Non c’è vita in comune senza la scoperta dell’io

– Luca Doninelli

“Che vita è la vostra se non avete vita in comune” si chiede Eliot. Da sant’Ambrogio ad Armani, Milano ha dato una sua peculiare risposta a questa domanda

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Giorni di bilanci, considerazioni e di novità, questi di giugno, tra riflessioni nazionali ed europee.

Milano non è mai ferma, ma c’è un’occasione di pensiero, curiosamente e fortemente unito alla vita, che la pone al centro del dibattito su quella straordinaria invenzione e realtà che è la città: sappiamo bene che è proprio in quella convivenza che vibrano, si consumano, si scontrano i modi di sentire, vivere, concepire che poi determinano, anche a latitudini diverse, il senso del bene comune, la cultura dell’“io” e del “noi”.

In questo senso sono stato attratto dal tema – tratto da un verso del grande poeta Premio Nobel T. S. Eliot – che è stato scelto da “Andiamo al largo”, il Festival di Cultura e Incontro, di cui si è svolta lo scorso anno la prima edizione e che si ripropone in questi giorni, caratterizzando la metropoli: “Che vita è la vostra se non avete vita in comune” Milano e il suo popolo.

È facile identificare l’idea di “vita in comune” con un progetto sulla vita. Tutti sappiamo che non si vive da soli, ma è proprio sui progetti di vita in comune che ci si divide, sul “come essere felici”. Le parole vengono intrappolate dalle ideologie. Dal popolo al populismo, dall’identità all’identitarismo o vita in comune intesa come una concordia governata, diretta.

Questa deriva non va sottovalutata: tutti noi in fondo desideriamo essere diretti, assumere come nostri i desideri di altri. Peccato che ben raramente i desideri di un altro abbiano la forza, l’autorevolezza di ridestare i nostri, veri. Ci è più facile addormentarci dietro qualche slogan ben fatto, dietro le parole di chi sa alimentare la delusione o l’ambizione.

Ma la vita in comune di cui ci parla Eliot è un’altra cosa. La prima parte della frase non è meno importante della seconda: che vita è la vostra?

Qui sta il punto. Questa è la domanda che non ci lascia fermi, che non ci offre tranquillità, che ci ricorda quella promessa, che ci portiamo dentro come una cosa scomoda, e non ci lascia accasare, non ci offre il nostro angolino, la nostra poltrona. Che vita è la vostra? A una domanda come questa, è difficile sentirsi a posto, sentiamo il peso della nostra miseria, ed è meglio così.

“La filosofia è propriamente nostalgia, il desiderio di trovarsi dappertutto come a casa propria”, scrisse Novalis. Questa è la forma suprema della nostra inquietudine, del nostro non sentirci mai a posto. Non un moto di ribellione, istintivo e quindi schiavo, che trasforma la libertà in una fuga, ma il desiderio di sentirsi dappertutto come a casa propria.

Io credo che questa sia la vita in comune: non l’unanimismo, ma una rivoluzione personale, perché la prima vita in comune è con noi stessi. Non c’è vita in comune senza la scoperta dell’“io”, che è la radice di ogni comunità. Per questo la vita in comune non è una forma nella quale acquietarci dopo lo spavento della domanda “che vita è la vostra?”

Se ogni città è il tentativo originale di rispondere alla domanda su come sia possibile una vita in comune, poche città hanno saputo scendere alla radice della questione come Milano. Lo dimostra la sua storia, lo dimostrano le sue istituzioni, lo dimostra tutto ciò che l’inquietudine creativa dei milanesi ha sempre prodotto per il bene comune.

C’è – osservava un giorno un filosofo – qualcosa che, stranamente, accomuna sant’Ambrogio, san Carlo, Leonardo, Francesco Sforza, Manzoni, Natta, Castiglioni, Giò Ponti, don Giussani, e perfino Giorgio Armani. Non si è milanesi senza mettersi in gioco, perché solo rischiando sé stessi si costruisce davvero una vita in comune.

Un’ultima osservazione. Mettersi in gioco “alla milanese” non vuol dire mai, mai affermare sé stessi contro gli altri, distruggere ciò che altri hanno costruito, far prevalere le differenze in un modo che è sempre – implicitamente o esplicitamente – violento. Un sindaco, un assessore, il rettore di un ateneo, il presidente di una fondazione tendono sempre, da noi, a dare il proprio apporto personale ma senza distruggere ciò che altri hanno fatto, tenendo dritta la barra del timone.

Non c’è rischio di sé senza un cammino comune, né cammino comune senza rischio di sé. Così siamo noi milanesi, questa è la città che abbiamo edificato e continuiamo a edificare.