Mani pulite: ripartiamo dall’umano

La stagione di Mani Pulite e noi. La trappola distruttiva e autodistruttiva del puntare l’indice. Oggi in alcune riflessioni sui media si prende atto di errori e storture. Ecco perché si avverte l’urgenza di avviare un corso di recupero verso l’umano. Per ripartire.  

25 febbraio 2022

Una fotografia in bianco e nero: Bettino Craxi dietro le sbarre. Titolo: Pensiero stupendo. Così sulla prima pagina del giornale satirico Cuore. A distanza di trent’anni, Michele Serra, il giornalista che lo dirigeva, da anni firma di punta del quotidiano La Repubblica, quasi mai urticante al tran tran del politicamente corretto, ha detto in questi giorni che quel titolo non lo rifarebbe più. Diciamo un incidente di percorso nella stagione più buia di Mani Pulite. Quella in cui, en passant, vi furono 41 suicidi. E Francesco Merlo, anche lui autorevole opinionista del quotidiano fondato da Eugenio Scalfari, riflettendo su quelle lunghissime notti della repubblica, in risposta a una lettera sul tema giustizia e Tangentopoli, scrive così: «Mani Pulite svelò la corruzione politica ma non la risolse. E la si può vedere anche come una storia di eccessi: troppi reati, troppo carcere, troppa complicità tra i Pm e i giornalisti, troppi accanimenti». Conviene sottolineare un passaggio: troppa complicità tra i Pm e i giornalisti. E per precisare che l’espressione non gli è sfuggita di mano in un fremito di sincerità, rinforza il concetto due righe dopo: «(…) dolentemente ci portiamo dietro un finto giornalismo che ancora spaccia per scoop i verbali di questura».

Trent’anni dopo la data del 17 febbraio 1992, quando scattò l’operazione Mani Pulite con l’arresto di Mario Chiesa, è stata l’occasione per riversare fiumi d’inchiostro sui giornali. Questa volta non è andato in scena il solito rito della contrapposizione. Nessun tifo da stadio, per intenderci, tranne la curva del Fatto quotidiano. È come se le attuali deficienze della politica e l’evidenza di una democrazia febbricitante abbiano scosso intellettuali e commentatori. Come se, almeno in parte, avessero avvertito una propria responsabilità nel sostenere o anche solo assecondare quella slavina destinata a divenire valanga. Chiamati a ragionare su quegli anni, questa volta a prevalere sono stati giudizi scrostati dalla pratica della distorsione. Contenuti che hanno fatto emergere un qualcosa di diverso, come se l’umano fosse tornato a chiedere spazio. Nei pensieri che fanno di un uomo un uomo.

A chi allora, “in diretta”, poneva perlomeno interrogativi e segnalava il pericolo che ne sarebbe venuto dall’affermazione di quel vento giustizialista sottolineato da strepiti, monetine e girotondi è consigliabile che non ceda ora al battito di ciglia davanti a un certo ravvedimento registrato in questi giorni; o liquidi il tutto con un laconico “meglio tardi che mai”. Certo, l’aver detto cose diverse allora è stato un atto non banale. Non una semplice presa di posizione di segno contrario, ma un’adesione laica a non confondere il significato della giustizia con gli “ismi”; a non riversare tutte le colpe sulla politica in una qualche misura già claudicante. Piuttosto a guardare in faccia la realtà sorretti da una buona dose di realismo. Ma è proprio quel realismo che dovrebbe metterci in guardia dal ritenerci a posto (trent’anni fa come oggi), al riparo da atteggiamenti da tricoteuse del XXI secolo. Il corso di recupero verso l’umano non finisce mai; e, soprattutto, non è mai solo un problema che riguarda altri. Sentirsi assolti perché “ci avevamo visto bene” sarebbe la risposta meno appropriata all’incalzare della quotidianità. A Fabrizio De Andrè, giusto vent’anni prima di Mani Pulite, non era sfuggita la drammaticità del tarlo che lavora dentro ciascuno: «Anche se voi vi credete assolti siete per sempre coinvolti». Ecco l’acuto passaggio di un artista. La cultura è sempre un buon punto di partenza e ripartenza. Quando non svolazza staccandosi dalle domande che ci incollano al terreno. Quali espressioni autentiche dell’umano che vuole essere semplicemente umano. Non troppo umano. A trent’anni da quei fatti e misfatti conviene farci su un pensiero.  A pagine 323 del romanzo Signor Malausséne (Feltrinelli, ottobre 1995) di Daniel Pennac si legge: «Un errore giudiziario è sempre un capolavoro di coerenza». Lì il vero protagonista è il capro espiatorio. Teniamone conto quando ci prude il dito indice…


Immagini in articolo:

© Joel Meyerowitz

Manifestazione davanti al Palazzo di Giustizia di Milano

Cuore copertina ora legale

Il suicidio di Raul Gardini, Presidente di Montedison / Copertina de La Stampa

In galleria:

I pubblici ministeri Gherardo Colombo, Di Pietro e il GIP Piercamillo Davigo

Arringa di Antonio Di Pietro

Piacenza 1985 / © Giovanni Chiaramonte