Le discese ardite e le risalite di Roberto Perrone

Un anno fa moriva Roberto Perrone, amico, grande giornalista e scrittore brillante di romanzi. Oggi permane un modo semplice ma importante per incontrare la sua umanità: i romanzi che ha scritto. Lì c’è il “Perri” delle storie minime, dei sobbalzi del cuore, delle vicende di contrabbando. Del gusto per la vita piena, corposa, debordante. Quella che porta le ferite e le gioie delle persone normali, quella dei volti che esprimono. Volti che sono sguardi. Che sono incontri. Che sono.

      


15 dicembre 2023
Vita piena
di Enzo Manes

Roberto Perrone, giornalista del Corriere della Sera, scrittore

È un anno (29 gennaio 2023) che Roberto Perrone giornalista vero, ottima penna, cultura corposa come un rosso di grande personalità ha lasciato la sua famiglia, gli amici cari, la tavola, il Levante ligure, i cantautori, il Genoa e Genova, ma anche Milano.  Insomma: la vita piena. In questo anno abbiamo scoperto che è possibile trattenere assai di quella pienezza, di quella tracimante passione per l’umano, di quel affilato interesse per il lato imprevedibile del nostro ordinario quotidiano. Questo e altro – perché c’è sempre altro – resta nell’incontro che si riavvia anche ora nel rinfrescarci la memoria di incontri che sono venuti su per come sono venuti su. E, per suo talento, in ciò che ha scritto, gli articoli certo; e le storie minime e perciò grandi che ha reso nella forma del romanzo.

Per strade asfaltate un po’ così

È una bella esperienza poter conoscere Perrone attraverso i suoi romanzi. Che sono lui, il suo ardire, il suo spingersi in là per far venire fuori l’essenziale, rubato al banale che vuole inaridire tutto. I romanzi del “Perri” sono storie sghembe perché sanno di vita, respirano non di rado affannate, si muovono senza barare. Storie che hanno un procedere battistiano: discese ardite e poi risalite. Su e giù per strade asfaltate un po’ così.    
Allora, vale la pena andare a quelle pagine per viverne il procedere da montagne russe e, com’ è giusto che sia, ciascuno può incontrare i romanzi di Perrone, come gli capita. Come gli viene.  Allora mi è venuta la voglia di riportare qualcosa di alcuni suoi libri. Perché dicono, perché l’umano batte sempre un colpo. Direi: “Zamora”; “La lunga”; “Averti trovato ora”; “La ballata dell’amore salato”. E i noir, con due personaggi memorabili: l’ex carabiniere Annibale Canessa e il vicequestore Attilio Toscano. 

Vita da portiere e da attaccante

“Zamora”, del 2003, è la sua prima grande sfida. Qui il calcio è nella memoria di Zamora, l’immenso portiere della Spagna. Quel prestigioso cognome viene appioppato al ragionier Walter Vismara dai colleghi di lavoro per la sua goffaggine nello stare tra i pali. Costretto a giocare in azienda per volontà del titolare a lui che del pallone frega nulla. Siamo nei primi sessanta a Milano. Attivissima metropoli, con grandi aspettative. Milano occuperà sempre molto spazio nei romanzi del “Perri”. Come le persone normali e anche bistrattate. Normali epperò irregolari, con guizzi sorprendenti alla prova di realtà. Perché, a modo loro, sanno azzardare e scompaginare. Nulla a che vedere con la maschera rassegnata di Fantozzi.  
E a proposito di irregolari anonimi alla Walter Vismara Zamora, è indimenticabile il Giacinto Mortola de “La Lunga”, romanzo uscito nel 2007. Lì a essere sorprendentemente fuori registro è la sua umanità minima, normale al punto giusto. La trasgressione di Mortola è proprio in quella nebbiosa normalità. Il romanzo ha il sapore dei film americani di un tempo andato. Dei capolavori di Frank Capra. Avete presente “La vita è meravigliosa”?  La lunga, in gergo giornalistico, è il turno notturno a cui è costretto il giornalista in caso di sopraggiunta notizia che costringe a rivedere e a ribattere la pagina. Mortola è un giornalista al “Corriere Della Sera”, per nulla stimato dal suo capo delle pagine sportive. Anche vessato. Ma ecco l’imprevisto che Mortola coglie e tramuta in occasione. E così manda a gambe all’aria il metodo della sopraffazione, che è sempre umiliante, esercitato dal suo superiore. Anche in questo romanzo la storia ha molto a che fare con il calcio. Con un giocatore che non è un granché, un umile pedatore che, però, quella volta lì si prende il centro della scena. E in questo libro con l’amore per il pallone c’è l’amore per lei, sua moglie. Che c’è sempre. A proposito di trasgressione. In “La lunga” è come se Perrone avesse inteso fare le prove generali per i due romanzi seguenti: che storie d’amore fatte e finite. Per ricominciare…

Amori perduti e ritrovati

 “Averti trovato Ora” (maggio 2008) e la Ballata dell’amore salato (ottobre 2009) – questo sarebbe stato un titolo perfetto per una canzone del suo amato De André – sono storie d’amore accidentate. Passionali, fortemente volute, irriducibili. Che fanno male e anche bene. Proprio perché Perrone non bara con la vita. Non si aggrappa ai moralismi e alle belle facciate per far tornare i conti.
In “Averti Trovato Ora” ci sono Anna e Marco (qui è Lucio Dalla che fa capolino). A Milano. Lei professoressa di Storia dell’Arte, sposata con figli e impegnata seriamente in attività di volontariato; lui è un campione affermato di una delle due squadre della città. Eccola la storia d’amore che ha tutti gli ingredienti per essere sbagliata. Tuttavia, in quell’incidente di percorso avviene un cambiamento di prospettiva, un risveglio umano, una scoperta che stupisce e ferisce. Trovarsi per perdersi per ritrovarsi. E poi… discese ardite e risalite.
Ne “La ballata dell’amore salato” si annusano Genova, Rapallo, la salita del Bracco. I corzetti al tocco di carne. C’è il Genoa, fortissimamente il Genoa e, in particolare, un derby quando nella Samp giocano Vialli e Mancini. C’è Girolamo Moccia, il protagonista. E c’è Giulia, sua moglie. Così diversi, anche per censo. Però l’amore e l’amore. Lei di famiglia che ha molti denari, lui venuto su alla nave scuola redenzione Garaventa, quella pensata per formare i cosiddetti ragazzi difficili; che poi nella vita ha sempre fatto il pichettino, quello che pulisce le caldaie delle grandi navi quando arrivano in porto a Genova.
Lui è un comunista antico, dunque ormai atipico. Ostico, ruvido, generoso, dal cuore grande. Un Peppone rivierasco. Un omone a suo modo carismatico, in sezione benvoluto da quelli come lui. Girolamo non sopporta i comunisti ricchi come i preti che si distraggono troppo dalla loro missione semplice ma fondamentale. Dice che i preti hanno un mestiere preciso e molto importanti da portare avanti, che facessero quello!
Il figlio è molto di sinistra, a Genova è un extraparlamentare. Poi andrà a fare il manager a Milano. Commoventi le pagine che descrivono i funerali dell’operaio comunista Guido Rossa assassinato dalle Brigate Rosse perché ha denunciato la presenza in fabbrica di soggetti brigatisti. E quelle dell’abbrivio della storia d’amore fra il picchettino e la bellissima giovane donna.
Ma c’è un tradimento che lo fa stare male. Il tradimento che il comunista Girolamo non si aspetta. Ma c’è la sorpresa finale. Perrone proprio non riesce a essere cinico fino in fondo. Perché non è quello che gli interessa. L’umano non è solo una discarica di macerie.

Canessa e Toscano: la passione sincera per la giustizia 

E veniamo ai noir. E ai due personaggi che Perrone butta lì per catturarci. Il primo, in ordine di tempo, è Annibale Canessa ex carabiniere. È stato nell’Arma ai tempi degli anni di piombo. Ritorna all’azione dopo che suo fratello viene assassinato lui che nel frattempo ha aperto con la zia un ristorante a San Fruttuoso. Ne “La seconda vita di Annibale Canessa” ci sono atmosfere acide: il presente come la stagione di mani pulite. C’è la passione per la giustizia così come il sano realismo che schiva qualsiasi idolatria. Canessa a Milano scopre un brutto mondo. Violenza, corruzione, poteri. In una parola: il male. E Canessa fa il suo per arrivare a dama. Ma quanto sangue, quanti cazzotti, quanto schifo.  
Con “Un odore di Toscano”, Perrone lancia un un nuovo personaggio: Attilio Toscano.
È uno sbirro un po’ così, con il cuore segnato. Si porta dentro amarezze profonde e anche altro. Viene a Milano con la fama di essere uno proprio in gamba; deve sostituire un collega ucciso in circostanze inquietanti. E scoprine i colpevoli. Ama le moto, le donne, il cibo. E il toscano, rigorosamente la produzione chiamata del Presidente. La storia ha tutti degli ingredienti che richiede il genere noir. Perrone li utilizza innervandoli delle proprie passioni. C’è durezza, c’è tenerezza, c’è illusione, c’è risveglio, c’è indagine, anche esistenziale. E ci sono i dettagli (nei dettagli si annida il diavolo; lui per combatterlo li punta, li presidia, li mastica) e un buon investigatore non può mancare l’appuntamento con i dettagli.
Ci sono gli ignobili e i nobili di cuore. C’è la cucina eccellente, la collatura di alici di Cetara che non ha eguali sopra gli spaghetti. E ci sono le femmine, bellissime, sensualissime e misteriose come nella migliore tradizione del filone. Con Perrone siamo nel cuore della tradizione del giallo d’azione americano ma anche di Scerbanenco, piuttosto che delle produzioni alla Ellery Queen, Conan Doyle, Agatha Christie. Più pugni alla bocca dello stomaco che the delle cinque. Più sudore, asfalto, sangue liquido e rappreso che soluzione del caso nel calduccio di una stanza ben arredata.

Roberto Perrone e Luigi Amicone

Volti che generano incontri

L’ultimo romanzo, “La vita che non voglio” è uscito postumo, è quasi una benedizione. Un dono: uno squarcio di luce. Qui divampa l’amicizia, l’inaspettato che fiorisce, i volti che sono volti, che sono speranza, che sono una bella riscoperta di senso.
L’amicizia è tra due persone ciascuna con i propri travagli. Lei è Lena una giovane e brava giornalista di famiglia borghese. Lui è padre Patrick Kessler, un monsignore, studioso di reliquie e in particolare del volto di Cristo. Ha scritto approfonditi saggi sulla reliquia custodita a Manoppello, Abruzzo, provincia di Pescara, che presenta analogie con la Sacra Sindone. Il papa lo ha reso vescovo e mandato a Magonza.
I due, per vicende che si scoprono alla lettura, si incontrano a Trapani, nella grande e accogliente casa di una comune amica. Ma quando la padrona di casa viene ricoverata per un’appendicite finita in peritonite, quelle due persone così diverse in tutto accettano di condividere lo stesso tetto. Lui anziano, lei giovane. Lui prete, lei brillante donna carriera. Iniziano a conoscersi raccontandosi.
E così vengono fuori i propri dolori, i motivi che li hanno portati fin lì, il desiderio, non detto, di riprendere confidenza con il presente e il futuro. Nel dirsi con sincerità e franchezza conoscono un po’ di più la verità di sé stessi
In questa storia Perrone è come se offrisse una chance più esplicita alla speranza. All’incontro non come categoria ma come fatto che cambia la vita. Incontro che sono quei volti. Che è il volto di Manoppello che in modo singolare si fa vita, in questa vita, in quelle vite precise, come a dire che i volti non sono mai maschere.
“La vita che non voglio” è una dichiarazione d’amore alla vita che voglio. Alla vita che voglio che viene fuori con domande che muovono, scuotono, aprono a qualcosa di gustoso. Ed è così che si compie quel Perrone colloca in esergo. Parole di una canzone di Ligabue: “Quando tira un po’ di vento che ci si rialza un po’ e la vita è un po’ più forte del tuo dirle ‘grazie no’. Quando sembra tutto fermo la tua ruota girerà. Sopra il giorno di dolore che uno ha”.
Ecco, i volti che generano incontri. È la vita che bussa e vince la tua resistenza. Il tuo tentativo di fuga. Nei modi e nelle circostanze più diverse. Nel fare i conti, senza seguire ingannevoli scorciatoie, con il giorno di dolore che uno ha. Perché la vita è una faccenda di volti. La vita non è un ballo mascherato.
Grazie, Roberto.