Leopardi tra dubbio e domanda: profezia dell’infinito inquieto dell’uomo moderno
Riprendiamoci l’attimo
La vita è l’unica cosa vera. L’unico spazio per fare il bene. Per vivere il presente. Ma un presente dinamico, non statico. Un’esperienza fertile e non una trappola. Dove poter rintracciare la felicità che la drammaticità entro la quale siamo immersi non può eliminare. Riprendere confidenza con il poeta di Recanati è l’occasione per ridare centralità alle domande fondamentali circa la nostra natura e dunque il significato autentico della vita.
21 aprile 2023
di Mario Elisei
Ho avuto modo di dialogare recentemente con alcuni giovani amici universitari, se sia più conveniente, nella vita, avere dubbi o domande. Parliamo spesso di Leopardi nei nostri incontri organizzati dal Centro Culturale Giacomo Leopardi di Recanati e il presente scritto riassume la nostra indagine, l’indagine su noi stessi.
L’adesso è e non è più
Se qualcosa vive, vive solo nel presente. I fatti, le circostanze, quelle belle e quelle brutte, e io stesso, sono solo “ora”. La percezione di vivere in un eterno presente, la sensazione di essere, per così dire, bloccati nel contingente è però l’opposto della struttura dinamica che genera un presente fertile e ricco, in cui poter rintracciare la felicità.
Un presente statico è una sorta di contraddizione, di trappola da cui il movimento necessario alla vita e alla conquista della felicità non può scaturire. Nonostante il momento che stiamo vivendo sia così drammatico se non tragico, carico di conflitto, solitudine e apparenza, la riscossa non può che venire che da una ripresa dell’attimo – questa specie di compromesso tra il tempo e l’eternità – in cui viviamo. La vita è l’unica cosa vera, spazio per fare il bene, contro la rassegnazione e il male; su questo non possiamo avere dubbi.
Orazio nella sua Ode più famosa afferma che dum loquimur fugerit invida aetas, così, mentre parliamo, l’istante sarà già fuggito; il battere le mani ascoltato è già passato.
Possono dunque sorgere dubbi sul reale delle cose, sull’adesso, tanto sembra effimero. L’adesso è e non è più. Questa dinamica è quella che sottende al pensiero che Leopardi scrisse nel settembre del 1821 nello Zibaldone e che introduce il suo sistema filosofo improntato allo scetticismo: «Il mio sistema introduce non solo uno Scetticismo ragionato e dimostrato, ma tale che, secondo il mio sistema, la ragione umana per qualsivoglia progresso possibile, non potrà mai spogliarsi di questo scetticismo; anzi esso contiene il vero, e si dimostra che la nostra ragione, non può assolutamente trovare il vero se non dubitando; ch’ella si allontana dal vero ogni volta che giudica con certezza; e che non solo il dubbio giova a scoprire il vero (secondo il principio di Cartesio ec. v. Dutens, par.1. c.2. §.10.), ma il vero consiste essenzialmente nel dubbio, e chi dubita, sa, e sa il più che si possa sapere».
I ragionamenti relativi al dubbio sono molto sporadici nello Zibaldone anche se, a varie riprese, il poeta si dichiari devoto della filosofia scettica.
Noi speriamo sempre
Occorre dire che il dubbio non è la cifra di Leopardi, il quale è più convinto del certo che del dubbio. È certo che non esistono le idee innate e neanche Dio: «Nessuna cognizione o idea ci deriva da un principio anteriore all’esperienza. Quindi è chiaro che la distruzione delle idee innate distrugge il principio della bontà, bellezza, perfezione assoluta… Vale a dire di una perfezione la quale abbia un fondamento, una ragione anteriore alla esistenza dei soggetti che la contengono… e quindi tutto non è buono, bello, vero, cattivo, brutto, falso, se non relativamente… Insomma il principio delle cose, e di Dio stesso, è il nulla. (Zibaldone 17-18 luglio 1821). È certo anche che Tutto è male, cioè, tutto quello che è è male; che ciascuna cosa esista è un male… (Zibaldone 22 aprile 1826).
Ma è anche certo che siccome vive, spera: Io vivo, dunque io spero, è un sillogismo giustissimo, eccetto quando la vita non si sente, come nel sonno…Noi speriamo sempre e in ciascun momento della nostra vita». (Zibaldone 18 ottobre 1825).
Il dubbio non è dunque lo specifico di Leopardi che anzi si convince di certezze incrollabili – spesso come abbiamo visto non positive – sulle quali poi ritorna e che a volte emenda. Non c’è nulla di scandaloso in questo ed anzi la sua umanità così fragile ce lo rende amico.
A riguardo torna in mente l’esempio della felicità impossibile. Leopardi costruisce un sistema filosofico abbastanza ordinato intorno al tema della felicità che chiama Teoria del piacere e nel quale afferma che il desiderio della felicità è l’unico innato e che l’uomo è certamente fatto per la felicità ma non ha i mezzi per ottenerla: «La cagione, dico, si è che il mezzo o i mezzi di ottener questo fine [la felicità], che niuno ha mai ottenuto, non esistono al mondo» (Zibaldone 28 novembre 1826).
Ma poi si innamora e il giudizio, anche se per un breve frangente di tempo, cambia. Così nel Consalvo ribalta l’ipotesi e scrive: «Lice, lice al mortal, non è già sogno/Come stimai gran tempo, ahi lice in terra/provar felicità. Ciò seppi il giorno/Che fiso io ti mirai». È lecito è lecito provare felicità.
Era necessaria, dunque, una donna e l’evento imprevisto dell’innamoramento. Un fatto e non un pensiero. Il dubbio, dal latino dubius, incerto fra due, si infrange di fronte ad una “attrattiva potente”.
È questa “attrattiva potente” che fa virare il dubbio in domanda. Lo specifico leopardiano è infatti la domanda. Domanda di cosa? Di stare, di essere, di esistere, di senso. Questa dinamica è presente in modo sistematico nei “Canti” e significativamente, anche se in modo non sistematico, nelle “Operette morali”. La domanda è domanda di un uomo che vive nel presente, pena nel presente, desidera nel presente, e spera.
«Dunque, perché viviamo noi?»
È Leopardi-Tasso che, nell’operetta morale dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare, domanda: «Dunque, perché viviamo noi?». La domanda, sappiamo, è quasi sempre funzionale al poeta per sostenere la sua analisi nichilista ma – attenzione – nella poesia apre imprevedibilmente a finestre metafisiche. Nel Canto notturno, il pastore chiede alla luna: «Ed io che sono?». Ne Il passero solitario troviamo: «Che di quest’anni miei? che di me stesso?». Nel canto Ad un vincitore nel pallone Leopardi si domanda: «Nostra vita a che val?».
Nella più nota epistola Al conte Carlo Pepoli leggiamo nell’incipit: «Questo affannoso e travagliato sonno Che noi vita nomiam, come sopporti, Pepoli mio? di che speranze il core Vai sostentando? in che pensieri, in quanto O gioconde o moleste opre dispensi L’ozio che ti lasciàr gli avi remoti, Grave retaggio e faticoso?».
Cioè, come si fa a vivere in questa condizione inoperosa, senza speranza di raggiungere la felicità? indimenticabili, infine, sono le domande in A Silvia sul dolore e sulla morte di una giovane vita portata via dalla malattia: «O natura, o natura, Perché non rendi poi Quel che prometti allor? perché di tanto Inganni i figli tuoi?».
Le domande di Leopardi sono domande all’essere, sono domande del cuore che nessun preconcetto nichilista può eliminare, quel preconcetto che riduce il presente al nulla. Non è forse ciò su cui ogni inquieto adolescente, in maniera più o meno consapevole, s’arrovella dagli albori della coscienza umana? E anche per noi adulti di questo secolo inquieto, queste domande sono così assurde? E allora perché permangono?