L’eredità come testamento e l’inizio di Zaccheo

Massimo Borghesi

Il titolo del Meeting rifiuta la leggenda, sostenuta ad arte dai poteri del mondo, di un eterno presente e rilancia l’idea (non reazionaria) dell’eredità come testamento.

“Notre héritage n’est précedé d’aucun testament”. La frase, un po’ enigmatica, dello scrittore e poeta francese René Char, si trova nella raccolta di aforismi Feuillets d’Hypnos pubblicati nel 1946 nella collana “Espoir” diretta da Albert Camus. Commentandola Hannah Arendt osserva come “elencando quel che sarà legittima proprietà dell’erede, il testamento lega beni passati ad un momento futuro. Senza testamento, o fuor di metafora, senza la tradizione (che opera una scelta e assegna un nome, tramanda e conserva, indica dove siano i tesori e quali ne sia il valore), il tempo manca di una continuità tramandata con un esplicito atto di volontà; e quindi, in termini umani, non c’è più né passato né futuro, ma soltanto la sempiterna evoluzione del mondo e il ciclo biologico delle creature viventi”.

Le considerazioni di Hannah Arendt, tratte da Tra passato e futuro,  ci aiutano a precisare il titolo del Meeting 2017: “Quello che tu erediti dai tuoi padri, riguadagnatelo, per possederlo” (Goethe). Un titolo profondamente attuale. Le generazioni nate negli ultimi trent’anni, dopo la caduta del muro di Berlino, hanno realizzato alla lettera la profezia del noto volume di Francis Fukuyama, The End of History. L’era della globalizzazione ha rappresentato, sul piano storico-politico-pedagogico, l’epoca della grande smemoratezza. La vita conficcata in un eterno presente, in una giovinezza imperitura, è apparso l’ideale di un mondo che, prima dell’apocalisse dell’11 settembre 2001 e della crisi finanziaria del 2007, si è illuso, e continua ancora ad illudersi, che l’esistenza sia una passeggiata senza fine, il Paradiso all’improvviso.

Il titolo del Meeting rifiuta la leggenda, sostenuta ad arte dai mercati e dai poteri del mondo, e rilancia l’idea (non reazionaria) dell’eredità come testamento. Non reazionaria perché, a fronte di un mondo senza radici e di una società senza legami, liquida, la tentazione è lo sguardo all’indietro, ai tempi in cui l’albero della vita appariva verde, alle esperienze della bella gioventù. Nessuna nostalgia può, tuttavia, risuscitare il passato. Ciò che era bello deve riaccadere in forma nuova per conservare la sua bellezza. Deve, come indica Agostino citato dalla Arendt, generare l’inizio di un inizio, combattere contro passato e futuro affinché la vita non appaia congelata dalla “bellezza che fu” o diventi leggera, fuggitiva, verso un futuro immaginario.

Il presente, come afferma Agostino nell’XI libro delle Confessioni, è l’unico tempo reale. Lo è, però, solo in quanto pieno della memoria del passato e gravido dell’attesa del futuro. I nostri giovani, oggi, non hanno né il senso del passato né la speranza (di vita, di lavoro, di famiglia, di figli, di impegno politico) nel futuro. Gli anziani, d’altra parte, sono i rami secchi che il mito dell’eterna gioventù non tollera. Odorano di fragilità e di morte e questa società, per cui Dio è fuori gioco, ne ha un segreto terrore. In tal modo, come papa Francesco ha detto in più occasioni, il nostro mondo taglia via le ali — gli anziani e i giovani —, il passato e il futuro. Rimane l’eterno presente di un’età media che, per quanto lunga, è sempre troppo breve.

Se questo è il contesto allora il messaggio del Meeting si chiarisce in tutto il suo significato. Un senso bene chiarito dalla lettera che il Papa ha fatto pervenire agli organizzatori attraverso la penna del cardinal Parolin. “Quello che tu erediti dai tuoi padri, riguadagnatelo, per possederlo. È un invito a riappropriarci delle nostre origini dal di dentro di una storia personale. Per troppo tempo si è pensato che l’eredità dei nostri padri sarebbe rimasta con noi come un tesoro che bastava custodire per mantenerne accesa la fiamma. Non è stato così: quel fuoco che ardeva nel petto di coloro che ci hanno preceduto si è via via affievolito”. Questa constatazione, che ricorda i giudizi di don Giussani sul tramonto della cristianità sul finire degli anni 60 e si oppone ad ogni vuoto progressismo, non è però accompagnata da un senso di sconfitta, da uno spirito polemico, da un desiderio di rivincita nei confronti di un mondo che appare sordo e chiuso rispetto ai valori “tradizionali”. Dal punto di vista cristiano la ripresa della tradizione, del Testamento Nuovo, passa attraverso un’attualità presente. La “memoria” della fede è memoria di Cristo, di un incontro passato con Cristo che richiede di essere rinnovato nel presente. “Dio non è un ricordo, ma una presenza, da accogliere sempre di nuovo, come l’amato per la persona che ama”. Per il Papa “c’è una sola strada: attualizzare gli inizi, il ‘primo Amore’, che non è un discorso o un pensiero astratto, ma una Persona. La memoria grata di questo inizio assicura lo slancio necessario per affrontare le sfide sempre nuove che esigono risposte altrettanto nuove, rimanendo sempre aperti alle sorprese dello Spirito che soffia dove vuole”.

L’invito di Francesco è chiaro. Esso si oppone, consapevolmente, alla strana malattia che sembra aver pervaso parte del mondo cattolico, una sorta di frustrazione per la quale rancore, diffidenza, litigiosità, malumore, pessimismo, diventano fattori dominanti. Al cattolico progressista è subentrato il seguace di Carl Schmitt per il quale non c’è religione se non c’è nemico, non c’è teologia che non sia teologia-politica. Ciò che è venuta meno è la gratitudine per qualcosa di accaduto. Al contrario prevale la nostalgia per ciò che si è perduto e, di conseguenza, il risentimento verso il presente. Il passato può essere ripreso solo se è rinnovato in un incontro nuovo. “Come arriva a noi — si chiede il Papa attraverso mons. Parolin — la grande tradizione della fede? Come l’amore di Gesù ci raggiunge oggi? Attraverso la vita della Chiesa, attraverso una moltitudine di testimoni che da duemila anni rinnovano l’annuncio dell’avvenimento del Dio-con-noi e ci consentono di rivivere l’esperienza dell’inizio, come fu per i primi che Lo incontrarono. Anche per noi ‘la Galilea è il luogo della prima chiamata, dove tutto era iniziato!, e per questo bisogna ‘tornare lì, a quel punto incandescente in cui la Grazia di Dio mi ha toccato all’inizio del cammino. […], quando Gesù è passato sulla mia strada, mi ha guardato con misericordia, mi ha chiesto di seguirlo; […] recuperare la memoria di quel momento in cui i suoi occhi si sono incrociati con i miei’ (Francesco, Omelia nella Veglia Pasquale, 19 aprile 2014)”.

L’inizio, ovvero la possibilità di un presente cristiano, sta nel ripetere in forma nuova l’esperienza degli inizi, nel ritorno alle strade polverose della Galilea, nella memoria di uno “sguardo”. “La fede — recitava don Giussani con una bellissima definizione — è una presenza nello sguardo”. “Quello sguardo — commenta ora il Papa — sempre ci precede, come ci ricorda sant’Agostino parlando di Zaccheo: ‘Fu guardato e allora vide’ (Discorso 174, 4.4). Non dobbiamo mai dimenticare questo inizio. Ecco ciò che abbiamo ereditato, il tesoro prezioso che dobbiamo riscoprire ogni giorno, se vogliamo che sia nostro”.

La citazione di Agostino è tratta da un volume su sant’Agostino di don Giacomo Tantardini di cui Bergoglio, da cardinale, scrisse una prefazione. In essa il futuro Papa scriveva: “Zaccheo è piccolo, e vuole vedere il Signore che passa, e allora si arrampica sul sicomoro. Racconta Agostino: ‘Et vidit Dominus ipsum Zacchaeum. Visus est, et vidit / E il Signore guardò proprio Zaccheo. Zaccheo fu guardato, e allora vide’. Colpisce, questo triplice vedere: quello di Zaccheo, quello di Gesù e poi ancora quello di Zaccheo, dopo essere stato guardato dal Signore. ‘Lo avrebbe visto passare anche se Gesù non avesse alzato gli occhi’, commenta don Giacomo, ‘ma non sarebbe stato un incontro. Avrebbe magari soddisfatto quel minimo di curiosità buona per cui era salito sull’albero, ma non sarebbe stato un incontro’. Qui sta il punto: alcuni credono che la fede e la salvezza vengano col nostro sforzo di guardare, di cercare il Signore. Invece è il contrario: tu sei salvo quando il Signore ti cerca, quando Lui ti guarda e tu ti lasci guardare e cercare. Il Signore ti cerca per primo. E quando tu Lo trovi, capisci che Lui stava là guardandoti, ti aspettava Lui, per primo. Ecco la salvezza: Lui ti ama prima. E tu ti lasci amare. La salvezza è proprio questo incontro dove Lui opera per primo. Se non si dà questo incontro, non siamo salvi. Possiamo fare discorsi sulla salvezza. Inventare sistemi teologici rassicuranti, che trasformano Dio in un notaio e il suo amore gratuito in un atto dovuto a cui Lui sarebbe costretto dalla sua natura. Ma non entriamo mai nel popolo di Dio. Invece, quando guardi il Signore e ti accorgi con gratitudine che Lo guardi perché Lui ti sta guardando, vanno via tutti i pregiudizi intellettuali, quell’elitismo dello spirito che è proprio di intellettuali senza talento ed è eticismo senza bontà”.

Con ciò si chiarisce la risposta che il Papa offre al titolo del Meeting: il presente può riattualizzare il passato e aprirsi al futuro solo se si nutre dello sguardo di Cristo, dello sguardo di coloro per cui la fede è una presenza nello sguardo. Per questa Presenza il vero-bello-buono che i nostri padri ci hanno consegnato consente di vedere, in modo nuovo, il vero-bello-buono che, nonostante tutto, alberga nel mondo presente.