L’intellighenzia artificiale
Cinquant’anni fa esce il romanzo di Elsa Morante “La Storia”. Un successo clamoroso per un libro bello che parla a tutti. È la rinascita del romanzo popolare. Che però finisce sotto il pesante attacco di certe élite intellettuali della sinistra dura e pura. E così i sostenitori, a parole, della cultura di popolo si impegnano a dileggiare quella realtà – che legge il libro della famosa scrittrice nata a Roma – definendola popolino. Un tic pericoloso che, beninteso non ha bisogno di garanti e tutori. Figlio di una malintesa concezione di cultura. Come ricorda Giovanni Testori. Una lezione di ieri che vale per l’oggi.
9 febbraio 2024
Editoriale
La messa in onda su Raiuno della miniserie “La Storia” (ora è disponibile sulla piattaforma Raiplay), tratta dal romanzo di Elsa Morante, invita a riflettere sull’acrimonia e la miopia ideologica di una certa elité intellettuale che ha inteso la critica letteraria e più in generale la cultura come una missione militante: la linea la dettiamo noi.
Cinquant’anni fa proprio il libro “La Storia” fu oggetto di strali, di attacchi ferocissimi. L’opera – un volume di 661 pagine – esce il 27 giugno 1974 per gli Struzzi di Einaudi a un prezzo di copertina assai contenuto proprio per volontà dell’autrice: 2.000 lire. In copertina una foto di Robert Capa dalla guerra civile spagnola: si vede un corpo riverso su un mucchio di rovine, l’immagine è virata in rosso.
Il successo di pubblico è immediato e notevolissimo: il primo mese vende 100.000 copie, al termine dell’anno saranno 800.000. E non ha mai smesso di vendere.
La compagna che sbaglia
Un romanzo importante, di qualità, che riesce a raggiungere un numero di persone assai vasto, anche chi non ha una frequentazione consolidata con i libri.
Tutto bene, insomma? L’intellighenzia di sinistra -che è cosa diversa dagli intellettuali e dagli intellettuali di sinistra (quelli di destra non pervenuti)- non ci sta.
Insorge contro la compagna che ha sbagliato, definita «patetica» che ha ceduto alle lusinghe del mercato. Che si è permessa di scrivere un romanzo popolare. Che non ha scritto un affresco per esaltare la prospettiva del sol dell’avvenire a un passo. Che, anziché servire la buona causa (la loro, ovvio), ha preferito far suo il desiderio di esprimere un’adesione sincera alla verità della realtà e alla compassione per gli ultimi.
La rabbia e il disprezzo
Domenica 4 febbraio 2024 sul “Corriere della Sera”, la scrittrice Dacia Maraini ha il merito di riassumere in poche righe il clima di allora: «Ricordo le critiche sprezzanti all’uscita di “La Storia”. Non capivo da cosa provenisse tanta rabbia e disprezzo. Soprattutto i critici dell’avanguardia si sono avventati contro di lei, chiamandola scrittrice per sartine, sentimentale, prevedibile, ottocentesca. Mi ha fatto pensare a Dickens quando ha pubblicato Oliver Twist, che fu un enorme successo popolare, e i critici letterari lo fecero a pezzi considerandolo uno scrittore sdolcinato e patetico. E invece oggi sappiamo che è uno dei capolavori della letteratura europea».
L’articolo più violento contro Elsa Morante viene pubblicato il 18 luglio 1974 sul quotidiano “Il Manifesto” con il titolo “Contro il romanzone della Morante”.
Si tratta di un intervento in forma di lettera che reca le firme di Nanni Balestrini, Elisabetta Rasy, Letizia Paolozzi e Umberto Silva. Sono nomi ricorrenti nell’ambito dell’intellighenzia di sinistra degli anni settanta: Balestrini è poeta neoavanguardista, romanziere e saggista politico; Elisabetta Rasy e Letizia Paolotti presidiano l’ortodossia rispettivamente per “Paese Sera” e “Rinascita”; Umberto Silva è commissario culturale del Partito Comunista Italiano.
I quattro provano a chiamare a raccolta anche l’intellettuale e poeta Franco Fortini. Lui, però, non condivide e si scansa. La lettura di quello scritto cruento è un documento assai significativo: «Di grandi scrittori reazionari corre voce che ce ne siano ancora, certo però non pensavamo che ci fosse ancora spazio per bamboleggianti nipotini di De Amicis». Elsa Morante, agente della reazione con il grave peccato di essere precipitata nella poetica deamicisiana.
Per quella assatanata combriccola “La Storia” è un vero incubo.
Morante si permette di abolire la distinzione fra letteratura alta e di consumo. Pagine per il popolo che diventa popolino. L’intellighenzia sempre schierata si comporta così. Non sopporta, proprio non ce la fa. Chi è fuori da quel cerchio mal gliene incorra. E tra costoro vi è chi dileggia senza aver letto per intero il libro, solo qualche paginetta e via. Natalia Ginzburg, invece, lo legge e parla di romanzo entusiasmante.
Carlo Bo sul “Corriere della Sera” ne motiva così il suo apprezzamento: «Ecco un libro che resterà e avrà un peso ben preciso non soltanto per chi lo ha scritto e meditato in lunghi anni di preparazione e di costruzione, ma anche e – si vorrebbe aggiungere, se non fosse presuntuoso – soprattutto per i suoi lettori che saranno molti e non lettori scelti, lettori-addetti ai lavori ma lettori comuni, suscettibili di accettare e sviluppare sentimenti e reazioni d’ordine politico in senso alto, meglio morali».
Anna Maria Ortese invia una lettera affettuosa, vera, a Elsa Morante: «Quando il libro è finito, resta il senso dell’epoca. Siamo un po’ cambiati. Della letteratura non ci ricordiamo, e questo è bene. Ma sì del dolore umano. E questo dolore, che è intramontabile, diviene l’ombra che va avanti, la musica funebre della gioia che finì, ma in eterno porrà quesiti alla ragione».
La totalità della cultura
Il caso “La Storia” appartiene ad altri tempi, si dirà. Il furore ideologico verso ciò che non corrisponde è morto e sepolto. I salotti buoni dell’intellighenzia sono evaporati. Non è così. Oggi è tutto più raffinato, le élite intellettuali agiscono a modo. Plastificate, artificiali. Eppur in servizio attivo. Per loro il popolo rimane il popolino. E così emerge una malintesa concezione di cultura. Quel che non è cultura.
Giovanni Testori, che tante intemperie ha attraversato, crede che la cultura è «la forma che prende e onora la conoscenza, la coscienza religiosa della vita in un determinato momento della storia» e avverte che «allora è cultura come uno vive, come dorme, come si muove, come pensa, come studia, come lavora; è cultura una madre, un padre, è cultura la famiglia, è cultura, soprattutto, la liturgia, ed è cultura l’operare in un giornale, i romanzi, la poesia, la pittura, dentro questa totalità; separata, io non credo sia più cultura».
“La Storia” ha vinto sulla critica militante che separa. L’intellighenzia non è intelligenza.