L’ex ambasciatore italiano in Russia: costruire la pace è ancora possibile

“La diplomazia è pazienza, ascolto, costruzione lenta. Ed è anche cultura, apertura, capacità di guardare oltre la contingenza. Per questo insisto sul ruolo della società civile, delle università, degli scambi culturali come fattori di diplomazia e dialogo”. Parla il diplomatico Giorgio Starace, in libreria con La pace difficile. Diari di un Ambasciatore a Mosca (Mauro Pagliai Editore). Un uomo che ha concluso la sua esperienza nella Russia di Putin a fine dicembre 2023 nel pieno del dramma di una guerra che sta segnando la recente storia euroasiatica


20 giugno 2025
Diplomazia in campo
Conversazione con Giorgio Starace a cura di Marco Dotti

Starace

Dulce bellum inexpertis, scriveva Erasmo da Rotterdam. La guerra appare dolce solo a chi non la conosce. Mai come oggi assistiamo al moltiplicarsi di schiere di devoti — ingenui e inesperti — a presunte arti della guerra. Ma la pace, se vuole essere tale, non può essere consegnata né a loro, né a chi la riduce a una semplice cessazione delle ostilità o a un ritorno a un indistinto e fragile status quo. Richiede visione, ascolto, attenzione. Richiede dialogo. E una volontà politica reale che non tema la complessità.

Nel suo libro La pace difficile. Diari di un Ambasciatore a Mosca (Mauro Pagliai Editore), Giorgio Starace ripercorre gli anni trascorsi come capo missione diplomatica in Russia, un’esperienza conclusa il 31 dicembre 2023, attraversando una delle fasi più complesse della recente storia euroasiatica. Il diario è l’occasione per una riflessione sulle occasioni mancate e sulle possibilità ancora aperte per una diplomazia capace di prevenire, contenere e, se necessario, ricucire un tessuto di pace, lacerato dalla guerra.

Tuttavia, come ricorda lo stesso Starace, la fine delle ostilità non può limitarsi alla cessazione delle operazioni belliche. È necessaria una strategia di lungo periodo che affronti temi spesso rimossi dal dibattito: la difesa dell’ambiente, l’emergenza terrorismo, le migrazioni, le sfide delle nuove tecnologie e dello spazio. Serve un multilateralismo efficace, in ambito politico ed economico, che non si limiti agli attori continentali ma coinvolga l’intero scacchiere internazionale. Un percorso difficile, ma obbligato: l’unica strada per assicurare un futuro al nostro Occidente.

Ambasciatore, il suo libro nasce da un’esperienza diplomatica diretta, sul campo. Qual è stata la molla iniziale per scriverlo?
Ho scritto questo libro durante il mio mandato come Ambasciatore d’Italia nella Federazione Russa, negli anni in cui si sono intensificate le tensioni tra Russia e Occidente, fino allo scoppio delle ostilità. Da quel punto in avanti, ho assistito in prima persona ai tentativi — spesso falliti — di aprire un dialogo, promuovere un negoziato, trovare una via d’uscita. In tutto questo processo, credo emerga chiaramente nel libro la frustrazione di un diplomatico che ha visto la diplomazia finire in freezer per tre anni. I tentativi esterni all’Europa non sono mancati, ma da parte europea — con poche eccezioni — non si è prodotta nessuna proposta concreta.

Quali sono queste eccezioni che ha ritenuto significative?
Ricordo il tentativo del Ministro Di Maio che, insieme al Segretario Generale delle Nazioni Unite, avanzò una proposta articolata in dieci punti. Fu un’iniziativa che ebbe attenzione anche da parte della stampa russa. Purtroppo, non ottenne alcun sostegno da parte del G7 e si arenò. Uno di quei dieci punti, ispirato allo spirito di Helsinki, mi stava particolarmente a cuore: suggeriva la costruzione di un nuovo sistema di sicurezza per il continente europeo. È lì, credo, che andrebbe ripreso il filo.

Nel libro parla spesso di una retorica della “pace giusta” come ostacolo. Cosa intende esattamente?
È una delle illusioni più dure a morire. Le “paci giuste” non sono mai esistite nella storia dell’uomo. La pace, quando arriva, è sempre il risultato di un compromesso, di uno scambio, di un equilibrio spesso instabile. Chi ha veramente a cuore il destino dell’Ucraina e della Russia sa che nessuna delle due popolazioni ha da guadagnare da una guerra che si protrae. Non basta una tregua fragile. Serve un negoziato, un percorso di compromesso che tenga conto di entrambe le parti. E questo richiede uno sforzo di realpolitik, non solo etica.

Serve quindi una nuova architettura della sicurezza europea?
Assolutamente sì. Alla base del conflitto attuale c’è un doppio vuoto di sicurezza: da una parte, l’Ucraina ha bisogno di garanzie precise per il suo futuro dopo un’aggressione di questa portata; dall’altra, la Russia vive l’allargamento verso est della NATO come una minaccia, non come una misura difensiva. Occorre allora immaginare una nuova geometria della sicurezza: accordi bilaterali, forme di associazione alla NATO, alleanze con attori regionali come Polonia e Regno Unito. Ma serve soprattutto un grande sforzo europeo per ripensare l’intero sistema di deterrenza e coesistenza nel continente. Forse, è tempo di un nuovo Helsinki.

L’incaricato d’affari Pietro Sferra Carini depone fiori sul memoriale del dissidente russo Boris Nemtsov, a Mosca, il 27 febbraio 2024 (foto dal profilo X dell’Ambasciata italia

Nel frattempo, il dialogo culturale si è incrinato. La cancel culture ha toccato anche Dostoevskij. Quanto pesa tutto questo?
Pesa moltissimo. Quando si arriva a sospendere concerti, a boicottare artisti russi o a considerare propaganda iniziative culturali, si entra in una spirale molto pericolosa. Io stesso, a Mosca, ho continuato a organizzare conferenze su temi europei, proprio per contrastare l’isolamento culturale. Perché privare i giovani russi della possibilità di conoscere altri punti di vista è un errore strategico. E su questo l’Italia si è distinta: ricordo l’intervento del Presidente Mattarella in occasione della prima alla Scala del Boris Godunov e, subito dopo, quello della Presidente Meloni. In quei gesti c’è stata una chiarezza che molti altri paesi non hanno avuto.

Lei ha definito la cultura un “fattore imprescindibile di dialogo e speranza”. Questo vale anche per la diplomazia?
Vale soprattutto per la diplomazia. Un ambasciatore non deve mai dimenticare che il suo compito non è solo rappresentare, ma anche tessere, unire, mediare. Quando ero a Mosca, la nostra ambasciata era un presidio culturale aperto alla società civile. Abbiamo continuato a concedere visti, a promuovere scambi, a tenere vivi i legami. Anche questo è un modo per costruire ponti. Ed è forse il compito più importante della diplomazia oggi.

In tempi di guerra, parlare di dialogo comporta anche esporsi a critiche. Come si gestisce questa pressione?
Con equilibrio e coerenza. Un ambasciatore non può farsi condizionare da titoli di giornale o da interrogazioni parlamentari dettate da logiche interne. Il suo dovere è cercare la pace. Non è un compito facile, ma è il nostro mestiere. L’Italia ha una tradizione diplomatica fondata sul dialogo. E questo patrimonio va difeso, anche quando il clima politico si fa ostile.

A suo avviso, ci sono state voci significative a livello internazionale in favore del negoziato?
Due, in particolare: Papa Francesco e il Presidente Trump. Il primo ha avuto il coraggio di denunciare gli errori della NATO e di chiedere un confronto diretto con la Russia, inviando persino il cardinale Zuppi a Mosca. Il secondo ha mandato un inviato speciale per tessere una tela negoziale. Al netto delle differenze e delle criticità, entrambi hanno affermato una cosa semplice e vera: per risolvere un conflitto bisogna parlare con entrambe le parti.

Quali prospettive intravede oggi, realisticamente, per una fine del conflitto?
La situazione è complessa. La Russia continua la guerra anche per inerzia, cercando vantaggi sul campo. In Occidente, l’Europa è ancora molto centrata su obiettivi interni, più che su proposte politiche strutturate. E intanto si rafforza una logica di riarmo che rischia di cristallizzare la tensione. Io credo invece che l’Europa debba razionalizzare le sue spese militari, non moltiplicarle. Mettendo insieme i bilanci della difesa dei paesi europei si supera di gran lunga quello russo. La forza è importante, ma deve sempre accompagnarsi alla capacità di negoziare.

In definitiva, la pace resta un obiettivo possibile… Difficile, ma possibile. La diplomazia esiste per queste missioni apparentemente “impossibili”. La diplomazia è pazienza, ascolto, costruzione lenta. Ed è anche cultura, apertura, capacità di guardare oltre la contingenza. Per questo insisto sul ruolo della società civile, delle università, degli scambi culturali come fattori di diplomazia e dialogo. Perché la pace, prima di essere una firma su un trattato, è uno spazio comune che si crea reciprocamente, una relazione che si mantiene, un dialogo che non si interrompe ma fluisce carsico sotto gli eventi.