Mediterraneo allargato: diritto e prassi di David Santillana
Perché il Mediterraneo allargato è una categoria critica e strategica necessaria per rileggere e riattivare in modo virtuoso le relazioni tra l’Italia, l’Africa e l’Asia in questo tempo di profonde divisioni e di scomposizione e ricomposizione di blocchi contrapposti. Due iniziative italiane recenti, come il Piano Olivetti per la Cultura e il Piano Mattei per l’Africa ne rilanciano la rilevanza culturale e insieme politica. In gioco c’è il rilancio del significato autentico di cooperazione. Laddove il Mar Mediterraneo può per davvero essere il teatro di una rappresentazione relazionale. Nello spirito di una nuova koinè giuridica. La lezione “contemporanea” del giurista tunisino di origine sefardita
9 maggio 2025
Sponde giuridiche dialoganti
di Marco Dotti

Scriveva Fernand Braudel (storico francese degli Annales) che il Mediterraneo è sempre, da sempre «una successione di terre e di mari uniti da una comunanza di scambi politici, culturali e commerciali». A rendere visibile questa inesausta successione di mari nel Mare sono state, tra le altre, alcune figure di studiosi che, nel cuore del XX secolo, hanno operato sulle soglie dei sistemi normativi, restituendo profondità storica e complessità comparata al discorso giuridico. Tra questi, David Santillana occupa un posto centrale.
Ruolo da mediatore
Nato a Tunisi nel 1855 in una famiglia ebraica di origine sefardita, con legami culturali con Livorno e la Gran Bretagna, Santillana crebbe in un ambiente poliglotta. Studiò diritto a Londra, poi a Roma, dopo anni trascorsi tra la diplomazia e l’amministrazione. Avvocato a Firenze, consulente legale per il governo tunisino e tra il 1913 e il 1923, docente del primo corso di diritto musulmano all’Università di Roma, presso la facoltà di Giurisprudenza alla Sapienza. Ebbe anche un incarico all’Università del Cairo, dove insegnò storia della filosofia islamica ed ebbe Taha Husayn (figura importante del riformismo arabo-islamico) tra i suoi studenti. A Tunisi, Santillana partecipò alla codificazione del diritto civile e commerciale, operando una mediazione complessa tra diritto islamico e modelli giuridici europei. «Appena si penetra a fondo nelle questioni – scriveva – si resta sorpresi nel constatare quante strette analogie vi siano tra le idee dei grandi giuristi di Medina, di Kufa, di Cordova e le nostre».
Nel 1899, come membro della commissione per la codificazione delle leggi tunisine, Santillana pubblicò un poderoso Avant-projet – 860 pagine, 2479 articoli – che rappresenta uno dei tentativi più sistematici di costruire un ponte operativo tra i due sistemi.[1]

Figura solitaria e appartata, Santillana non cercò mai la notorietà accademica.
Solo l’insistenza del governo lo indusse ad accettare l’insegnamento a Roma, anche se un ordinariato gli venne rifiutato dall’allora ministro Croce, per questioni di forma (pare), ma senza che ne facesse polemica. Le Istituzioni di diritto musulmano malichita (1926) restano il suo testamento scientifico: un’opera monumentale, comparativa, redatta in italiano, che analizza la giurisprudenza islamica malikita e sciafiita con un rigore filologico raro.[2]
Accanto a lui, in alcune fasi del percorso, oltre al fondatore Scuola di lingue orientali della Sapienza Ignazio Guidi (con cui nel 1919, tradusse Il Muhtasar o Sommario del diritto malechita di Ḫalīl al-Ǧundī, Ibn-Isḥāq) vi fu Carlo Alfonso Nallino, orientalista e arabista di fama internazionale, con cui condivise l’impegno per la traduzione e lo studio dei testi giuridici arabi. Nallino operava prevalentemente in ambito filologico, Santillana era invece figura di giurista-arabista capace di muoversi tra codici e sistemi, senza mai forzare le categorie altrui. Entrambi contribuirono a fondare in Italia una tradizione di studi islamici che, oggi, permette di riconsiderare il Mediterraneo non solo come luogo di scontro, ma come laboratorio di coesistenza normativa. Nella voce dedicatagli dal Dizionario biografico degli italiani (vol. 90, 2017), Bruna Soravia ricorda come
«Dopo la conquista della Libia, e per influenza di Guidi e di Carlo Alfonso Nallino, l’opera di mediazione di Santillana fu soprattutto volta a fornire alla politica coloniale italiana strumenti scientifici di conoscenza e di governo. […] con Guidi, Nallino e Celestino Schiaparelli, patrocinò presso il governo la causa della fondazione di un istituto di studi orientali a Tripoli per la formazione del personale amministrativo e docente inviato nella colonia libica […]; nel 1914, e fino al 1917, formò, con gli stessi e con Leone Caetani, una commissione per lo studio delle questioni islamiche d’interesse coloniale».
Il legame con l’Italia
La scelta di affidarsi a Santillana da parte delle autorità italiane è facilmente comprensibile. Conosce sia il territorio inglese che quello nordafricano, il diritto inglese e quello italiano, parla arabo, francese, inglese e italiano. È riconosciuto per la sua competenza sulle questioni locali, ma anche come esperto di sistemi giuridici complessi. Ed è qui, osserva Florence Renucci, che «la storia intima incontra la storia internazionale». David Santillana segue un percorso aperto dai suoi predecessori. «Nell’Ottocento, a Tunisi – rimarca ancora Ranucci – la comunità degli ebrei “portoghesi” ha fatto dell’italiano la sua lingua d’uso, più dello spagnolo. Così come alcuni ebrei optarono per la Francia perché attratti dagli ideali rivoluzionari, altri scelsero l’Italia, allora in pieno Risorgimento. Per Santillana, questa stessa affinità intellettuale giocava un ruolo, ma riguardava il diritto romano piuttosto che il Risorgimento. L’affinità era anche di amicizia e di famiglia, in quanto Santillana era “legato” all’Italia dall’avvocato Odardo Maggiorani, uno dei suoi migliori amici, di cui in seguito sposò la figlia Emilia. Durante la sua carriera di interprete, avvocato e analista-diplomatico, Santillana si trovò all’interfaccia tra lingue, culture e diritti. Questa posizione divenne un principio guida nel suo lavoro di giurista di lingua araba.[3]
Giorgio Levi Della Vida, che lo conobbe a fondo, stilandone il necrologio sulla Rivista degli studi orientali (vol. 12, 1929-1930, pp. 453-461) scrisse di lui:
«Aveva dato, con erudizione islamica incomparabile per vastità e sicurezza, con perfetta conoscenza dei principi generali e della storia del diritto romano e medievale nonché della legislazione europea moderna, un progetto di codificazione […] nella quale una sistemazione che è sostanzialmente quella del diritto europeo è comparata, articolo per articolo, alle corrispondenti norme islamiche, rilevando a volta a volta le analogie e le differenze; suggerendo, piuttosto per riaccostamento di testi che per argomentazione diretta, le possibili derivazioni da norme di diritto romano; insinuando, con un’ermeneutica sottile ma non mai capziosa, che apparenti divergenze tra il diritto europeo e quello islamico sono dovute piuttosto a differenze di metodo che a un fondamentale di principi».

Questo approccio è la chiave per comprendere come oggi più che mai si renda necessaria una visione comparativa capace di operare su vis-à-vis non intesi unicamente in termini di somiglianze o differenze, ma propriamente riflessivi, cioè attivati da un gioco di rimandi tra un sistema e l’altro, in cui ciascuno si interroga attraverso l’altro. Come suggerisce François Jullien, solo un tale confronto serrato può «donner sa chance à une autre pensée», permettendo cioè di fuoriuscire dalla ripetizione delle categorie con cui abbiamo iniziato a pensare per esplorare configurazioni inedite del senso. La metodologia di Santillana incarna questo esercizio di scarto: non si limita a confrontare modelli giuridici, ma li fa riflettere l’uno nell’altro, aprendo un campo di coesistenza normativa. La Libia, ad esempio, come spazio segnato da tradizioni normative multiple, mostra l’efficacia di questa prospettiva mediatrice. Il luogo dove le scuole islamiche si confrontano con i modelli europei, generando ibridazioni, inevitabili scarti e resistenze e, infine, adattamenti. Santillana stesso partecipò a questa transizione, non come agente del colonialismo, ma come interprete della possibilità di un diritto che riconoscesse le specificità locali e le integrasse in un sistema leggibile anche per chi veniva da fuori.
Ogni attualizzazione, tuttavia, comporta dei rischi interpretativi: anche i lavori di Santillana non sono esenti da critiche, storiche e metodologiche. Ciò che resta oggi centrale non è tanto la loro conclusione, quanto il metodo, la disposizione prospettica, la volontà di costruire un dialogo tra saperi giuridici distanti. In quest’ottica, Santillana non è solo uno studioso, ma un pioniere: ha mostrato come si possa elaborare una giurisprudenza che tenga insieme la profondità delle fonti tradizionali e l’adattabilità dei modelli contemporanei.
La sua opera testimonia come sia possibile elaborare modelli normativi capaci di dialogare tra matrici culturali differenti senza forzarne le logiche. La sua attività in Libia e Tunisia, nel quadro della codificazione coloniale ma anche della cooperazione giuridica, anticipa molte delle sfide contemporanee. In particolare, le sue relazioni per l’amministrazione della giustizia nelle colonie, capace di affrontare il complesso rapporto della tradizione locale con la tradizione ottomana, la redazione del Code civil et commercial tunisien rappresentano un laboratorio di interlegalità ante litteram. Ma è forse nel pensiero stesso di Santillana che si ritrova la visione più radicale. Come scrive Levi Della Vida, egli rifiutava tanto l’assimilazione quanto l’opposizione rigida tra diritto islamico e diritto europeo. Cercava invece di mostrare che tra i sistemi giuridici «apparentemente divergenti […] le differenze sono dovute piuttosto a differenze di metodo che a un’opposizione fondamentale di principi».
A sostegno di questa prospettiva sembra collocarsi anche l’opera di Carlo Alfonso Nallino, che pur da un ambito più filologico che giuridico, indagò le strutture normative dei sistemi islamici con un rigore raro.[4] In una voce dedicata al diritto musulmano pubblicata nel 1938 sul Nuovo Digesto Italiano, Nallino osservava che tal diritto non può essere inteso come semplice diritto religioso, né ridotto a formula codicistica:
«La legislazione fu, per la società islamica, la volontà stessa di Dio, resa manifesta attraverso il suo profeta […] Il diritto musulmano ha una funzione etico-religiosa che si estende al di là della norma positiva, e la sua applicazione pratica richiede la presenza di interpreti dotati non solo di competenza tecnica, ma di discernimento culturale e spirituale»
In questa concezione, il giurista è anche mediatore culturale, e il diritto diventa strumento di coesistenza.

Dialogo fra culture
Di fronte al ritorno del Mediterraneo come spazio di influenza, l’opera di giuristi come Santillana può riportare alla luce quelle increspature nella storia del dialogo tra culture sempre necessarie per elaborare una visione generativa della realtà. Una visione particolarmente importante nei Paesi nordafricani, dove la tradizione giuridica islamica ha storicamente valorizzato usi e consuetudini
Si tratta di una lenta tessitura giuridica, faticosa certo, ma necessaria per costruire una koinè mediterranea allargata fondata su tradizioni normative plurali e interconnesse capaci di uno sguardo ampio e non tecnicizzato. Non a caso, sta sempre più riaffiorando l’idea di Mediterraneo allargato come categoria critica e strategica necessaria in questo nostro tempo per rileggere le relazioni tra l’Italia, l’Africa e l’Asia. Matrice dinamica di civiltà e sistemi normativi, questo concetto riflette la permeabilità delle frontiere e la pluralità degli scambi giuridici e culturali.
Due iniziative italiane recenti – il Piano Olivetti per la cultura e il Piano Mattei per l’Africa – ne rilanciano la rilevanza politica e culturale, invitando a ripensare prossimità e cooperazione in chiave prospettica. Questa visione individua quattro Mediterranei interconnessi – latino, greco-ortodosso, arabo-islamico e africano – che ne sottolineano la complessità strutturale. L’Italia, per posizione e tradizione, può svolgere un ruolo centrale nella costruzione di una nuova koinè giuridica mediterranea, promuovendo il dialogo tra tradizioni normative e favorendo strumenti comuni di integrazione. Questo spazio, che attraversa sovranità statali e identità confessionali, deve ricominciare a guardare al diritto – soprattutto commerciale e privato – come lingua franca tra individui, organizzazioni, istituzioni e mercati. Una lingua comune, il diritto, che nasce dal riconoscimento delle differenze e dalla capacità di tradurle, non di eliminarle. Una lingua che non divide, ma connette; dove il commercio diventa forma di pace (commercium est pax) e la norma si fa gesto di reciprocità.
[1] Per la contestualizzazione di questo apporto, cfr. Roberta Aluffi Beck Peccoz, Il modello giuridico – scientifico e legislativo – italiano in Tunisia e Marocco, in Sabrina Lanni e Pietro Sirena, a cura di, Il modello giuridico-scientifico e legislativo -italiano fuori dell’Europa. Atti del II Congresso Nazionale della SIRD Siena, 20-21-22 settembre 2012, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2013, pp. 37-46).
[2] Cfr. A. D’Emilia, “Il Trattato di diritto musulmano malikita di David Santillana”, Rivista degli studi orientali, 1/4 (ottobre 1947), pp. 36-45.
[3] F. Renucci, “David Santillana, acteur et penseur des droits musulman et européen”, Monde(s), n. 7(2015), pp. 35-36
[4] Cfr. B. Soravia, “Carlo Alfonso Nallino (1872-1938). Lineamenti di una biografia intellettuale”, Studi Magrebini, n.s., 8 (2010), pp. 9-24.