Le agenzie di rating non sono la Bibbia (ma nemmeno il diavolo)

Con il fallimento di Lehman Brothers le società che si occupano di misurare la solidità dei prodotti finanziari hanno toccato probabilmente il punto più basso della loro storia. I loro giudizi, sempre attesi con preoccupazione, determinano indirizzi e politiche. Ecco perché vengono ritenute società troppo potenti che rispondono a precisi interessi di parte. In questo giudizio liquidatorio vi è il solito vizio di ridurre tutto a spy story, a complotti a getto continuo.

Le cose non stanno proprio così. Pur in presenza di evidenti criticità e storture. E se avesse ragione Mario Draghi quando dice che “bisognerebbe imparare a vivere senza le agenzie di rating”?

 


4 novembre 2022
di Gianfranco Fabi

Il 15 settembre del 2008 una delle più grandi banche del mondo, Lehman Brothers, è costretta a chiudere i battenti e a portare i libri in tribunale.

Le immagini degli impiegati che escono dai loro uffici con gli scatoloni con i loro pochi effetti personali fanno il giro del mondo come il segno più evidente di un dramma personale prima che finanziario: 26mila persone vedono svanire nel nulla d’improvviso il proprio posto di lavoro.

Nella settimana precedente i titoli Lehman avevano perso più dell’80% prima di portare il loro valore a zero nel giorno del fallimento.

Eppure i titoli obbligazionari della banca nuovayorkese avevano mantenuto la tripla A dalle agenzie di rating, il livello di massima affidabilità.

Eppure nei portafogli della banca c’era prodotti finanziari considerati ad altissimo rating perché collegati ai mutui e quindi al valore reale degli immobili, valore che fino a pochi mesi prima era continuato a salire.

Eppure la banca era considerata “too big to fail”, troppo grande per fallire, perché sarebbe sicuramente arrivato qualche cavaliere bianco a salvarla dalla rovina come era accaduto pochi giorni prima con la banca d’investimento Bearn Sterns che, a un passo dal fallimento, era stata rilevata da Morgan Stanley con la garanzia del Governo di Washington sui debiti in bilancio.

Sul banco degli imputati

Il caso Lehman Brothers non è stato solo il più grande fallimento della storia finanziaria mondiale, ma è stato anche il punto più basso di affidabilità delle agenzie di rating, quelle società che dovrebbero misurare la solidità dei prodotti finanziari (dalle obbligazioni societarie ai titoli del debito pubblico) e che in più di una occasione sono state messe sul banco degli imputati accusate di scarsa trasparenza, interessi privati e superficialità.

Ma Standard & Poor, Moody’s e Fitch, le tre sorelle dominatrici del mercato del rating, continuano a mantenere il loro posto al sole, a condizionare i mercati finanziari, a stilare pagelle e decidere promozioni e bocciature anche perché tutte le alternative che periodicamente hanno tentato di presentarsi sul mercato non hanno mai avuto fortuna. Ma perché le “tre sorelle” sono così forti?

Più per tradizione che per convinzione. E peraltro gli intrecci tra controllore e controllato non sono per nulla nascosti perché tra gli azionisti delle società di rating spiccano proprio i gestori del risparmio: in fondo una convergenza di interessi più che un conflitto, perché informazioni affidabili non possono che aiutare le strategie dell’industria del risparmio.

Fotografia di tre sorelle

Standard & Poor’s è una divisione del colosso americano dell’editoria e dell’informazione Mc Graw Hill. È quotata in Borsa e tutti in teoria possono acquistare le azioni della società, anche se vi sono partecipazioni più che significative come quella di Capital World Investors, il primo azionista e uno dei maggiori gestori indipendenti di fondi negli Usa. Vi sono poi con quote minori altre società di gestione del risparmio come State Street, Vanguard, BlackRock, Oppenheimer Funds, T. Rowe.

Tra i soci rilevanti vi è l’Ontario Teachers’ Pension Plan Board, il fondo pensione degli insegnanti dell’Ontario, che ha poco più del 2%. Nel consiglio di amministrazione figurano poi alti dirigenti delle maggiori corporation americane.

Anche Moody’s offre la stessa panoramica. La società è infatti controllata da grandi investitori finanziari e colossi della gestione del risparmio.

Il primo azionista con poco più del 12% è Berkshire Hathaway il fondo di investimento che fa capo a Warren Buffett, uno dei più famosi (e ricchi) investitori americani. Seguono poi Capital World Investors, ValueAct Capital, T. Rowe, già presente in S&P’s, così come Vanguard, State Street e BlackRock. Non può mancare un fondo pensione: in questo caso è il Tiaa-Cref, fondo di insegnanti e docenti universitari americani.

Il quadro si completa con Fitch, che spesso svolge la funzione di arbitro tra S&P’s e Moody’s. La terza sorella del rating è anche la più piccola e l’unica che è nata non americana. Fino a pochi anni fa era controllata dalla finanziaria francese Fimalac mentre ora la maggioranza del capitale è posseduto dal colosso dei media Usa Hearst Corporation.

Le pagelle all’Italia

Le società di rating tengono periodicamente aggiornate le loro pagelle.

Si va dalla promozione piena, la tripla A che indica una elevata capacità di ripagare il debito, per scendere prima alla doppia poi alla semplice A che indica che la solidità rimane immutata, ma potrebbe essere influenzata da circostanze avverse.

Si scende poi alla tripla B che indica un’adeguata capacità di rimborso, che nel futuro potrebbe peggiorare, per poi passare alla semplice B e in qualche caso anche alla C per segnalare un debito prevalentemente speculativo.

A questi voti si aggiungono poi le valutazioni di prospettiva, i cosiddetti “outlook”, che possono essere positivi, negativi o stabili indicando una possibile revisione del rating a breve-medio termine.

I paesi con la tripla A sono rimasti pochi: Germania, Svizzera, Canada, Australia, Svezia, Olanda e Norvegia. Hanno creato scalpore negli anni scorsi le agenzie di rating che si sono permesse di declassare, da AAA a AA, Stati Uniti e Francia. L’allora presidente Obama disse esplicitamente che il debito americano non poteva essere messo in discussione.

L’Italia ha ormai da tempo la tripla B con outlook che tuttavia oscillano spesso. Standard and Poor’s ha fatto scendere nei giorni scorsi la valutazione da positiva a stabile giustificando la scelta con la necessità di bilanciare “i rischi crescenti per l’economia e le finanze pubbliche derivanti da fattori esterni e interni con la solidità dei bilanci delle famiglie e delle imprese e con la ricchezza e la diversità dell’economia italiana”.

Per Moody’s invece l’outlook per l’Italia è negativo, l’ultimo gradino del livello di affidabilità dell’investimento. Se si scendesse ancora si arriverebbe a quelli che vengono chiamati “titoli spazzatura”, titoli che potrebbero perdere valore da un giorno all’altro sotto la spinta di eventi imprevisti e imprevedibili.

Voti che influenzano le politiche finanziarie

Uno dei grandi problemi delle agenzie di rating è che le loro valutazioni si inseriscono nell’ambito di quelle che vengono chiamate “aspettative che si autoavverano”. Il meccanismo è altrettanto semplice, quanto diabolico: abbassando il rating di un titolo finanziario si inducono i possessori di quel titolo a disfarsene e questo provoca una pressione sul mercato con il risultato di una effettiva e reale perdita di valore.

Un giudizio teorico ed ipotetico si può così trasformare rapidamente in realtà con conseguenze finanziarie che possono essere molto pesanti. Ma lo stesso vale anche in senso inverso con giudizi positivi che possono far crescere le quotazioni dei titoli interessati.

I rating possono avere così un forte impatto sulle politiche finanziarie. I fondi pensione, molto diffusi negli Stati Uniti e che costituiscono uno dei pilastri della finanza americana, hanno per esempio nei loro statuti il divieto di investire i propri capitali in titoli con rating basso. È significativo che anche le banche centrali, compresa la Bce, affidano ai voti delle agenzie di rating la valutazione dei titoli che possono essere acquistati nell’ambito degli interventi sul mercato aperto.

E comunque possiamo considerare quasi un rito le critiche che puntualmente vengono rivolte alle agenzie di rating di fronte ai loro giudizi, soprattutto se questi giudizi sono negativi. Ma il più delle volte queste critiche assomigliano a quelle di chi se la prende con il termometro se questo segnala la febbre.

In fondo ci si chiede se le tre sorelle siano un arbitro o un giocatore.

A questo punto non bisogna dimenticare che gli studi delle agenzie vengono commissionati (e pagati) dagli Stati e dalle società che emettono strumenti finanziari e non da coloro che dovrebbero e potrebbero acquistarli. E quindi le agenzie di rating vivono (e fanno lauti profitti) sulla base dei contratti con chi viene valutato. In un certo senso è come se uno studente dovesse pagare il proprio professore per avere una valutazione sulla sua preparazione.

Un paradosso solo apparente: in fondo direttamente o indirettamente attraverso le imposte, sono proprio le famiglie a finanziare il sistema dell’istruzione e quindi i professori.

Le accuse di Olli Rehn

Certo c’è qualcosa di vero in quanto affermava nel 2012 l’allora Commissario europeo agli affari economici e monetari, Olli Rehn, che accusava le tre agenzie, che avevano declassato all’improvviso ben nove paesi europei, di non essere altro che “strumenti del sistema capitalistico americano”. E in quell’occasione si deve registrare anche una laconica dichiarazione del presidente della Bce, Mario Draghi che era intervenuto sostenendo semplicemente che “bisognerebbe imparare a vivere senza le agenzie di rating”.

Non si può dimenticare che comunque in Europa le agenzie di rating sono sottoposte alla vigilanza dell’Autorità europea dei mercati finanziari (Esma) che proprio l’anno scorso ha deciso una multa di 3,7 milioni di euro per le società del gruppo Moody’s in Italia, Francia, Germania, Spagna e Regno Unito per violazione del regolamento europeo in relazione all’indipendenza e alla prevenzione dei conflitti di interesse degli azionisti.

Una multa significativa, in un certo senso esemplare, ma fatte le debite proporzioni pari a poco più dell’1% dei ricavi annuali della società: e quindi con il rischio di poter essere considerata un costo calcolato a fronte del quale ci possono essere tuttavia guadagni ben più rilevanti.

E ci si può chiedere come mai un compito così importante non venga attribuito ad authority pubbliche in grado di essere al di sopra delle parti.

In effetti sui mercati finanziari, in Europa come negli Stati Uniti, esistono enti indipendenti a garanzia del mercato. Negli Usa la Sec, in Italia la Consob (Commissione nazionale sulle società e la Borsa), hanno il compito istituzionale di sorvegliare la correttezza degli scambi di Borsa e la trasparenza e veridicità delle informazioni. Tutte le società quotate in Borsa devono rispettare un preciso regolamento con comunicazioni obbligatorie e viene sanzionata, anche pesantemente, ogni forma di “insider trading”, cioè di operazioni condotte sulla base di informazioni riservate ed ignote al pubblico dei risparmiatori.

Ma queste authority hanno, per loro natura, un limite: non possono alzare gli occhi dal presente e dal rispetto formale delle regole, per guardare al futuro con giudizi e previsioni che non possono che essere essenzialmente soggettivi.

Un male necessario

In conclusione, parliamo di strumenti dell’imperialismo finanziario americano?

Di protagoniste di un gioco sporco contro le magnifiche sorti dei mercati europei? Di fastidiose cassandre capaci di mettere in luce solo difficoltà e rischi?

Guardare al futuro è quindi un compito delle agenzie di rating, anche se nessuna di loro ha la palla di vetro o il dono della profezia.  E tutte fanno parte di un mondo in cui non mancano le tentazioni e gli interessi particolari.

Sparare contro le agenzie di rating è altrettanto facile quanto consolatorio. Pur con tutti i limiti, gli interessi particolari e i veri e propri errori di valutazione le tre sorelle svolgono comunque un ruolo importante. Possono essere considerate un male necessario. Ci ricordano che informazione e trasparenza sono elementi fondamentali per l’efficienza dei mercati e per rispondere alla necessità di offrire indicazioni di rotta al risparmio. E ricordano agli Stati e alle imprese che il debito è una cosa seria e che i risparmiatori vanno protetti e soprattutto rispettati.

 


Fotografie
2 – Lehman Brothers crisi 2008 
3 – Olli Rehn e Mario Draghi