Roulette pericolosa
La legittima attesa della riforma delle riforme
Giustizia e Referendum

La riflessione sullo stato della giustizia nel nostro Paese da un giornalista che da anni segue molto da vicino l’intricatissima e spinosissima materia. Lo fa attraverso esempi concreti di storture, criticità profonde, immobilismi.
Con la sensazione che più di qualcuno auspichi il mancato raggiungimento del quorum all’imminente referendum. Già, perché c’è un referendum alle porte. Anche se il vero cambio di paradigma passa dall’impegno sul campo di persone animate da umiltà, passione e competenza.


20 maggio 2022
di Stefano Zurlo

L’ultimo capitombolo è arrivato sul Monte dei Paschi di Siena: le condanne pesantissime, inflitte in primo grado agli ex vertici della nobile e disastrata banca toscana, vengono azzerate in appello. Quelli che in primo grado erano stati etichettati come criminali vengono riabilitati a Milano e a Siena ironizzano: nessun colpevole per gli ammanchi colossali nell’istituto di credito, si vede che Mps ha preso fuoco per autocombustione.
Un verdetto, uno fra i tanti, alla roulette della giustizia italiana. I magistrati protestano e annunciano sciopero contro quella che definiscono la timida riforma Cartabia; come hanno fatto contro tutti i tentativi precedenti per riparare la macchina giudiziaria, ma forse dovrebbero guardarsi allo specchio e guardare in controluce sequenze di verdetti come quelli di Mps.

Lo specchio di un disagio profondo

Qualche avvocato, che non vuole essere nominato, indica un problema di fondo: “La qualità del lavoro di alcune toghe è davvero modesta; la procura parte spesso fra squilli di tromba, il collegio si appiattisce sulle tesi roboanti dell’accusa e scrive centinaia di pagine senza andare in profondità. Così, alla fine, arriva l’appello a fare tabula rasa”.
Forse, il fascicolo delle performance, il nuovo sistema di valutazione e pagelle ideato da Cartabia, servirà proprio, se non verrà annacquato e trasformato in un compitino burocratico, per segnalare e colpire queste indecorose sacche di inefficienza, scarsa professionalità e nessuna propensione al bene comune che dovrebbe essere la bussola delle toghe.
Le modalità con cui oggi si autovalutano i magistrati non so se sono più ridicole o vergognose”, afferma senza tanti giri di parole Cuno Jakob Tarfusser, uno dei grandi vecchi della magistratura italiana, sostituto procuratore generale a Milano dopo undici anni passati come giudice alla Corte penale internazionale dell’Aia.
E ancora, l’indignazione dei leader dell’Associazione Nazionale Magistrati (ANM) contro la “pseudoriformetta”, come la chiamano, voluta da Cartabia è la prova “dell’arroganza dei magistrati – aggiunge Tarfusser nel suo ragionamento riportato da Luca Fazzo su Il Giornale – e della distanza siderale fra questi e la società”.
Per questo il magistrato altoatesino considera” sovversiva” la scelta dell’Anm di protestare contro le decisioni del Parlamento. “È come se in vista di un processo che non sta procedendo verso l’esito atteso, il Governo o il Parlamento decidessero di scioperare contro la magistratura”.
E infatti, come accaduto per la giornata di sciopero nazionale indetta da ANM, sciopera solo un magistrato su due: più o meno, anzi meno del 50 per cento delle toghe. Numeri modesti e imbarazzanti: certe parole d’ordine non funzionano più e il Paese non è più affascinato da quel cenacolo di saggi, campioni della legalità nell’Italia del crimine e dell’inganno. Anzi.
Parole che naturalmente non modificano di una virgola la politica delle toghe tricolori, ma sono anche lo specchio di un disagio profondo.

In galera e poi dichiarati innocenti

Nel Libro nero delle ingiuste detenzioni, che ho scritto qualche mese fa per Baldini e Castoldi, ho provato a mettere in fila alcuni errori degli ultimi anni. Attenzione: parliamo, sia pure a spanne perché naturalmente mancano statistiche precise, di circa trentamila casi dal 1990 al 2020. Trentamila persone finite in galera e poi dichiarate innocenti. Insomma, più o meno mille all’anno e dunque due barra tre al giorno.
Ora è vero, come mi ha fatto notare un pm, che gli standard della custodia cautelare non sono gli stessi dell’assoluzione o della condanna, ma il panorama complessivo non muta: superficialità, voglia di protagonismo, mancanza di attenzione al dettaglio e alla fine processi zoppicanti e indagini fatte anche peggio.
Si puó finire in cella, come è successo a Diego Oliveri, mite imprenditore nel distretto delle concerie di Arzignano, come pericoloso riciclatore di capitali provenienti da oscure trame criminali: l’arresto in piena notte ad opera di un battaglione di agenti, mesi e mesi di carcere duro,  umiliazioni imbarazzanti, come l’essere costretto a camminare in piena estate in vista di un interrogatorio sotto il sole cocente di Roma in mezzo ad un nugolo di agenti – quasi una forma raffinata di gogna -, i titoli dei grandi giornali ad accecare una consolidata rispettabilità, prima della scarcerazione e dell’evaporazione, con una disinvoltura,  sconcertante di tutte le accuse.
Ma nel nostro Paese si può andare dritti in carcere e rimanerci per un periodo record di ventun anni, si proprio ventuno, dal 1996 al 2017, per una consonante. Una S che per gli investigatori era una T. Non è una battuta, ma il mortificante esito di una storia in cui il diritto e il buonsenso sono stati calpestati nel segno del pregiudizio.

Angelo Massaro era un pregiudicato e quando il suo amico Lorenzo Fersurella, presunto complice in traffici di droga nel Tarantino, sparisce nel nulla, i sospetti si indirizzano su di lui. Così bastano due brevissime telefonate in sequenza, la mattina del 17 ottobre 1995, per costruire il suo arresto e su quello una condanna pesantissima. Dunque, alle 8.33 di quel giorno sfortunato Massaro parla con la moglie che gli chiede se può portare il figlioletto all’asilo.
Lui dice di no e spiega che sta trasportando un “muers de coso”, insomma un oggetto pesante, ovvero una pala meccanica per certi lavori in corso nelle campagne di  Fragagnano, in provincia di Taranto. Ma per lo Stato, per il pm, per il gip, per la corte d’assise, per la corte d’assise d’appello e per la cassazione, tutti incatenati allo stesso errore, quel “ muers” è in realtà un “ muert”, un morto, anzi il morto: Lorenzo Fersurella. Che si è come volatilizzato il 10 ottobre, una settimana prima.
Dunque, la tesi, fra il macabro e il cervellotico, è che Massaro stia spostando dopo sette giorni, un corpo in decomposizione, non si capisce bene da dove a dove. E con il rischio altissimo di essere scoperto.
Non ci sono prove, non c’è nulla di nulla, anzi ci sarebbe un alibi piuttosto robusto per il pomeriggio del 10 ottobre è il momento del fantomatico delitto, ma non conta. E viene aggirato.
Così si arriva alla detenzione monstre di ventuno anni, prima di una sacrosanta revisione e sconfessione di quel pacchetto di verdetti cuciti su una colpevolezza affermata e mai dimostrata, e prima di diciannove anni filati in prigione senza nemmeno il conforto di un permesso e di qualche ora a casa.
Ecco, il più delle volte, quando si leggono queste vicende, si capisce che non ci sono complotti, cospirazioni o sfumature cromatiche a giustificare gli scivoloni.
No, si tratta di sbagli imperdonabili che atterriscono il cittadino, animato da rispetto se non da candore.

Un vestito di troppi colori diversi

Si impone dunque un cambiamento di paradigma, anche se è evidente che la riforma delle riforme è solo il dispiegamento sul campo di persone che interpretino il loro ruolo con umiltà, passione, competenza. Come del resto fanno già la gran parte delle toghe, lontane da apparati e centri di potere. E peró non è più possibile andare avanti con criteri di professionalità che non privilegiano il merito, con il viluppo delle correnti che hanno portato al mercimonio delle cariche e all’incredibile valzer dei ricorsi degli sconfitti alle cariche apicali davanti alla giustizia amministrativa: giudici che ricorrono davanti ai giudici contro le scelte di altri giudici, in una sarabanda senza fine di mortificanti scontri e delegittimazioni reciproche.
Non è più accettabile tenere sul versante penale questo pasticciato e confuso mix di mondi diversi: il codice penale è ancora quello fascista del 1930, il codice di procedura penale é figlio di Perri Mason e del sistema accusatorio di impianto anglosassone. Il risultato è un vestito di mille colori e stili diversi che fa impallidire quello di Arlecchino.
Di anomalia in anomalia non si può non mettere l’accento sulla figura del pubblico ministero, senza eguali nel canone europeo. I magistrati dell’Anm, quelli che da sempre si oppongono a qualunque innovazione perché comprometterebbe l’autonomia e l’indipendenza della categoria e farebbe saltare per aria i sacri valori della corporazione, sostengono che il pm, se dovessero passare finalmente le modifiche chieste a gran voce da pezzi del centrodestra, diventerebbe un super poliziotto. E si allontanerebbe dalla cultura della giurisdizione, baluardo e garanzia per tutti. Ma questa, per dirla in modo spiccio, è una visione paternalistica della realtà; la verità è che in una architettura liberale ad ogni peso deve corrispondere un contrappeso e oggi così non è.
Si sono riempite biblioteche e si sono svolti infiniti convegni su questi nodi e, gira e rigira, sulla riscrittura della seconda parte della Costituzione che poi è il punto infiammato dell’arretratezza di un sistema che ogni giorno mostra i suoi limiti: nei tribunali, a Palazzo Chigi, in Parlamento.
Ma la palude dell’immobilismo ha sempre fermato tutto, ancora di più sul fronte della giustizia dove lo scontro fra berlusconismo e anti berlusconismo ha paralizzato il Paese per vent’anni.
Si può pure pensare che i referendum promossi dalla Lega e dai Radicali siano l’avvio di una controriforma con intenti punitivi. Ma chiunque abbia un minimo di ragionevolezza sa che non è così e in ogni caso questa è l’occasione giusta per mettere mano e colmare, o almeno iniziare a riempire, un ritardo vergognoso e ingiustificabile.

La partita vera del superamento del quorum

Per questo il 12 giugno bisogna andare alle urne e votare si ai referendum sulla giustizia: al di là dei quesiti redatti talvolta con linguaggio oscuro e incomprensibile, per mandare, come sottolinea Carlo Nordio, “un segnale inequivocabile al Palazzo che altrimenti rimanderà ancora una volta quel che non si puó più rimandare.
In un gioco interminabile di veti, guerre tattiche fra i partiti, ineliminabili riflessi ideologici.
La partita, quella vera, si misurerà sul superamento del quorum. E i segnali che arrivano, le previsioni di affluenza bassa e insufficiente per superare l’asticella, sono un presagio di rovina dentro un paesaggio che è rimasto pietrificato. Indietro, terribilmente indietro rispetto al passo e alle drammatiche esigenze del Paese.
Se i referendum dovessero restare impigliati nel disinteresse, subito l’establishment farebbe rotolare la pietra all’ingresso del sepolcro; se invece, ma è molto difficile, la consultazione dovesse avere successo, prepariamoci ad una lunga marcia. La nuova stagione sarà solo una pallida alba: spesso le vittorie referendarie sono state tradite e accantonate sotto il velo del più ipocrita dei silenzi.