Padre Patton: “La nascita di Gesù è la luce che brilla nelle tenebre”

Il custode di Terra Santa, riprende un passo del Vangelo di Giovanni, per riaffermare la centralità della presenza della speranza nel dramma del conflitto violento che sta ferendo la Terra Santa. Noi normalmente confondiamo speranza e desiderio. La speranza cristiana nasce dal fatto che si basa su un qualcosa che Dio ha fatto e che Dio non rinnegherà. Intervista a tutto campo a chi ha un ruolo di grande responsabilità. Che parla alla piccola comunità di cristiana. Che parla al cuore di tutti. Natale non soccombe alla logica dello scontro armato. La mangiatoia vince sulle bombe. Nei secoli dei secoli…

      


15 dicembre 2023
Natale e guerra
Intervista a padre Francesco Patton a cura di Andrea Avveduto

“Dobbiamo trovare la giusta empatia per imparare a riconoscere le sofferenze degli uni e degli altri. Altrimenti continueremo a finire nella trappola degli schieramenti”. Padre Francesco Patton, Custode di Terra Santa, da Gerusalemme segue con preoccupazione la crisi che ha superato ormai i sessanta giorni dall’inizio delle nuove ostilità tra Israele e Hamas. E avvicinandosi al 25 dicembre, pensa in particolare alla comunità di Betlemme, appena uscita dal Covid, che dovrà affrontare un altro Natale senza pellegrini e turisti.

Padre Patton, sicuramente un altro fronte da tenere sott’occhio è quello della Cisgiordania, dove le tensioni in questi giorni non sono mancate. Ci sono dei rischi che la situazione possa degenerare anche nei territori e la West Bank diventi un altro fronte aperto di questa guerra?

Il rischio che la situazione degeneri in Cisgiordania è reale se il conflitto non si chiude in tempi brevi. Se mi si passa il paragone, i conflitti sono come il fuoco: se non si spegne subito, basta un soffio di vento per portare l’incendio lontano. Purtroppo non è scontato, perché gli interessi in gioco spingono più verso una continuazione dei combattimenti che verso un percorso reale di pace. Molto dipende e dipenderà dalla pressione esercitata dalle potenze esterne. E’ evidente che la pressione esercitata dagli Stati Uniti su Israele è molto importante, esattamente come la pressione esercitata da Egitto, Arabia Saudita, Qatar, Giordania e altri ancora su Hamas. E direi che se le stesse Nazioni Unite potessero avere un ruolo un po’ più significativo in questa crisi non sarebbe male. Tuttavia, per parlare sia di continuazione di combattimenti che di tregua, dobbiamo però stare innanzitutto sulla dimensione locale.

Infatti. Sembra che a livello locale manchi una strategia sia da una parte che dall’altra. In questa situazione come si fa a individuare o a programmare un futuro per la Striscia?

Io non sono un analista politico, ma da quello che ho compreso – anche leggendo le valutazioni di persone molto autorevoli – ciò che manca di fatto è proprio una strategia, una visione a lungo termine. E qualcuno ha addirittura utilizzato il termine strategizzazione della tattica. E’ come se questi continui interventi potessero risolvere il problema, mentre in realtà no, perché credo sia abbastanza evidente a tutti che la soluzione del problema non è militare, ma è politica. Non sappiamo se e quando ci sarà da entrambi le parti una classe politica all’altezza di una soluzione: finché la situazione è quella attuale, è molto difficile.

Che effetti ha questa crisi militare sulla vita delle persone?

L’effetto psicologico è molto forte: paura, rabbia, desiderio di vendetta. E questo porta anche poi a comportamenti di un certo tipo. E’ evidente che quando c’è paura e desiderio di vendetta, rabbia, odio, è molto più facile anche che ci siano comportamenti solitari che concretamente diventano atti di terrorismo, ed è molto facile che ci siano anche persone che sparano senza pensare. Poi ci sono conseguenze che sono economiche e sociali. La moneta locale pian piano si svaluta perché non ci sono né turisti né pellegrini e intere categorie di persone si ritrovano senza lavoro. E poi ci sono delle conseguenze sociali che vanno a incidere nella società israeliana, portando a una maggior separazione tra ebrei e arabi israeliani, nonostante si fosse arrivati – negli anni scorsi – a una buona forma di convivenza tra la componente di lingua araba e la componente di lingua ebraica. Le conseguenze di questo conflitto saranno a lungo termine, legate al venir meno di una forma di minima anche ma reale di fiducia, che permetteva di mantenere in equilibrio una realtà multireligiosa, multietnica e multiculturale.

Andiamo a Betlemme, che si sta faticosamente preparando al Natale. Che Natale sarà?

Quest’anno il Natale di Betlemme sarà un Natale all’insegna della sobrietà, frutto di una decisione comune dei capi delle chiese. Sembrava offensivo della sofferenza delle persone, sia in Palestina sia a Gaza, sia in Israele andare avanti come se niente fosse, con accensioni di alberi di Natale giganteschi e luminosi, con i soliti elementi festosi. Dall’altra parte è evidente che celebreremo in maniera ancora più intensa quella che è la dimensione religiosa del Natale, accentuando ed evidenziando questo aspetto.

Questa guerra ha riavvicinato le comunità cristiane di diverse confessioni?

Il percorso di riavvicinamento delle comunità cristiane in Terra Santa è cominciato molto prima di questa guerra. Io sono qui da otto anni e ho visto un progressivo riavvicinarsi degli uni e degli altri. Ciò che questa guerra ha portato ad esempio a Gaza è stata la necessità fisica di accogliere per proteggersi dai bombardamenti, e la chiesa greco ortodossa assieme a quella latina sono diventate i due luoghi in cui la gente si è rifugiata in questa fase, accogliendo anche i fedeli musulmani. Un po’ come l’Arca di Noè – mi si passi questa immagine – dove tutti trovano salvezza. In questo caso non è il diluvio ciò da cui ci si deve difendere, ma è un diluvio ben peggiore, perché piovono le bombe lì dove non c’è la tregua.

Rispetto alle immagini che vediamo ogni giorno ritorna spesso la tentazione di schierarsi da una parte o dall’altra. Come vincerla senza prestarsi a queste complicazioni?

Dobbiamo a tutti i costi evitare proprio la logica delle tifoserie, perché sono migliaia le persone che soffrono e migliaia le persone che sono morte. Bisogna riuscire invece ad avere una forma di empatia che ci permetta di percepire la sofferenza degli uni e degli altri. La portavoce israeliana degli ostaggi in un’intervista ha detto una cosa fondamentale: bisogna che noi cominciamo a riconoscere la sofferenza dei palestinesi e bisogna che i palestinesi comincino a riconoscere la nostra sofferenza. Ecco, questo è fondamentale perché è il passare dall’essere ognuno concentrato sulla propria sofferenza, al rendersi conto della sofferenza dell’altro. E se una sofferenza vissuta come unica e solitaria genera rabbia, odio, desiderio di vendetta, una sofferenza che viene percepita anche nell’altro può portare anche a compassione e riconciliazione, a una forma anche di perdono che conduce alla pace. Non è assolutamente facile quando si è anche temporalmente e fisicamente vicini a una tragedia, ma ci vuole del tempo perché le emozioni vengano rielaborate e comprese in modo nuovo.

Che lavoro sta svolgendo in queste settimane la Custodia di Terra Santa per costruire questa pace, così come l’ha raccontata in termini di incontro, relazioni e perdono?

In questo momento direi che è molto difficile fare questo lavoro in maniera esplicita. Quello che stiamo cercando di fare è aiutare la componente cristiana a non fare i tifosi, a tenere il cuore libero dal desiderio di odio, di vendetta. I cristiani sono dappertutto, perché sono una percentuale minima, molto meno del due percento. Ci sono cristiani a Gaza, in Israele, tra i lavoratori migranti, alcuni che si trovano a fare il servizio militare dell’esercito e in questo momento sono al fronte. La comunità cristiana che la più piccola di tutte è anche la più complessa e la più articolata. E da questo punto di vista anche la meno compatta. Non è un lavoro facile e non è facile neanche per i cristiani locali avere questo atteggiamento evangelico Però bisogna provarci, sempre.

Che messaggio porta anche quest’anno il Natale di Betlemme, ai cristiani che stanno facendo il servizio militare e a coloro che sono a casa, a coloro che vivono a Gaza, a quelli che vivono ad Haifa, a quelli che sono ovunque nel mondo?

Io riassumerei il messaggio del Natale con le parole che si trovano nel prologo del Vangelo di San Giovanni, quando scrive che la luce brilla nelle tenebre e le tenebre non l’hanno sopraffatta. Il messaggio di speranza è per prima cosa il fatto che la nascita di Gesù dentro la storia romana è paragonabile alla luce che brilla nelle tenebre. E’ un qualcosa che ci permette di orientarci dentro un mondo e dentro una storia che sono oscuri e tenebrosi.

Le tenebre non sono in grado di sopraffare la luce, e questa per me è una speranza, perché vuol dire che anche in mezzo a una situazione disastrosa come quella della guerra, anche in mezzo al buio e all’oscurità, questa piccola luce rappresentata dal Figlio di Dio che si è fatto uomo è più forte delle tenebre. La speranza non è la realizzazione dei nostri desideri, è una categoria teologica.

Noi normalmente confondiamo quando parliamo, speranza e desiderio. La speranza cristiana nasce proprio dal fatto che si basa su un qualcosa che Dio ha fatto e che Dio non rinnegherà. Il suo voler portare luce dentro la nostra storia è un qualcosa che continua e che continuerà fino a quando non sarà il buio della storia a essere completamente vinto.

La parrocchia di Gaza