Mario Giacomelli: “La fotografia è tutto, ti porta ad avvicinare di più la realtà”

In occasione del centenario della nascita del grande fotografo Mario Giacomelli torniamo alle sue preziose parole grazie a un’intervista ancora inedita realizzata da Lucia Massaccesi per il Centro Culturale di Milano, quando promosse la mostra LA STESSA TERRA Mario Giacomelli sulle tracce di Giacomo Leopardi , 60 vintage print dalle serie “A Silvia” e “L’Infinito” (per bicentenario della nascita del poeta recanatese). L’artista, nato a Senigallia, fu ospite con Giovanni Chiaramonte all’inaugurazione nell’allora sede di via Zebedia 2.
L’Archivio Mario Giacomelli in occasione del Centenario promuove due grandi mostre: “Mario Giacomelli. Il fotografo e il poeta” a Palazzo Reale di Milano (fino al 7 settembre 2025), e “Mario Giacomelli. Il fotografo e l’artista” a Palazzo Esposizioni di Roma (fino al 3 agosto 2025), a cura di Bartolomeo Pietromarchi e Katiuscia Biondi Giacomelli, diverse e complementari fra loro, uno sguardo completo e inedito sul grande Maestro della Fotografia, con il prezioso libro monografico di Silvana Editoriale, “Mario Giacomelli. Opere 1954-2000”, più di 800 immagini in oltre 400 pagine, tra fotografie iconiche, inediti e materiale documentario.


6 giugno 2025
Approdi
Conversazione con Mario Giacomelli a cura di Lucia Massacesi

Scanno, 1957, stampa alla gelatina ai sali d’argento, Courtesy Archivio Mario Giacomelli

L’uso che Giacomelli riesce a fare del mezzo fotografico ha sconvolto i nostri sguardi abitudinari. Le sue opere esposte al Museum of Modern Art di New York, al Victoria and Albert Museum e al Metropolitan Museum di Tokio sono il risultato di una ricerca molto personale che risale a un giorno di tanti anni fa. Insieme abbiamo cercato di ripercorrere alcuni momenti di questo lungo cammino.

Che tipo di realtà ricerca Mario Giacomelli attraverso la fotografia?
Ci sono i reporter, i fotografi di moda. Basilico fotografa case – ha studiato architettura -, io sono “bastardo”, faccio quello che sento.

Che legame la unisce al gruppo “Misa” (Senigallia 1953, un laboratorio privilegiato di formazione fotografica, ndr) e all’esperienza di Giuseppe Cavalli?
Un giorno, quasi per caso mi sono detto: se accompagno l’onda muovendo la macchina, forse la sabbia è in movimento e l’onda rimane ferma – un’esperienza magica per me. Se la macchina mi avesse restituito soltanto le immagini viste dall’occhio, l’avrei buttata via. Era stato come un tentativo, un gioco, poi mi sono accorto che quello che avevo pensato era avvenuto: c’era dunque dell’altro. È stato così che ho deciso di dedicarmi alla fotografia, e in fondo ci siamo scoperti a vicenda, la macchina e io. Credo che la vita sia fatta di esperienze come questa, anche se si finisce per non scoprire mai nulla di veramente nuovo, ed è forse qui il fascino maggiore.

A Silvia, 1964, stampa alla gelatina ai sali d’argento, Courtesy Archivio Mario Giacomelli

Ci sono stati dei momenti in cui fotografando ha sentito di aver colto qualcosa di veramente nuovo?
Tutto quello che è stato detto e scritto sul mio lavoro a volte mi sfugge e non lo comprendo: mi sembra altro rispetto a quello che io originariamente cercavo. Ma chi mi dice che il risultato finale non è diverso anche da quello che io stesso intendevo? Tutto nasce da un’interiorità profonda, a volte inconscia. Quello che Roland Barthes chiama “la veggenza del Fotografo nel trovarsi là? Accade qualcosa di difficile da spiegare. Quando leggo una bella poesia mi immedesimo, la faccio mia, e i versi diventano parte di quello che sto cercando – o meglio, di quello che trovo – “cercare” è un termine che non amo affatto, allontana da ciò che intendo. Perché non so neanch’io quello che sto cercando: quando lo vedo, so di averlo trovato. Quando trovo qualcosa cerco di capire perché provo emozione. Cerco di comprendere, ma questione di una frazione di secondo e aggiungo, metto dentro. Perché c’è sempre qualcosa che metto dentro. Non so, un incrocio di due alberelli, che magari creano una x e allora sento che lì c’è un segno – in fondo, la fotografia è un insieme di segni. Ma la figura umana in questo momento mi interessa meno. Sono più attratto a rendere vere figure false. Ad esempio, ho comprato degli oggetti: una testina di gomma, una maschera, un piccione un altro oggetto da poche lire. Ultimamente ne avevo trovato un altro, ma ora devo buttare via tutto perché ormai sono divenuto prigioniero di questi due o tre oggetti. Quella di chiudersi in sé stessi è una reazione al mondo esterno che delude, ma il rischio è quello di fossilizzarsi sempre più su un mondo proprio, con il rischio di ripetersi. Ora, quando finirà la stagione, sento la necessità di trovare altre strade che mi diano emozioni nuove. In realtà, da un’idea ne possono venire fuori altre, così per non riprendere i soliti pupazzetti di gomma, ora nella fotografia inserisco me stesso. Quindi la maschera cambia: non è più lei, ma sono io che recito la mia parte. E questo è in qualche modo collegato a un’idea che sempre mi accompagna, l’idea di fotografare pensando di raccontare: sì la poesia, ma anche una forma di rappresentazione teatrale.

Riprendendo l’idea di una rappresentazione, nella serie “Paesaggi” il suo interesse sembra appuntarsi su scene inanimate, prima che gli attori compiano la loro apparizione, avvenuta più tardi nella serie de “La buona terra”, “Scanno”…
La materia esercita su di me una suggestione molto forte. Vedo una scena poi la immagazzino. Se vedo un portone vecchio, ne vedo i segni con la luce radente, penso a quante volte è stato aperto, quante volte per andare a far l’amore, ma anche quante altre piangendo, e così nasce una storia. La materia comunica più di tante figure umane, così preferisco guardare questi pupini di gomma e vederli umani, dando vita a delle maschere. Ma se mi sono servito di loro, chi mi dice che questi oggetti non si siano serviti di me? Emergono significati nascosti, e allora viva la fotografia, viva la pazzia.

Abbiamo già accennato alla poesia, ma in che modo la poesia entra nel suo lavoro di fotografo?
Amo la fotografia, la pittura, la poesia, ma innanzitutto la poesia. Non avendo potuto studiare, non conosco Omero, i classici, tuttavia canti come gli spirituals sono un tipo di poesia che sento particolarmente congeniali. Ricordo i versi di un poeta che parla della madre lavandaia che ha smesso di lavorare e finalmente può lavare la sua sottoveste, ma non riesce a farlo, perché la morte la coglie prima. Ogni volta che leggo quei versi provo una commozione intensa, perché li sento profondamente veri. Penso allora a chi fotografa con la macchina ultimo tipo e a quanto siamo diversi: a me l’aspetto tecnico della fotografia non interessa. Penso che per imparare devi essere come in tutte le cose povero, bambino, ingenuo. Così, riguardo alla tecnica, ci vuole ben poco: tutto può essere fotografato, dipende soltanto da come lo fai. E verrà come tu lo ami, come tu lo senti.

I volti dell’ospizio e di Scanno: due realtà che lei ha amato e sentito molto?
Per un anno sono andato all’ospizio senza macchina fotografica. Ricordo il corridoio pieno, tutte quelle mani appoggiate sulle ginocchia. Appena entrato ho pensato: con il flash vengono tutte queste mani bianche. Ma non avevo capito ancora niente, cosa volevano dire le mani? Nell’ospizio c’è ben altro. Un anno sono andato per ambientarmi – l’ospizio mi ha insegnato tanto -, così come i pretini, la terra, che forse mi ha insegnato più degli uomini: tutto insegna.

Parlando del suo rapporto con la città dove è nato e dove vive tuttora: è giusto parlare della solitudine dell’artista?
A me piace star solo, sono schivo di natura. Mi considerano ombroso, difficile da avvicinare, eppure credo di essere una persona molto semplice. Dico sempre: prova a fare un giro attorno alla tua casa e ti accorgerai quante angolazioni nuove puoi scoprire anche là. Senza sapere bene dove, prendo la macchina e guardo, perché le cose ci sono tutte, ma dove sono, come sai dove le devi trovare? Guardo, e giro in una certa direzione se sento che vi è più portata. Non è necessario viaggiare lontano dalla propria terra.

L’approdo, 1952, stampa alla gelatina ai sali d’argento, Courtesy Archivio Mario Giacomelli

La scelta di non utilizzare il colore è in qualche modo collegata al suo modo di leggere la realtà come puro segno?
Ho pensato al colore, ma mi sono detto: “nel bianco e nero c’è più colore che nel colore”. Nel colore è bravo chi stampa. Nelle mie stampe io amo pastrocchiare. Ad esempio: nel ritratto di un gruppo di persone faccio passare un cartoncino col buco sulla persona che mi ha colpito di più perché meno scontata, poi quando stampo rendo tutte le figure più scure e muovo un ferretto con un pezzettino d’ovatta sul viso di quella che mi interessa, in modo che la luce è diversa e quel volto risulterà più chiaro: l’occhio di chi guarderà la fotografia andrà dunque dritto dove voglio io. Penso a Scanno: un paese di favola. La luce era bellissima, accecante. Un critico molto noto obiettò: “non si capisce dove poggiano i piedi”. Avrei voluto rispondere: “dove poggiano i piedi i due fidanzatini nel quadro di Chagall?”. Ricordo che camminavo per la via principale di Scanno e mentre stavo per fotografare ho sentito che qualcosa da dietro mi stava spingendo: mi sono girato ed era una mucca che col muso m’aveva bagnato la schiena. Era evidente che doveva passare esattamente in quel punto della strada! Se ecco, tu vai in un posto così, dove scendi dalla vecchia macchina che ti va giù in discesa senza freno a mano, con le galline che ti razzolano tra i piedi, le mucche in mezzo a donne, vecchi e bambini, che importanza vuoi che abbia dove poggiano i piedi, gli oggetti o le case? Io stavo vivendo un momento magico in quella esplosione di luce: la luce l’avevo dentro, la sentivo dappertutto. In quella occasione l’accoglienza della critica non fu benevola – al punto che certe mostre non accettarono nemmeno le foto. Oggi credo che sia sbagliato prestare troppo ascolto ai giudizi altrui, e quando qualche mio lavoro non viene accolto positivamente non mi interessa troppo – e ciò a rischio di apparire presuntuoso: perché sono sempre rimasto fedele a quello che sentivo più vicino, e quando capisco che qualcosa non va, non esito a buttare via tutto il lavoro ed eliminare il negativo stesso.

Mentre Senigallia entra nelle sue fotografie attraverso le angolazioni molto particolari dell’ospizio, il seminario, la campagna circostante, Lourdes viene osservata dall’alto…
L’ospizio era così da star male, faceva parte delle mie preoccupazioni di quel momento, mi metteva paura, rappresentava quello che la vita può serbarci. Un tempo infatti credevo che crescere significasse imparare a vivere e a essere felici, maturando invece, mi sono reso conto che alla fine dei tuoi giorni puoi ritrovarti in un ospizio: tutto il contrario. Se la vecchiaia è così triste e spaventosa, come sarebbe stato a Lourdes? Così sono stato attratto da quel luogo, ma non ci sarei mai potuto andare se non avessi ricevuto un notevole contributo economico da uno dei più bravi direttori di riviste di fotografia di allora, il direttore di Camera. Andai e feci le foto dall’alto. Guardavo giù e vedevo un mare di dolore, eppure non avevo ancora compreso del tutto. Poi mi avvicinai di più e sentii delle urla disumane e all’improvviso vidi un ragazzo con le gambe incrociate accanto ai genitori e a due infermieri che spingevano la carrozzella. Quel giovane era segnato per tutta la vita. Ho provato un senso di angoscia più forte di quando avevo fotografato l’ospizio, e ho perso il coraggio di continuare: non sono stato un bravo fotografo, ho restituito il denaro e non ho più completato il lavoro. Le poche foto scattate allora sono tutte da lontano. In seguito sono tornato a Lourdes con la mia famiglia. Questa volta, sebbene poco, ho fotografato: mi sentivo umanamente più coinvolto, uno come tanti altri. Ricordo una scena molto toccante, (la fotografia insegna, e forse il risultato finale è molto meno importante di tutto quello che impari attraverso la fotografia). Una bambina con cinque persone attorno, due in borghese e tre vestite di bianco: la piccola provava a mordere le persone, e queste, quando non ne potevano più, la lasciavano. Al momento non pensavo a nulla, poi mi sono fermato, ho appoggiato la macchina sul muretto e ho guardato. Prima l’ho vista da lontano, poi più da vicino, doveva aver qualcosa – i morsi velenosi, non so – in compagnia di alcuni infermieri e dottori, qualcuno sarà stato il padre o la madre: io stavo lì e guardavo, e senza piangere le lacrime mi scendevano. Tutto questo mi ha insegnato molto. Credo che il miracolo ci sia, e sia quello di vivere tutti i giorni, è la speranza – non ci avevo mai pensato, il miracolo è continuo. Ricordo anche una giovane bellissima, il suo volto come di cera. Hanno chiesto il massimo silenzio e lei è spirata mentre la trasportavano da un lettino ad un altro. Credo di aver visto il miracolo della speranza. Ho sempre creduto che esiste qualcosa. Credere per me è una grande forza. Penso di credere a modo mio. Abbiamo parlato di tutto questa sera, perché bisogna parlare di tutto; la fotografia è tutto, ti porta ad avvicinare di più la realtà.

Ritratti, Mia madre, 1955, stampa alla gelatina ai sali d’argento, Courtesy Archivio Mario Giacomelli

Un’ultima domanda sulla serie “Il teatro della neve” dedicata alla poesia di Francesco Permunian: che ricordi ha di quella esperienza?
Il poeta Permunian ha perso la moglie e la figlia in circostanze drammatiche. Nelle sue poesie affronta il problema del male. Ho raccontato la sua poesia perché la sentivo molto vicina: “Ho la testa pesante mamma”, recita un brano, e per raccontarlo ho adoperato una foto che avevo scattato a Lourdes, la presenza di una mano, e di dita che parlano di tutto il dolore. Pensandoci ora, mi accorgo di non aver mai scelto niente di leggero.
La luna è alta, ringrazio Mario Giacomelli per la lunga conversazione. Poco distante da qui si trova il mare di Senigallia, l’arenile raccontato ne L’approdo, la prima fotografia scattata quarantaquattro anni fa. Oggi come allora avvertiamo lo stesso movimento dei granelli di sabbia su onde immobili. “Le cose ci sono tutte, ma dove sono, come sai dove le devi trovare?”: forse già un indizio di risposta.