Padre Duval, storia di un gesuita cantautore

La vicenda umana e artistica di un religioso che ha cantato Cristo perché “la gente vuole sentire parlare di Cristo”. Dalle prime apparizioni nei bistrot alla stagione della grande popolarità nei teatri più famosi. Quindi l’abisso dell’alcol e il rischio di perdersi definitamente. Non è andata in quel modo. Ha riscoperto il gusto per la vita mai abbandonando la sua passione per la musica. A quarant’anni dalla morte, Aimé Duval merita oggi di essere di nuovo ascoltato.


12 aprile 2024
L’anniversario
di Walter Gatti

Quando Graham Greene scrive Il potere e la gloria, pubblicato nel 1940, padre Aimé Duval ha 22 anni. L’autore inglese non poteva immaginare le possibili coincidenze tra il prete alcolizzato del suo romanzo e quello che sarebbe accaduto al giovane gesuita francese negli anni immediatamente successivi alla seconda Guerra mondiale. Ma le “possibili” similitudini tra le due vicende non possono che saltare all’occhio.

Con la chitarra in mano

Padre Duval – cui recentemente è dedicato un libro di canzoni e traduzioni curato da Antonio Spadaro, “Nudo sotto il cielo limpido”, Ancora edizioni – di cui in questi giorni cade il 40° anniversario della scomparsa, è una figura pressocché dimenticata nella cultura e nell’ambito della canzone, ma di valore immenso sia dal punto di vista artistico, che socio-culturale.
Da giovane gesuita, Duval (nato nel 1918 in un villaggio contadino sui Vosgi) già alla fine degli anni ‘40 inizia a scrivere canzoni. Non si pensi ad un’attività “abituale” e “normale” come si potrebbe giudicare oggi, tempi in cui più o meno tutti (anche religiosi) canzoneggiano egregiamente sui palchi o sui social. Negli anni ‘50 scrivere canzoni per un uomo “di Chiesa”, per un uomo consacrato ed in tonaca, non era assolutamente una cosa normale, scontata, accettata.
Tanto per dire: le canzoni – intese come oggi le intendiamo nel senso della “musica leggera” – non hanno spazio nell’ambiente religioso e chiesastico dei primi sette decenni del ‘900. Anzi: fino all’istruzione De Musica in Sacra Liturgia, emanata in Vaticano dalla Sacra congregazione dei riti in data 5 marzo 1967, non c’è riferimento a possibili “composizioni musicali contemporanee”. Insomma: negli anni ‘50 se c’è un canto religioso questo è gregoriano, oppure della tradizione, oppure liturgico.
Duval fa quindi la sua apparizione come una mosca bianca: un prete, un uomo in tonaca, con chitarra in mano, che intona canzoni a uso e consumo di un pubblico presumibilmente cattolico che ascolta ed applaude come fosse Edith Piaf.

L’inizio nei bistrot

Quando Duval inizia a scrivere e cantare canzoni per un pubblico via via più ampio e diffuso, sono i primi anni ‘50. Una delle sue canzoni più note, calde, intime è Seigneur, Mon Ami (Signore, amico mio, tu mi hai preso per mano, e andrò senza paura con te sino alla fine del cammino), datata (circa) 1953.
C’è da notare che la grande chanson francaise nasce proprio in quegli anni. L’esordio di George Brassens, con il leggendario La Mauvaise Reputation, è del 1952. Del 1953 sono Paris-Canaille, esordio di Leo Ferré, come anche Ses Cansons di Gilbert Becaud ed anche il primo disco di Charles Azanvour.
Il più grande di tutti, Jacques Brel (di nascita belga) incide il suo primo album Jacques Brel et ses chansons nel 1954. Duval si iscrive a questo clima artistico, con un disco d’esordio che esce nel 1956 ed in un qualche modo è figlio proprio dell’atmosfera di Brassens e Brel. Le sue sono canzoni dirette, ma ricche di enfasi comunicativa, suonate con semplicità, ma anche con pulizia e precisione. E quindi, sia per la novità del “prodotto”, sia per l’efficacia della comunicativa, sia per la qualità dei contenuti, padre Duval riesce in un’operazione artistica inedita in Europa: scrivere canzoni cristiane, interpretarle direttamente in teatri e sale concerti, farsi applaudire.
Lui stesso in un’intervista rilasciata pochi mesi prima della sua scomparsa (Panorama aujourd’hui, Le journal des chretiens, marzo 1984), dice del suo esordio: “E’ iniziato tutto così, nei bistrot. E poi, all’improvviso, c’è stata questa esplosione del tutto straordinaria. Perché, credo, la gente voleva sentire parlare di Gesù Cristo”.

Una piccola e grande rivoluzione

Un prete che scrive canzoni, le canta, si prende gli applausi dei bar o dei teatri, in un’epoca in cui la Chiesa faticava a riconoscere il suo posto nel mondo e i cristiani iniziavano la loro ritirata nelle canoniche. Insomma: una piccola e grande rivoluzione. Scriveva Karl Rahner “Deve pur esistere una piccola canzone. Quella cosa che, una volta sentita da qualche parte, uno canticchia o fischia piano tra sé e sé nella vita di tutti i giorni come se fosse un canto proprio. Un tale canto deve esistere anche dove l’uomo si avvicina di più ad essere pienamente uomo, là, dove Dio lo incontra e dove lui incontra Dio. Non ci sembra urgente la necessità di avere finalmente una tale musica? Su tutto questo uno dovrebbe aver riflettuto prima di ascoltare il gesuita francese Aime Duval – nel caso in cui non si è sufficientemente sicuri di sé da poterlo ascoltare senza pregiudizio, disinvolti e cantare con umiltà e cuore aperto con lui” (Orientierung, aprile 1959).

… e poi diventa una star

E così il gesuita diventa una star. La sua attività tra gli anni ‘50 e ‘60 diventa incessante: suona tra la Francia e la Germania (un francese che suona davanti al pubblico cattolico tedesco nel dopoguerra: non proprio una cosa semplice).
A Londra fa concerti alla Royal Albert Hall, a Varsavia partecipa al festival della canzone spirituale (in piena guerra fredda, più tardi ci suonerà anche un certo Claudio Chieffo). In Italia arriva per la prima volta nel 1959, con un concerto tenuto il 27 ottobre al teatro Alfieri di Torino, con il Corriere della Sera che scrive di lui: “Alcuni dischi delle sue composizioni hanno raggiunto cifre di vendita di poco inferiori al milione di esemplari…i suoi soggetti sono più terreni che religiosi. Padre Duval canta l’amore coniugale, il dolore della morte, il dramma dell’uomo senza lavoro, la partenza per la guerra, il piano della madre, il distacco della sposa dall’uomo amato”.
Duval è prolifico, decine e decine di canzoni, incide, si presenta sui palchi di mezzo mondo e non rimane circoscritto all’interno di una cifra poetica “devozionale”, perché ci riversa dubbi e paure di un’esistenza umana “normale”.
Una delle sue canzoni più belle (insolitamente attraversata da accordi blues), La Nuit, è un faccia a faccia pieno di poesia e umiltà con l’incubo del nulla, del male, della perdizione, della disperazione.

Perché, perché, perché, Signore?
Perché, Signore che ha creato il mondo
Perché hai fatto la notte così lunga?
Così lunga, lunga, lunga per me
Hai creato la pace, l’amore e la gioia
Hai creato ragazze con belle braccia
Perché, perché, perché, Signore?
Perché, Signore che ha creato il mondo
Perché hai fatto la notte così lunga?
Così lunga, lunga, lunga per me

L’incubo dell’alcol

Canzoni su canzoni, concerti su concerti: negli anni Duval diventa amico di George Brassens, suona a Berlino davanti a circa 30mila persone, lo intervistano in tivù.
I suoi dischi si abbelliscono di orchestrazioni e il suo nome è di richiamo ovunque. E per affrontare il tutto l’alcool diventa un ottimo compagno di peregrinazioni. Gli anni Sessanta segnano il gesuita: alcolismo dichiarato, qualche ricovero, un quasi-tentativo di suicidio, un ictus e poi il legame con gli Alcolisti Anonimi che riescono a riacciuffare la sua sanità fisica e mentale. Padre Duval riesce a riemergere dal suo incubo alcolico e scrive un libro, L’enfant qui jouait avec la lune- Chanteur, Jésuite, Alcoolique (uscito parecchi anni fa per le edizioni Paoline) in cui mette a nudo tutta la sua esperienza, a lunghi tratti simile a quella narrata da Graham Greene: perché ho avuto un dono, sono stato un testimone di Grazia e poi ho rovinato tutto? Nell’intervista rilasciata a Panorama aujourd’hui, Duval dice (parlando del suo passato di alcolista e delle sue ragioni): “Il mistico è colui che vede la faccia nascosta della luna, la faccia nascosta della terra che è il cielo. Ciò che vede esattamente l’alcolista. E se diventa cattivo o se diventa triste, è perché non riesce a conciliare ciò che sogna e ciò che fa. Cosa sogna e cosa vede”.
Ripresa la serenità delle sue origini e della sua vocazione, Padre Duval si ritira a Nancy. Si spegne il 30 aprile del 1984, il giorno dopo un concerto tenuto a Metz. Diceva negli ultimi tempi: “Ciò che mi faceva bere erano le cianfrusaglie, gli idioti, le persone decorate, era la mia inadeguatezza congenita alla sporcizia del mondo. Volevo salvare il mondo e sprofondai nell’alcol. Mi ha salvato la stessa Grazia che invocavo nelle canzoni”.
Negli ultimi anni continuava a fare piccole esibizioni musicali, gratuite, soprattutto in chiese, monasteri, luoghi di preghiera o sedi degli alcolisti, dove lo chiamano senza particolari enfasi pubblicitarie.
Lascia un corpo artistico costituito da 14 dischi ed una capacità di testimonianza umile ed ancora potente per chi si prende la briga di rintracciarla. Un grande dizionario musicale transalpino – Cent ans de chanson francaise, Ed du Seuil, 1981 – lo descrive come “una presenza umana autentica” all’interno della canzone francese. Ci sono stati, dopo di lui, nomi di autori “religiosi” come ad esempio quello di Padre Cocagnac e di tanti altri più o meno noti (ognuno aggiunga i propri), ma diciamo pure che ognuno deve qualcosa a Padre Aimé Duval, il sottile gesuita dei Vosgi che ha affrontato il successo, l’alcoolismo, la solitudine e la sfida della notte, così lunga e così dura, e ne è uscito vivo.