Prima dell’ultima campanella
L’anno delle ritrovate lezioni in presenza

A qualche giorno dal termine dell’anno scolastico un professore di italiano e storia riflette su come è andata. Dialogando, osservando, provocando. Interpretando le percentuali di un’indagine statistica sui sentimenti degli studenti delle superiori rispetto alla didattica a distanza. Numeri che fanno riflettere. Che dicono, ma non tutto. E quando la conversazione nelle classi sale d’intensità si scopre il nocciolo del problema. E allora occorre decidere se rimanere con la barca in porto oppure alzare le vele. A scuola come in vacanza. In presenza con la vita.


di Paolo Covassi
17 giugno 2022

L’anno scolastico è alla fine. Sono gli ultimi giorni. Ma prima di sentire aria di vacanze si percepisce un clima di mobilitazione generale: tutti corrono. Si corre per raccogliere gli ultimi voti, rigorosamente tutti sempre negli ultimi giorni, si corre per finire il programma minacciando verifiche e interrogazioni fino all’ultimo minuto (altrimenti, sinceramente, chi avrebbe voglia di ascoltare vari gradi di pessimismo quando fuori splende il sole o la prossima ora c’è il recupero di inglese che magari quest’anno non me lo porto a settembre?) e infine si corre, o meglio, si rincorrono i maestri dello slalom che unti come lottatori greci hanno sapientemente evitato per mesi interrogazioni e verifiche… ma gli ultimi giorni anche l’orario salta, e non si sfugge più.
Prof di qualunque materia: “Posso prenderti Pierino e Gigetto che li devo interrogare?” I due ti guardano con due occhi che Bambi in confronto sembra un serial killer, vedi nelle loro pupille passare le immagini di un’estate che si infrange sulle sudatissime carte e in un attimo devi decidere: “No, mi spiace, devo sentirli anch’io…” oppure “Sì certo” e mentre si allontanano senti un vago odore di crema abbronzante svanire dall’aria.
Insomma, gli ultimi, anzi, i penultimi giorni di scuola sono densi, lunghi, pesanti (e anche piuttosto sudaticci). Finché il montaliano miracolo si compie: il nulla. Non alle spalle, ma intorno a noi. Interrogazioni finite, programma finito… e di colpo si passa dal camminare nel miele fino alla vita a saltellare sulla luna. Leggeri: comunque sia andata. A questo punto gli ultimi giorni passano scendendo in giardino, guardando film, facendo giochi più o meno didattici di vario genere e, talvolta, anche facendo un breve bilancio dell’anno.

Oltre l’indagine statistica

Seduto sulla cattedra ripenso a un’indagine statistica capitata sottomano, in cui l’Istat ha registrato i sentimenti dei ragazzi delle superiori rispetto alla didattica a distanza.
Numeri significativi, ma voglio provare a trovare un riscontro… .
Secondo l’Istat il 67,7% dei ragazzi preferisce la didattica in presenza. Sembra tanto, ma non lo è! Vuol dire che su dieci ragazzi tre preferiscono seguire le lezioni da uno schermo… . Nella mia classe di venti alunni dovrebbero essere almeno cinque o sei a pensarla così.
Rilancio la domanda: solo uno preferisce la dad, e questo lo rende bersaglio di affermazioni poco carine da parte dei compagni. Approfondisco, e le argomentazioni non sono banali: nessuno che ti distrae, anche perché i compagni sono tutti “mutati” (non nel senso evolutivo ma in quanto costretti a tenere il microfono muto), non ci sono interruzioni, si può prendere appunti comodamente (e rispetto ai banchi a rotelle, in effetti…), non ci sono tempi morti di trasporto e si può iniziare subito a studiare. I contrari, vale a dire praticamente tutti gli altri, obiettano che a casa di distrazioni ce ne sono anche troppe (telefono, tv, play, frigorifero e dispensa) e che almeno in classe sono in qualche modo “costretti” a seguire.
Insomma, in dad la “responsabilità” di fare lezione è fondamentalmente lasciata a ciascuno, singolarmente, e reggere così sei, sette ore al giorno non è affatto facile. E poi la grande differenza è un’altra: il rapporto con gli altri. A scuola ci si va per imparare, e questo è abbastanza condiviso, ma non va sottovalutata la funzione “sociale”… ovviamente questa è una mia sintesi, i ragazzi preferiscono parlare di intervallo, di chiacchere, di calcetto, di tipe (o tipi) da incrociare nei corridoi, qualcuno si spinge a citare il rapporto con i professori ma questo sarà meglio approfondirlo dopo gli scrutini.
I ragazzi, tranne minime eccezioni, sono perfettamente consapevoli di aver imparato molto meno a distanza, e presi dall’onestà di fine anno ammettono che il problema non è il mezzo in sé quanto l’utilizzo (o il non utilizzo in questo caso) che ne hanno fatto. Ma in tutti emerge la mancanza di coinvolgimento, di empatia, insomma di tutta quella comunicazione non verbale che spesso dice molto di più di quanto si pensi.
Un altro punto della ricerca Istat riguarda i problemi di connessione, e qui rispondono a loro volta con una domanda che vale mille ricerche: “quelli veri o quelli dichiarati?”. Amen. E argomento chiuso.
Grazie alla Dad si sfugge molto più facilmente e l’essere consapevoli che quello che si insegna a scuola è per loro non regge. Mi viene in mente tutte quelle volte che, dopo settimane e mesi di insistenza, un alunno tirava fuori il libro dallo zaino e lo sventolava dicendo “prof l’ho portato solo per lei”. All’inizio mi arrabbiavo. “Come per me? E’ per te che devi portarlo, è a te che serve!” E invece hanno ragione loro, le cose si fanno per rendere felici gli altri: lo sguardo contento del prof ripaga della fatica di portare un peso in più, il resto è teoria.
In tutte le classi ripeto più o meno le stesse domande e anche le risposte non variano di molto. Non che la mia mini indagine possa mettere in discussione i dati Istat, ma alla fine i meriti che le lezioni a distanza possono vantare sono pochini, estranei alla didattica e neanche tanto nobili: ci si può alzare cinque minuti prima di collegarsi, non si perde tempo sui mezzi, si può mangiare in qualunque momento, si resta in pigiama (e a volte pure a letto), si può copiare più facilmente e così via.

In classe la questione ideologica non è questione

In un’altra classe il discorso prende una strana piega, si passa dall’incapacità dei docenti di utilizzare in maniera didatticamente efficace la dad a quella di non saper utilizzare il pc in quanto tale (e l’età media del corpo docente non aiuta di sicuro) per arrivare a “ciò che è utile” per gli alunni. Insegnando italiano e storia in un tecnico so già dove si andrà a parare, e infatti: “Scusi eh (perché educati sono educati, ci mancherebbe) ma cosa mi interessa di sapere Alessandro Magno quando andrò a lavorare?”
E’ un tema che ritorna costantemente: la scuola deve formare gli studenti per entrare nel mondo del lavoro in maniera efficiente ed efficace.
È quanto meno buffo che nella scuola pubblica italiana, da sempre culturalmente (e non solo) in mano alle ideologie di sinistra possa attecchire in maniera così florida e decisa la quintessenza del più becero pensiero capitalista.
Tu, caro alunno, vieni a scuola perché un domani dovrai essere un perfetto ingranaggio della macchina che prevede lavoro-guadagno-consumo. Tutto ciò che esula da questo è inutile e va eliminato, fatica sprecata. In classe però non se ne può fare una questione ideologica, anche perché in fondo loro sono le vere vittime di questo pensiero dominante.
“Quindi, secondo voi, a scuola bisognerebbe studiare solo le materie ‘utili’, che poi serviranno sul posto di lavoro” “Esatto” (e viene nuovamente tirato in ballo il povero Alessandro Magno, che in fondo ha fatto quello che ha fatto anche perché è stato istruito da un certo Aristotele e, tra le materie di insegnamento, rientravano anche la musica e la danza, ma sorvoliamo).
“Allora immagino che sarete tutti bravissimi in inglese, per esempio… ormai in qualunque colloquio viene richiesta la conoscenza dell’inglese, che è utilissimo” “…” . E in un attimo cade la teoria del “studio ciò che serve”.
“E poi, non sapendo che cosa andrete a fare come lavoro come potete escludere determinate materie?”
“Beh però alcune non servono proprio, storia e italiano a cosa servono?
A niente”. “Potrebbero servire per capire cosa dice un articolo di giornale, o un politico, o anche solo il tuo capo in ufficio… può servire per te, per sapere come sono nate e si sono diffuse certe idee, per evitare di ripetere certi errori”
Ci provo con sempre più convinzione, ma c’è qualcosa che sfugge; capiscono il mio punto di vista ma non li convinco.
Studiare letteratura serve per capire che non si è soli, che lo struggimento e la nostalgia che ti assale di fronte a un tramonto infuocato sono gli stessi che hanno provato altri prima di te, e li hanno descritti così bene che sanno esprimere i tuoi sentimenti e i tuoi pensieri meglio di come non faresti tu stesso. Che il cuore che accelera di fronte alla ragazzina dai capelli rossi ha un nome, che la bellezza ha uno scopo, che certe domande non passano come se fossero una malattia, anzi!”. Mentre parlo e passeggio in mezzo alla classe sento i loro occhi che mi seguono, questo non sarebbe mai successo se fossimo stati a distanza, così come colgo alcuni sguardi ancora poco convinti “ci sono ventiquattro ore in un giorno, giusto?” tanti volti basiti e qualche conferma “otto le passate a lavorare, ma le altre sedici no. Le altre sedici sono tempo vostro, la vostra vita, e io credo che questa sia importante tanto quanto il lavoro, se non di più. Studiate bene le materie che vi faranno lavorare con soddisfazione per un terzo della vostra giornata, ma non lasciate fuori il resto della vostra vita
Silenzio
Torno velocemente alla cattedra e faccio apparire sulla lim il testo di una poesia: “Ve la ricordate? L’abbiamo letta all’inizio dell’anno”
“E’ quella della barca in porto?”
“Esatto! Stare nelle nostre camerette, separati dal mondo da uno schermo, può anche farci sentire al sicuro, come una barca in porto, invece dobbiamo avere il coraggio di affrontare l’amore, il dolore, il fallimento e il successo e vivere. E per questo serve tutto, tutto! Il diritto, l’inglese, la matematica, ma anche l’italiano e la storia, perché se leggo la poesia di George Gray è più facile che mi renda conto di non aver alzato le vele, e so anche che così non finisce bene per niente: Dare un senso alla vita può condurre a follia, / ma una vita senza senso è la tortura / dell’inquietudine e del vano desiderio. / È una barca che anela al mare eppure lo teme.
Pensare a quel 26,7% che preferisce stagnare in porto è davvero terribile. Tra poco suonerà l’ultima campanella dell’anno e allora vedremo chi comincerà a spegnere lo schermo e alzare le vele…


Immagini:
© Lucia Laura Esposto – Triangoli prospettici
© Lucia Laura Esposto – Napoli, Maggio 2022 – Ritratti Itineranti – Giuseppe Polone, il Genio della Matematica
© Lucia Laura Esposto – Napoli, Maggio 2022 – Ritratti Itineranti – I Ragazzi del Santa Fede Liberata
© Lucia Laura Esposto – Napoli, Maggio 2022 Il fumatore
© Lucia Laura Esposto – Milano, 28 Aprile 2022 – Prospettive Metropolitane
© Lucia Laura Esposto – Prospettive Periferiche – Gaggiano, Naviglio Grande