama! Mi sembra che siamo alla follia! Ma lo sanno che c’è una guerra?”

Il mio sguardo incrocia quello del collega di matematica (uno dei due o tre di cui sopra) e dopo aver condiviso mentalmente un “ma che cosa c’entra?” recuperiamo i registri delle nostre classi e usciamo.

Nei corridoi di pigiami non se ne vedono, anche se forse il livello di eleganza di certi ragazzi aumenterebbe, ma meglio così. Quando entro in quarta ci sono circa una decina di alunni: “gli altri? Avete qualche verifica?”

“No prof, oggi no. E’ in ritardo il pullman” “Mi ha scritto Enzo che sta arrivando”

E in quel momento Enzo entra in classe. In pigiama. Ma non un pigiama qualunque… una tutina in pezzo unico con cerniera anteriore, blu, con stampati vari orsetti bianchi in diverse posizioni, che se non fosse indossata a scuola da un metro e ottantacinque di futuro geometra forse sarebbe anche simpatica. Il mio sguardo tra lo sconsolato e il depresso non sfugge ai compagni, che per altro lo apostrofano in maniera molto poco carina visto che è l’unico (per fortuna) che ha aderito all’iniziativa. Mentre cerco di sedare gli energumeni convincendoli a sedersi sui loro banchi a rotelle e a indossare correttamente la mascherina entra Diego. Sarebbe più corretto dire che precipita in classe urlando “Oh la Cioppi (la vicepreside) sta girando per le classi a controllare chi è in pigiama!” col risultato che i pochi che si erano seduti ricominciano ad alzarsi e a parlare tutti insieme.

“Enzo, ti prego, dimmi che hai dei vestiti sotto e che ti puoi togliere quella roba di dosso…” non sono molto convinto mentre glielo dico, ma per quieto vivere e per sopravvivenza spero che sia così; non posso passare la prima ora del lunedì a spiegare il nesso tra il pigiama di Enzo e la guerra in Ucraina.

“Ma perché prof… è la fashion week… è solo una cosa così…”

“Scusa collega, puoi uscire un momento? E anche tu” Ecco, troppo tardi. La Cioppi è sulla porta e io e il pigiamato usciamo in corridoio. Lei gli fa uno shampoo (termine nobile per cazziatone) che metà basta e mentre parla a lui guarda me… tento una debole difesa, del tipo gliel’ho detto che non è opportuno, che la scuola, la serietà, la decenza… ma niente, lei tira fuori di nuovo la guerra… Enzo fa per rispondere ma il mio sguardo lo zittisce (in fondo è un bravo ragazzo, sveglio quanto basta), dice che lo stava giusto togliendo e rientra. La Cioppi mi guarda e mi domanda: “Ma si rendono conto di quello che sta succedendo non lontano da qui? C’è gente che deve scappare sotto le bombe e questi si preoccupano di venire a scuola in pigiama!” Ovviamente non aspetta una risposta e se ne va. Quando rientro Enzo è in abiti civili e mi si avvicina con lo sguardo basso: “Prof, io non volevo mica offendere nessuno”

“Sì Enzo, lo so, non ti preoccupare. Dai, vai al posto ora” Ma non si sposta e la temuta domanda arriva: “Ma poi, scusi, cosa c’entra il mio pigiama con la guerra in Ucraina?” In quell’istante in classe è calato uno di quei misteriosi momenti di silenzio che si creano senza un vero perché, e la domanda di Enzo viene sentita da tutti (almeno da quelli che non hanno più le cuffie nelle orecchie). Simone, che se studiasse la metà di quanto è arguto sarebbe già laureato, riassume il pensiero di tutti: “Quindi se domani veniamo tutti in giacca e cravatta la guerra finisce?”

“Io neanche ce l’ho la cravatta”

“Ma è per dire, idiota”

“Che poi non è che prima di guerre non ce ne fossero” “Sì ma questi non sono neri e quindi fa notizia” “ma che sei razzista?” “Io ho seguito un po’ le notizie i primi tre, quattro giorni, ora mi sono stancato” “Io l’altra notte non ho dormito” “Ma se la guerra arriva qui dobbiamo andare a combattere?” “Siamo minorenni, mica possiamo” “Oh io faccio i diciotto fra un mese” “Io scappo da mio zio in America” “Ma tu sei una merda! No, io non vedrei l’ora di scendere a prendere a sberle i russi” “Sì ti vorrei vedere! Che coglione” “Ma non si può sparare un colpo in fronte a Putin? Così finisce ‘sta stronzata” e via disquisendo di politica internazionale e strategia militare… ovviamente parlando tutti contemporaneamente.

Urlo di abbassare la voce diverse volte, ma niente, a ogni frase ne seguono altre, poi risposte, insulti, insulti più pesanti… alla fine con un fischio da pastore riesco a ottenere un po’ di silenzio (se si esclude la domanda: “Forte, prof, mi insegna a fischiare anche a me?” Poi dicono che i giovani non hanno voglia di imparare…)

“Ragazzi, quello che vuole dire la vicepreside è che prima di pensare a cose sinceramente inutili, tipo venire a scuola in pigiama, bisognerebbe guardare a quello che succede nel mondo… voi vi informate almeno? Ne parlate tra voi di quello che succede?” Le risposte sono piuttosto vaghe, qualcuno è un po’ più informato, qualcuno meno, in generale si sono già un po’ stancati delle notizie di guerra.

“Io non guardo più i telegiornali, mi mette troppa ansia”

“Io ho un amico ucraino” interviene a sorpresa Marco, uno che di solito si limita a battute orribili. “Bene – cerco di incalzare – e questo cosa vuol dire per te? Cosa significa?”

“No, niente, che ho un amico ucraino” mi risponde alzando le spalle “Anzi, in questi giorni cerco di evitarlo perché so che ha dei parenti in Ucraina, immagino non sia troppo tranquillo”

“Ma scusa, proprio perché non è tranquillo forse ha bisogno di sentire qualcuno vicino, qualcuno che condivide questa preoccupazione e questo dolore”

“Ma cosa cambia, tanto non posso fare niente…”

Mentre questo deprimente scambio prosegue alcuni cominciano a ritirare fuori i cellulari, come se questa discussione riguardasse soltanto me e Marco, uno cerca di mangiare di nascosto mentre altri due si affrettano a copiare i compiti di qualche altra materia…

“Ho capito dai, ragazzi mettete via i telefoni, Alessio mangia durante l’intervallo; Yussef e Caterina mettete via quello che state facendo e riprendiamo. Vi ricordate dove eravamo rimasti? Foscolo, I sepolcri”

Arrivo faticosamente alla fine dell’ora, esco quasi senza salutare ancora inversato dalla discussione avuta con i ragazzi e incontro la collega di economia aziendale dell’altra sezione. Come sempre è vestita di colori sgargianti e dagli accostamenti improbabili e le vomito addosso quella che in fondo è la mia frustrazione. E imbocco anche io il viale del lamento. Questi ragazzi sono indifferenti a tutto, incapaci di provare un minimo di empatia, disinteressati a quanto accade nel mondo, sempre attaccati ai loro telefonini… e le racconto brevemente dell’ora appena trascorsa.

“Forse i ragazzi hanno solo dimostrato la loro incapacità a dare un nome ai loro sentimenti – mi dice senza perdere il suo sorriso – e magari la tua frustrazione è anche la loro, l’impotenza di fronte a un evento così grande e grave; forse è anche un po’ colpa nostra che siamo solo capaci di lamentarci e di dire cosa non va senza mai proporre qualcosa di costruttivo. Non dico te, parlo in generale…”

“No no, dici proprio a me… e fai bene! Hai ragione. Grazie!” Colgo il suo sguardo basito mentre faccio per tornare indietro, “Dopo ti spiego”, le urlo mentre mi allontano.

Busso alla porta della mia quarta, quando apro mi consolo perché c’è un macello che metà basta… in confronto nelle mie ore sembra di essere nella biblioteca di un convento. Metà classe è in piedi, tutti parlano, alcuni fanno dei compiti e altri giocano con il cellulare tranne i due poveri disgraziati che seduti di fianco alla cattedra lottano per una sufficienza in non so bene che materia. Mi avvicino alla cattedra: “Scusa, posso dare un avviso alla classe?” Il collega mi guarda un po’ stralunato e mi fa un cenno che interpreto come un sì e miracolosamente ottengo subito l’attenzione di tutti.

“Ragazzi, devo ancora capire come fare, ma se organizzassimo una raccolta di aiuti per l’Ucraina chi sarebbe disposto a darmi una mano?” Subito sei, sette mani, ovviamente cominciando a parlare tutti insieme “Io faccio i volantini” “Ma cosa raccogliamo?” “Ho sentito che arriveranno a scuola due ragazzi fuggiti dalla guerra, gli organizziamo un benvenuto” “Prof, ma si saltano delle ore di lezione?”

“No Riccardo, non si salta niente”

“Vabbé, lo faccio lo stesso. Anzi prof, lei adesso in che classe è?”

“Nessuna, ora buca”

“Allora veniamo con lei a organizzare, tanto qui interroga e non abbiamo niente da fare” guardo il collega che mi ripropone il suo gesto impercettibile che continuo a interpretare come un sì. Fuori dall’aula faccio due conti: dodici ragazzi. Decidiamo di andare fuori per non disturbare, tanto c’è sole e non servono le giacche.

Lunedì l’amico ucraino di Marco, Andrei, terrà un incontro via team per tutte le classi e se riusciamo si collegherà con noi suo cugino Pasha, che da Karkhov è scappato a Leopoli. Cercheremo di capire da loro cosa sta succedendo e come si vive ora in Ucraina. Martedì invece ci sarà una raccolta a scuola di generi di prima necessità: alimenti, farmaci, vestiti. Qualcuno magari porterà un pigiama.