Ricchi e potenti. La scoperta dell’acqua calda: evadono il (loro) fisco
La vicenda Pandora papers e il rito delle operazioni offshore. Una fuga di capitali che produce danni oggettivi all’economia reale. E una narrazione superficiale. Tra paradossi del fisco e un’educazione che non c’è.
19 febbraio 2022
di Gianfranco Fabi
Ha destato sensazione nelle scorse settimane l’inchiesta denominata Pandora papers, frutto del lavoro di anni di un Consorzio di giornalisti investigativi. Una sensazione in verità pari alla scoperta dell’acqua calda, salvo per qualche nome apparentemente insospettabile. Che ci siano ricchi e potenti che cercano di mettere al sicuro le loro ricchezza, non solo dai ladri, ma anche dal fisco, è un fatto ampiamente noto e risaputo. Tanto che da almeno trent’anni nell’ambito dell’Ocse (L’Organizzazione dei paesi industrializzati) è in atto una dura battaglia per armonizzare le regole, per favorire lo scambio di informazioni, per controllare il trasferimento dei capitali ai fini di evasione o di elusione fiscale. Qualcosa di più delle grida manzoniane che aumentando sempre di più le pene servivano alla fine per dimostrare che il problema era sempre aperto.
Triangolazioni “creative”
La battaglia dei grandi paesi ha dato invece positivi risultati. Forse il più clamoroso è quello che ha fatto cadere quel segreto bancario che è stato per secoli uno dei capisaldi del settore finanziario in Svizzera. Il traguardo finale è ancora lontano, anzi probabilmente non sarà mai raggiunto, ma è significativo che nella lista nera delle giurisdizioni che non rispettano gli standard internazionali ci siano ormai solo nove piccoli paesi: Samoa, Bahrain, Guam, Isole Marshall, Namibia, Palau, Saint Lucia, Samoa e Trinidad & Tobago.
Certo, ci sono poi altri paesi, da Panama a Singapore, dalle isole inglesi sulla Manica a qualche sperduto arcipelago nel Pacifico, chepossono servire per quelle triangolazioni che sa realizzare la più sofisticata ingegneria finanziaria. Salvo poi scoprire che i veri paradisi fiscali sono nei paesi federali, come gli Stati Uniti o la stessa Svizzera, dove la competizione tra i sistemi dei singoli stati o dei Cantoni fa sì che si siano vere e proprie oasi di tranquillità fiscale. E’ il caso, in parte ridimensionato negli ultimi anni, del Delaware negli Usa oppure del Cantone Zugo nella Confederazione. Peraltro in molti altri Cantoni elvetici i ricchi che non hanno bisogno di lavorare possono trasferire la loro residenza utilizzando il metodo “globalista” di pagare le tasse: cioè una quota fissa concordata non tanto sulla base dei redditi e della ricchezza, ma sul loro livello di vita.
Lussemburgo caput investimenti
Non è che il Fisco sia uguale per tutti gli altri. Le differenze esistono, ma sono differenze nella politica fiscale, nei vantaggi che taluni paesi offrono a chi compie nuovi investimenti, alle garanzie di affidabilità e certezza del diritto. Anche all’interno dell’Unione europea vi sono differenze sensibili: il Portogallo riserva condizioni di grande favore per i pensionati e per chi investe in nuove attività produttive, l’Irlanda ha una legislazione molto favorevole per le grandi multinazionali, il Lussemburgo è un piccolo Granducato dove hanno sede gran parte dei fondi di investimento: è molto probabile che chi si rivolge a una banca italiana per investire i propri risparmi ottenga, magari a sua insaputa, un prodotto finanziario, del tutto legale, con base proprio in Lussemburgo. In questi casi non si parla di evasione, ma di quella che gli esperti chiamano “ottimizzazione fiscale”: in pratica operazioni che in tutta trasparenza e legalità consentono di sfruttare le occasioni in un mondo in cui si parla spesso di paradisi fiscali, ma non altrettanto spesso si parla di realtà che, almeno in parte, sono degli inferni fiscali.
Penalizzata l’economia reale
Certo, nei Pandora papers, ci sono nomi di dittatori, capi mafia, oligarchi le cui ricchezze non sono certo frutto di normale imprenditorialità. E questo è un problema per le aule giudiziarie, ammesso che in molti dei paesi interessati la giustizia riesca a fare il suo corso. Pur se rilevante questo fenomeno è tuttavia la punta di un iceberg molto più grande e diversificato. In un recente documento1 la Congregazione per la dottrina della fede sottolineava che “oggi più della metà del commercio mondiale viene effettuato da grandi soggetti che abbattono il proprio carico fiscale spostando i ricavi da una sede all’altra, a seconda di quanto loro convenga, trasferendo i profitti nei paradisi fiscali e i costi nei Paesi ad elevata imposizione tributaria. Appare chiaro che tutto ciò ha sottratto risorse decisive all’economia reale e contribuito a generare sistemi economici fondati sulla disuguaglianza.” Con molti elementi negativi. Le operazioni finanziarie attraverso le sedi offshore aprono la strada alle operazioni criminali con il conseguente riciclaggio di denaro e la costituzione di patrimoni che sfuggono ad ogni controllo. E costituiscono un fattore di attrazione per capitali dei paesi più deboli che potrebbero invece trarre sostegno dal finanziamento di investimenti produttivi.
La stessa Congregazione, tuttavia, non manca di sottolineare come “il sistema tributario approntato dagli Stati non sembra sempre equo”. Non è ovviamente una giustificazione all’evasione, ma è soprattutto la sottolineatura di come gli interventi per contrastare l’evasione fiscale non possono essere solo repressivi, ma devono tener conto della necessità di non penalizzare lo spirito di iniziativa e l’imprenditorialità. Senza dimenticare che gli stessi effetti redistributivi di una sana politica fiscale costituiscono un fattore fondamentale per la crescita dell’intero sistema economico.
Solo il 5 per cento delle dichiarazioni dei redditi è controllato
Guardiamo all’Italia. La lotta all’evasione fiscale è un immancabile rito in ogni programma politico. L’economia sommersa è stimata, da una fonte ufficiale come l’Istat, in quasi 200 miliardi mentre l’evasione fiscale vera e propria supererebbe di poco i cento miliardi. Cifre molto grandi che fanno da contraltare, tuttavia, ad un sistema fiscale che prevede una fascia molto larga di esenzione per i ceti medio bassi e una pressione nominale significativa per il ceto medio e gli alti redditi. Il Fisco negli ultimi anni ha affilato le armi: basti pensare al caso di Valentino Rossi che dopo aver spostato formalmente a Londra la sua residenza è stato “convinto” a dichiarare in Italia, residenza effettiva, i propri redditi e a pagare le relative tasse. Ma a fronte di pochi casi clamorosi vi è una forte difficoltà ad un contrasto generalizzato all’evasione. Come ha scritto Ernesto Maria Ruffini, direttore generale dell’Agenzia delle entrate “per quanto sia numeroso ilpersonale della Guardia di Finanza e quello dell’Agenzia delle Entrate, le probabilità che un evasore sia scovato sono davvero scarse. Solo il cinque per cento delle dichiarazioni dei redditi è controllato e l’evasore ha il novantacinque per cento di probabilità di farla franca”.
Forse bisognerebbe aggiungere che la lotta all’evasione dovrebbe riguardare chi le tasse non le paga per nulla piuttosto che andare alla ricerca degli errori nella complessità delle dichiarazioni fiscali. Complessità non tanto perché il Fisco non abbia cercato di facilitare la vita ai contribuenti, per esempio con le dichiarazioni pre-compilate, quanto perché le regole fiscali prevedono tutta una serie di agevolazioni, deduzioni e detrazioni, soggette a loro volta a limiti, barriere e condizioni spesso di complessa attuazione.