MILANO CITTA’ DELLA RETE SOCIALE

Aldo Brandirali

Milano va guardata con la apertura che solo l’idea di bene comune suggerisce, la città è moderna e impegnata ai livelli alti della competizione e della valorizzazione di imprese e di capitali, ma non è dominata dall’individualismo, è invece più una espressione di comunità operosa e solidale. Un dato su tutti è il poderoso sistema di welfare che storicamente si è costruito, senza dubbio il primo delle città italiane. Nel governo cittadino è imposto a qualunque giunta si formi come equilibrio elettorale; l’assessore ai servizi sociali eredita questo sistema e deve gestirlo senza operare tagli e modifiche accentuate. Nel corso delle ultime giunte di destra e di sinistra ci sono state accentuazioni diverse nel rapporto con il privato sociale, ma la rete dell’associazionismo e della carità è sempre stata interlocutrice dell’apparato comunale. Con le giunte Albertini e Moratti c’è stata una particolare apertura al privato sociale. Con la giunta Pisapia c’è stato un rientro al ruolo dell’apparato comunale, ma senza perdere i tavoli di coordinamento del privato sociale. Dunque gli equilibri politici introducono variazioni nel rapporto fra pubblico e privato sociale, ma non modificano la rete solidale della città.

Eppure ci sono delle gravi carenze nel rapporto fra la comunità milanese e il governo cittadino. Un esempio estremamente significativo è nei flussi migratori: 350.000 immigrati in meno di venti anni si sono insediati nella città, che ricordiamo ha un milione e trecentomila abitanti. Dunque la città aperta è stata un fenomeno potentissimo, è cambiata la città, le sue imprese e i suoi insediamenti abitativi. Ma si può dire che questi flussi migratori non sono stati governati, non si sono agevolate le pratiche di uscita dalla clandestinità, e non sono stati aiutati gli insediamenti abitativi al fine di evitare situazioni di ghettizzazione e di marginalizzazione. Il quartiere cinese di via Sarpi, il prevalere di immigrati in via Padova, la presenza continua di circa 80.000 clandestini privi di permesso di soggiorno. Eppure l’insediamento è avvenuto.

Un altro esempio di ritardo nel governo cittadino è la mancanza di luoghi di preghiera per gli islamici. E in questo si deve sottolineare che non sono aiutate le componenti moderate che sono prevalenti.

Ma il più grave dei ritardi nel governo cittadino è nel mancato passaggio dalla cultura del dare servizi pubblici, alla cultura del coordinamento e controllo dell’operato dei diversi fornitori di servizi. Ancora non si è preso atto che il ruolo del governo cittadino è di riconoscere la grande rete che la comunità cittadina ha generato e di assumere il compito del coordinamento e del controllo dei risultati.

Ancora persiste una contrapposizione fra la politica superiore ai cittadini e la politica come servizio alla comunità operosa. Per questo si fanno tanti regolamenti, si insiste sulle gare e sugli appalti, si tengono in piedi aziende pubbliche del tipo di Milano Ristorazione, tutto nell’idea che il privato è da considerare contrapposto al servizio pubblico.

Se non si insiste su questo cambiamento culturale non si può parlare di politica di servizio.

Si pensi al ruolo di controllo , tutto dovrebbe essere raccontato come positività dei risultati, e invece si insiste ancora sulla sperimentazione e sulla esclusione di chi arriva dopo, alla fine dei fondi disponibili. Con tale modi di gestire non si assicura il diritto eguale per tutti i cittadini. Essi vivono le maggiori sofferenza quando nella solitudine non trovano la strada per avere il sostegno necessario.

Riassumendo posso dire che si devono ancora conquistare i diritti eguali per tutti , realizzati da una politica che sia servizio della comunità cittadina operosa e solidale.