Oltre il declino
La semplicità dell’amore risposta alla pratica dell’annientamento

Leggere il nuovo romanzo di Michel Houellebecq in questi tempi di guerra.
Rintracciare nelle pieghe della storia (anche minime) le ragioni antropologiche e culturali della sconfitta dell’Europa. E avvertire che il percorso di una redenzione possibile passa da una lei e un lui che si ritrovano.


25 marzo 2022
di Enzo Manes

Mette sul chi vive avventurarsi nella lettura di Annientare, l’ultimo romanzo di Michel Houellebecq (La nave di Teseo, 2022), una volta fatta esperienza perlomeno visiva – e ne avremmo fatto volentieri a meno – della passione di Vladimir Putin per quel verbo così definitivo, obbedienza operativa a un comando militare. Non che prima delle bombe avessimo di che rallegrarci. La storia di un accertato declino è cosa nota e Houellebecq con i suoi libri si è cimentato a indagarne i motivi, pure quelli che si fatica, ad Ovest, a considerare. Anche questa volta non viene meno al compito che si è dato nelle vicende che colloca – opportuno ricorrere al plurale – nella Francia del 2026 – 2027. Ma i temi sensibili, distopici, riluttanti, anche sorprendenti se teniamo conto dell’Houellebecq pensiero tracciato nei suoi lavori precedenti, sono tutti protagonisti di questo presente: resa connivente alla certezza dell’incertezza, compiaciuta o supinamente accettata. Che ha determinato, come emerge nel romanzo, il progressivo annientamento dell’Occidente. E non è peregrino vedere nell’invasione della Russia all’Ucraina lo scarpone violento che approfitta della rassegnazione dell’Occidente annichilito. Antropologicamente e culturalmente annientato e dunque non più in pieno possesso delle proprie facoltà.

La brutta faccia della Francia

Gli attacchi terroristici, dapprima simbolici e fatti circolare attraverso l’arma sofisticata della rete e immediatamente dopo violenti nella realtà delle cose (stavolta il radicalismo islamico non c’entra), producono l’effetto di un’invasione straniante e dilaniante nella normalità delle vite dei protagonisti del libro: politici, consulenti di politici, agenti dei servizi. Donne e uomini. Sani e ammalati. Non solo per malattia fisica. Tutti drammaticamente fragili.

Tra Parigi e la provincia, lo svolgimento. È una storia di complessità che nell’incedere di imprevisti molto forti scardina le deboli difese. Questa invasione si consuma sul terreno fertile di una Francia sballottata, annientata nel corpo e nello spirito per mancanza di un pensiero vivo e oppositivo alla faccia abitudinaria del nichilismo. Dove la moderazione stracca di ceppo liberale e liberista si trova a misurarsi con una destra nazionalista aggressiva e sempre desiderosa di fratture su cui accrescere consensi; e con una gauche ridotta ai minimi termini per parole sfinite, velleitari tentativi, infruttuose pratiche. No, non ha un bell’aspetto la Francia di Houellebecq. Va da sé che non ce la possano avere i protagonisti del fluviale romanzo. Ma la lunghezza del libro è la lunghezza necessaria perché qualcuno nel qualcosa riconosca la convenienza – non per improvviso e ingiustificato ottimismo – ad abbassare la guardia che fa resistenza scompaginando un poco le pagine dell’annientamento come riscontro al delitto perfetto.

Il concetto di decadenza della Francia, ma non solo, lo rintracciamo a un certo punto della storia. Nei pensieri di un politico affermato che ha messo in ordine i conti dell’economia interna ma lo scopriamo rassegnato nell’animo: «Persino dei leader autoritari e determinati come il generale De Gaulle si erano dimostrati impotenti, incapaci di opporsi al verso della storia, e l’intera Europa era diventata una provincia lontana, invecchiata, deprimente e leggermente ridicola degli Stati Uniti d’America. Il destino della Francia, malgrado le pittoresche spacconate del generale, era realmente diverso da quello degli altri paesi dell’Europa occidentale?».

Individualismo spinto e decadenza diffusa

Il romanzo è una storia di scontri. Soprattutto. Vi è un assedio che sembra inesorabile così soverchianti le forze che lo sostengono; e vi sono piccole enclave di soprassalti dell’umano che tentano un’altra via per come possono. Per un verso sembra proprio che la catastrofe stia facendo il proprio corso ineluttabile; per l’altro, dentro la fatica di un contenimento del danno destinato a concludersi con la capitolazione certa si palesa, un dapprima impercettibile sollevamento dalla polvere che copre ogni aspetto dell’inutile convivenza e poi, con maggiore convinzione, una chance concreta da vivere fino in fondo. Che, è bene chiarire di nuovo, nulla ha a che fare con l’ottimismo quale versione tentatrice del nichilismo.

Il protagonista principale, potremmo dire il primo obiettivo sensibile dell’assedio è Paul, professionista impeccabile nello svolgere la funzione di consigliere stretto di Bruno, un politico navigato a cui appartiene la considerazione (più sopra riportata) sul declino del suo paese e dell’Europa occidentale, ministro dell’Economia con legittime ambizioni a salire di grado. Paul è sposato con Prudence, ecologista e vegana. Il loro matrimonio è sotto attacco da tempo. E la coppia parrebbe proprio aver accettato, in concorso di colpa, l’imminente atto della resa. Bruno, il politico, non se la passa meglio. Affetti spezzati, tanto lavoro e stato di confusa solitudine. Senza mai concessioni all’irrequietezza. Una decadenza dell’animo e del corpo. Come è decadente la fotografia generale di una Francia che si è arresa da tempo all’avanzata dello sfasamento di pensiero prodotto in larga misura da sé medesima. Nel 2027 è una potenza economica mondiale. Sotto schiaffo di attentatori che appartengono a galassie inconsuete, complicate da fotografare e individuare. È la Francia dell’individualismo spinto, ostentato all’eccesso dove il senso della comunità pare del tutto fuori dalla partita. Uno sfilacciamento complessivo riempito da vuoti. Dove le poche forme di aggregazione esprimono debolezza di pensiero e ragionamenti. E la loro compattezza sempre e comunque sopra le righe, sempre e comunque alla ricerca di un volto nemico, dice di una Francia al lumicino, annientata.      

Houellebecq ci racconta di Paul che ha un anziano padre molto malato, a suo tempo servitore dello Stato all’interno dell’intelligence. Paul ha una sorella fin troppo austera, generosa, protettiva all’eccesso; un fratello depresso oltremisura, nel profondo infelice e a caccia, chissà, di una nuova possibilità. L’aggravarsi delle condizioni del vecchio conducono Paul da altra parte. Per intanto in provincia. Lì, nella casa di famiglia, ci sono decisioni da prendere, non semplici.  Occorrerebbe lucidità, il che è complicato perché le Presidenziali incombono e lui ha impegni con la politica. Paul non si sottrae a vivere la condizione dell’assediato. Per quel che gli riesce c’è. Davanti a qualsiasi intervento invasivo della realtà. Sta ingaggiando la sua battaglia per non essere annientato nella scoperta di relazioni per cui mai avrebbe pensato di spendersi. È al fronte, la sua prima linea è ad esempio il poter condividere e favorire un gesto propositivo all’ineluttabilità della cultura eutanasica che vorrebbe convincere la famiglia a farla finita con il vecchio padre. Da quel lampo di presenza dell’umano succedono molte altre cose. Senza che la condizione del dramma attenui la presa. Per via diretta o per episodi dolorosi che, in un modo o nell’altro, lo investono comunque. Sempre nella condizione dell’assediato, potenzialmente a rischio di annientamento.

Un normale atto di felicità

Paul si «trovava con Prudence come su un’isola deserta in mezzo al nulla. A ben pensarci, quel nulla relazionare lo accompagnava da sempre». La grandeur francese sfinita nell’annientamento dell’io, dell’io che va a sbattere. Uno sgradevole senso di incompiutezza assale Paul in un dato momento. È un pugno nello stomaco. Fa molto male, ma è un segnale confortante. Nel suo piccolo l’io non si spiaccica contro il muro eretto dalla decadenza.

Houellebecq non è che esca dal proprio seminato tempestoso. Qui vi arriva quasi per ovvietà dopo i due precedenti lavori: “Sottomissione” e “Serotonina”. Libri nei quali aveva visto e raccontato, consapevole di esporsi a critiche feroci, situazioni che in buona misura sono successe. In “Annientare” c’è il tramonto dell’Europa, la sua incapacità ad esserci. Ma su quelle macerie timidamente affiora l’io che cerca il tu. Paul e Prudence, non teorizzando e neppure rincorrendosi da ritrovati adolescenti, tornano ad odorarsi, a riprendere un filo esistenziale dove l’affetto è risposta autentica alla decadenza. Un affetto di nuovo sperimentato, piccola grande occasione per l’amore, resilienza attiva al vento gelido dell’annientare. Nell’abbracciarsi, nel cercarsi, nell’essere uniti davanti all’ennesima prova, scoprono la novità di un riconoscimento reciproco che non può avere nulla di convenzionale. Nell’epoca dell’annientamento realizzato la speranza di una ripartenza non è un progetto scritto a tavolino. Per pagine e pagine si respira solo aria cattiva, un bombardamento continuo, una resa dell’umano senza condizioni. Come se gli accadimenti terribili di questi giorni, con l’Europa sconquassata, trovassero un’eco disturbante in “Annientare”.  Houellebecq non finge. Penetra. Perché non è un nichilista. Non si limita a deformare, a descrivere la dissoluzione della civiltà. Ma si dà e suggerisce un possibile per quanto accidentato tragitto di redenzione scolpendo con cura una storia d’amore dentro ma non succube del conflitto. Un normale atto di felicità. Così normale dall’assumere la postura dell’originalità. Una pacificazione vivificante e forse contagiosa al tempo dell’assedio. Delle sirene che risuonano. Del verbo annientare che opera.