Luogo, lingua, suoni
Pasolini, Casarsa, un’origine

Un territorio preciso, nel profondo Nord – Est, centrale per la poesia del Novecento. Strettamente legato alla storia personale di un singolare protagonista della nostra cultura. Friulano d’adozione, ad appena vent’anni. Con quella terra di confine un abbraccio umano, poetico, affettivo. E per nulla ideologica. Un incontro ancora da approfondire. Il contributo di un profondo conoscitore del Pasolini di Casarsa. Direttore artistico del prestigioso festival Pordenonelegge.


25 marzo 2022
di Gian Mario Villalta*

Circostanze davvero particolari, delle biografie dei singoli e della storia di tutti, fanno sì che la poesia del Novecento abbia in Casarsa della Delizia, in provincia di Pordenone, un luogo originario, legato alla vicenda personale e al singolare magistero di un giovanissimo friulano d’adozione, Pier Paolo Pasolini. Intorno a lui è un gruppo di ragazzi. Ci sono il cugino Nico Naldini e gli altri adepti dell’Academiuta, tra i quali Cesare Bortotto, Riccardo Castellani, Ovidio Colussi, Tonuti Spagnol (e il fratello Dante): insieme formarono un’esperienza nuova, sotto ogni aspetto, nella tradizione poetica italiana. Questo aspetto della vicenda merita oggi approfondimento: nel secolo dei “gruppi” che si organizzano intorno a un manifesto poetico fortemente ideologico, ci sono dei giovanissimi (alcuni di loro nati nel ’23, nel ’27, addirittura Naldini nel ’29) che scoprono e fanno sorgere la poesia nel turbamento che viene dal leggere sé stessi dentro il gesto di scrivere la propria “altra” lingua.

Tre prospettive

Caratterizzano la novità e l’importanza di questo inizio, nell’impulso che proviene da quel “maestro” di vent’anni, tre fondamentali prospettive.

La prima riguarda l’individuazione della sorgente poetica nella lingua viva, vissuta, parlata e sognata. Viene scritta come si può, come suona, senza la preoccupazione di obbedire a un progetto ideologico e a convenzioni culturali. Pone in primo piano la cosciente appartenenza a un luogo specifico, senza il bisogno di misurare la distanza dai centri di emanazione della cultura. Esalta l’espressività di un suo profondo simbolismo interno a discapito delle componenti ideologiche e morali, attuando un radicale cambiamento di paradigma estetico. Il friulano non interessa come lingua “popolare”, ma come fonte dalla quale sgorga, non mediata da sovrastrutture ideologiche, la lingua.

È una risposta anticipatrice, che proviene dal profondo del vissuto, a quella che è già sentita come urtante contrapposizione tra lingua letteraria (e retorica della cultura ufficiale) e lingua parlata, che esploderà un decennio più tardi nel più ampio contesto culturale e diventerà cruciale per il fare poetico.

La seconda prospettiva è l’individuazione in quel friulano di una “novità”, una freschezza, una piena presenza simbolica che porta con sé un sentimento di apertura a una dizione fortemente soggettiva e allo stesso tempo partecipe di una collettività. Una ipotesi radicale, dove il quasi onirico affidarsi alle risorse dell’immediatezza espressiva si unisce a una scommessa di elementare realtà (da intendersi in contrapposizione al “realismo” letterario): mai prima di allora una coscienza iperletteraria e un’opzione di assoluta spontaneità soggettiva si sono affacciate insieme nella poesia della tradizione.

La terza prospettiva riguarda l’azzeramento del peso della continuità storica regionale archiviata dalla cultura ufficiale: questa poesia si nutre tanto delle esperienze delle origini dei volgari, provenzali e italiche, quanto delle punte più avanzate del tardo simbolismo europeo e della nuova lirica spagnola contemporanea. Quest’ultima rappresenta la vera novità, in un certo senso, ovvero l’esempio di una poetica che ha trovato le forme adeguate per evocare (soprattutto al suo fruitore italiano) un’intonazione profondamente popolare senza gli orpelli folcloristici popolareschi e il filtro di ideologie precostituite.

Un felice trovarsi

Ma non dobbiamo pensare che tutto questo avvenga per calcolo intellettuale o singolare approfondimento di studi. È il felice incontro tra un istinto inquieto, una sensibilità in allerta, un gusto coltivato che ha nel giovanissimo Pasolini il riconosciuto maestro, e l’entusiasmo nel ritrovarsi in una comune avventura creativa, la sorpresa che sorge sotto i propri stessi occhi all’apparire di formule d’espressione mai prima incontrate nella scrittura.

Non è da ignorare la singolarità delle circostanze, che meriterebbe un approfondimento: quel “maestro” affascinante e, agli occhi degli amici, universalmente colto, che viene da un altro mondo; la libertà che l’incombere della guerra concede a questi ragazzi, sospesi gli obblighi dell’altrimenti pesante routine quotidiana legata al lavoro dei campi; l’accelerazione che la stessa guerra impone premendo sui pensieri e sui sentimenti.

E poi ci sono i prati, i coltivi, le giornate scandite dal suono delle campane, l’acqua chiara del Tagliamento e la distesa dei sassi che biancheggia nel sole. Ci sono le fioriture e i raccolti. C’è l’umile andare per erbe commestibili agli uomini e agli animali. Un paese di temporali e di primule da percorrere in bicicletta fino a San Vito, a Bannia, a Valvasone. Le sere che addolciscono la ruvidezza di vite faticose, le sagre, le processioni e, nelle case, il culto domestico vegliato dalle madri. C’è tutto questo. E prima nessuno l’aveva messo in poesia, e mai in questo modo.

L’esperienza personale di Pasolini diventa un’avventura condivisa.

Era infatti uscito nel 1942 presso la Libreria Antiquaria Mario Landi di Bologna un esile volume di versi, Poesie a Casarsa, scritto nella parlata della località che compare nel titolo. L’autore, Pier Paolo Pasolini, ha allora vent’anni, e ha trascorso nel paese sulla riva destra del Tagliamento un lungo periodo all’età di otto anni e poi di seguito altri, più brevi, nel corso dei molti avvicendamenti di residenza della famiglia, dettati dagli spostamenti del padre, militare di carriera.

Poeta friulano, poeta non friulano

Dopo le numerose peregrinazioni dell’infanzia e della prima adolescenza, la sua città è diventata Bologna, dove è nato e ha riconosciuto la passione letteraria, ha completato precocemente gli studi universitari e condiviso con gli amici le prime prove di scrittura.

La definizione di “poeta friulano” è falsa, se stiamo ai fatti, poiché in Friuli fino a quella prima, straordinaria prova poetica, egli aveva trascorso soprattutto dei periodi di vacanza. Gli anni pienamente friulani vanno dal ’43 al ’49. In seguito, all’inizio del 1950, dopo il processo relativo ai “fatti di Ramuscello”, Pasolini si traferì a Roma, dove visse fino alla morte, ritornando in Friuli però più volte, e ricevendo a Roma lettere e visite degli amici e conoscenti friulani.

In questa falsa definizione, c’è però un’altra stringente verità: Pier Paolo Pasolini è “poeta friulano” perché in Friuli trova non solo la lingua, ma anche la voce per quell’esperienza che lo farà scoprire a sé stesso poeta. Perché in Friuli maturano, con la poesia e con i primi progetti narrativi, le sue intime contraddizioni e la potenza espressiva che lo porteranno a percorrere quella originale, tragica vicenda umana e artistica che farà di lui una delle figure più riconoscibili del panorama internazionale.

Il periodo che inizia con il ’43 e arriva al gennaio del 1950 è decisivo per la storia e la leggenda della vita e dell’arte di quello che sarà in seguito, oltre che poeta, romanziere, saggista, drammaturgo e regista tra i più discussi, amati e contrastati della cultura italiana del Dopoguerra. La pubblicazione dello «Stroligut», la “residenza” a Versuta, la fondazione dell’Academiuta di lenga furlana, sono parte di quella vitalità che a Casarsa si manifesta, coinvolgendo i giovanissimi amici e entusiasmando tutte le persone che incontra. A ciò si aggiunge l’impegno politico e la partecipazione appassionata alla discussione sull’autonomia regionale.

La volontà di stare vicino alla madre, dopo l’uccisione del fratello a Porzûs, è forse una ragione forte per spiegare la permanenza di Pasolini a Casarsa dopo la fine della guerra. A Casarsa sicuramente si sentiva isolato, lontano dal fermento culturale bolognese. Lo dimostra il suo impegno a mantenere relazioni da quella lontananza e a crearne di nuove, la fatica a ottenere la pubblicazione di quanto sta scrivendo, la difficoltà a dare corpo alle forme e ai temi che sperimenta. Ma senza dubbio Casarsa è anche una realtà che gli permette di maturare fiducia e allo stesso tempo lo obbliga a scoprire sé stesso, acuendo in quegli anni un sentire che lega strettamente l’espressione linguistica all’immagine del paesaggio, dei corpi, soprattutto, che in primo piano occupano il paesaggio e lo inondano di una luce nuova, primitiva, quasi sacrale e allo stesso tempo dissacrante.

Nota
“In una mattina dell’estate del 1941 – scrive Pier Paolo Pasolini – io stavo sul poggiolo esterno di legno della casa di mia madre. Il sole dolce e forte del Friuli batteva su tutto quel caro materiale rustico… su quel poggiolo o stavo disegnando (…), oppure scrivendo versi. Quando risuonò la parola ROSADA. Era Livio, un ragazzo dei vicini oltre la strada, i Socolari, a parlare. Un ragazzo alto, d’ossa grosse… proprio un contadino di quelle parti… ma gentile e timido come lo sono certi figli di famiglie ricche, pieno di delicatezza. Poiché i contadini, si sa, lo dice Lenin, sono dei piccoli-borghesi, tuttavia Livio parlava certo di cose piccole ed innocenti. La parola ROSADA non era che una punta espressiva della sua vivacità orale. Certamente quella parola, in tutti i secoli del suo uso nel Friuli che si stende al di qua del Tagliamento, non era mai stata scritta. Era stata sempre e solamente un suono. Qualunque cosa quella mattina io stessi facendo, dipingendo o scrivendo, certo mi interruppi subito. (…) E scrissi subito dei versi, in quella parlata friulana della destra del Tagliamento, che fino a quel momento era stata solo un insieme di suoni: cominciai per prima cosa col rendere grafica la parola ROSADA”.

La parola “rosada” compare tra i primi componimenti di Poesie a Casarsa:

“O me donzel! Jo i nas
ta l’odòur che la ploja
a suspira tai pras
di erba viva… I nas
tal spieli da la roja.

In chel spieli Ciasarsa
– coma i pras di rosada –
di timp antic a trima.
Là sot, jo i vif di dòul,
lontàn frut peciadòur,

ta un ridi scunfuartàt.
O me donzel, serena
la sera a tens la ombrena
tai vecius murs: tal sèil
la lus a imbarlumís.

(Oh me giovinetto! Nasco/ nell’odore che la pioggia/ sospira dai prati/ di erba viva… Nasco/ nello specchio della roggia.// In quello specchio Casarsa/ – come i prati di rugiada -/ trema di tempo antico./ Là sotto io vivo di pietà,/ lontano fanciullo peccatore,// in un riso sconsolato./ O me giovinetto, serena/ la sera tinge l’ombra/ sui vecchi muri: in cielo/ la luce acceca.

Quando Pasolini ci lascia testimonianza di questo suo primo incanto all’udire la parola rosada, decenni più tardi, è diventato per lui importante sottolineare, citando Lenin, la sua personale coscienza ideologica. Ma ciò non impedisce a chi legge questa pagine di vedere qual è la sorgente luminosa che irradia ogni parola: la lingua, e nella lingua il suono; ancora di più, il suo non essere mai stata scritta, e quel primo gesto, di assoluta importanza, che dice che cos’è scrivere quei primi versi: dare corpo alla voce per mezzo della scrittura.

Aggiungo a quelle parole del poeta queste altre della Nota posta in coda all’edizione del ’42 che recita:

“L’idioma friulano di queste poesie non è quello genuino, ma quello dolcemente intriso di veneto che si parla nella sponda destra del Tagliamento; inoltre non sono poche le violenze che gli ho usato per costringerlo a un metro e a una dizione poetica”.

Ecco allora che non c’è bisogno di “descrivere” il paesaggio, perché “parla” da solo, in quell’idioma. E allo stesso tempo in quei “suoni” dilegua il fastidioso controcanto implicito della forma “popolareggiante” che vorrebbe mostrarsi popolare. Come del resto, nella luce di una soggettività assoluta, scompare ogni ombra di patetica intimità rivestita di sentimento: non c’è vergogna, non c’è esitazione nel raffigurare quel limite tra lo sbocciare di un corpo alla giovinezza e la nostalgia di un’appartenenza totale a un amore prima indistinto, dove ogni diversa intensità non conosce perversione ma si dichiara come rivelazione. E dove la morte popola di ombre, e delle loro voci segrete, la vita quotidiana.

*Poeta, narratore, docente. Dal 2002 è direttore artistico del festival di PordenoneLegge