Privatizzazioni: i miraggi e la realtà

Privatizzare e liberalizzare è giusto e doveroso. Così come garantire un quadro di regole e garanzie. Ma i problemi del bilancio pubblico si possono affrontare soprattutto con un attento controllo della spesa pubblica.
Analisi su un tema particolarmente scottante e per certi versi storicamente indigesto. Ora tornato d’attualità dopo le dichiarazioni del ministro Antonio Tajani in merito all’opportunità di reperire risorse con la privatizzazione dei porti. Intanto, il nostro debito pubblico galoppa velocemente verso i tremila miliardi di euro…


29 settembre 2023
Bilancio pubblico sbilanciato
di Gianfranco Fabi

L’equazione è altrettanto semplice quanto, come vedremo, illusoria. Se è vero che lo Stato ha un debito pubblico sempre meno sostenibile e nello stesso tempo possiede un grande patrimonio allora basterebbe vendere almeno in parte queste proprietà per risanare i conti e offrire nuovi spazi di manovra per le spese sociali.
L’ipotesi è ritornata d’attualità con le dichiarazioni del ministro degli Esteri, Antonio Tajani, sull’opportunità di trovare risorse attraverso la privatizzazione dei porti. Un’ipotesi contro cui si sono levate subito critiche e opposizioni, non tanto perché i porti siano di competenza di un altro ministero, quanto perché costituirebbero un asset strategico alla cui gestione lo Stato non può rinunciare.
Un asset strategico. La formula magica che ha condizionato e continua a condizionare una vera politica di privatizzazioni in Italia.
Una definizione dietro cui si è nascosta e continua a nascondersi quasi sempre la volontà dei partiti di mantenere il controllo di posizioni di potere all’interno del sistema economico: sia per ragioni encomiabili, come la possibilità di sostenere la crescita dell’economia, sia e forse soprattutto per motivi meno confessabili come l’occasione di occupare poltrone e strapuntini da assegnare agli “amici” in posti di relativo potere.

Lo spezzatino indigesto della Sme

Di privatizzazioni si è iniziato a parlare negli anni ’80, nel momento in cui le Partecipazioni statali avevano raggiunto il culmine della loro estensione.
Aerei, treni, navi, telefoni, autostrade, automobili, acciaio, supermercati, banche e assicurazioni, pasta e panettoni: non c’era praticamente settore in cui lo Stato non fosse presente.
Ma in gran parte le aziende controllate dallo Stato erano di fatto gestite dai partiti e dai sindacati preoccupati più di salvare l’occupazione e il consenso elettorale che di garantire una gestione economicamente corretta.
Era, per esempio, il caso della Lanerossi, salvata dal fallimento dall’Eni e infine ceduta alla Marzotto, che causò all’Italia una dura sanzione da parte dell’Europa per violazione del divieto di aiuti di Stato. Una vicenda che si ripresentò con l’Alfa Romeo, ceduta alla Fiat che fece di tutto per evitare che l’azienda milanese finesse alla Ford creando una fastidiosa concorrenza all’interno.
Particolarmente complessa si rilevò la vendita da parte dell’Iri della Sme, la finanziaria che controllava il settore alimentare, che si risolse con uno spezzatino dopo dieci anni di scontri politici e soprattutto giudiziari.
Il vero processo di privatizzazioni è iniziato tuttavia solo all’inizio degli anni ’90 con il “programma di riordino delle imprese pubbliche” varato dal Governo Amato sotto la spinta congiunta dell’Europa e delle difficoltà di bilancio.
Un programma, fortemente voluto anche da Nino Andreatta, che si è sviluppato parallelamente ad una profonda riforma del sistema bancario, un sistema che era stato definito una “foresta pietrificata” per i profondi e spesso perversi intrecci tra politica e credito.
Pur con incertezze e resistenze nel suo complesso la riforma bancaria, sostenuta e difesa soprattutto da una personalità al di sopra dei partiti come Carlo Azeglio Ciampi, ha avuto molti meriti.
Non solo ha avviato la privatizzazione delle grandi banche di interesse nazionale (Credit, Comit e Banco di Roma), ma ha anche sciolto i nodi delle Casse di risparmio mantenendo attraverso le Fondazioni gli storici legami con il territorio e liberando la gestione bancaria dalle nomine di natura politica.
A trent’anni di distanza il processo di privatizzazioni può essere giudicato positivamente pur con i molti passi falsi dovuti alle resistenze palesi ed occulte insieme a una strenua difesa degli interessi particolari.
Il debito pubblico ha potuto essere ridotto garantendo la partecipazione al Sistema monetario europeo. Il sistema bancario ha potuto ristrutturarsi e modernizzarsi. La quotazione in Borsa, pur mantenendo lo Stato una partecipazione di controllo come in Enel, Eni e Leonardo, ha permesso a queste realtà un confronto aperto sul mercato. Anche e soprattutto per la spinta dell’Europa si è avviato quel processo di liberalizzazione che ha reso più concreti i benefici della concorrenza e del mercato.
I passi falsi Telecom, Alitalia, Monte dei Paschi di Siena.
Certo restano i passi falsi. Quello di Telecom dove la privatizzazione ha aperto la strada alle acrobazie finanziarie di quelli che Massimo D’Alema aveva definiti i “capitani coraggiosi”: con il risultato di soffocare l’azienda sotto un debito da cui non si è più ripresa. Quello di Alitalia, dove gli stessi “capitani”, spinti questa volta da Silvio Berlusconi, hanno dovuto in fretta abbassare le ali e restituire l’azienda allo Stato. Quello del Monte dei Paschi di Siena, una banca per anni (mal)gestita con ambizioni di grandezza dai poteri forti collegati alla sinistra locale e nazionale.
Il lato positivo delle privatizzazioni è dato comunque dal fatto che si è avviato, anche qui sotto la spinta dell’Europa, un processo di liberalizzazione in molti campi come quelli dell’energia, della telefonia, delle linee aeree. Un processo che tuttavia si è arenato per la debolezza dei governi e la forza delle corporazioni come continua ad essere il caso per i taxi e le concessioni balneari.
Ma ci sono stati e rimangono parecchi lati negativi. È illusorio pensare che in Italia ci sia stato un vero confronto tra Stato e mercato. Lo Stato non c’era: ci sono stati per anni gli interessi politici e le spartizioni tra i partiti. E il mercato non c’era: hanno dominato i grandi gruppi desiderosi di conquistare facilmente posizioni di rendita come è stato il caso della cessione di Autostrade ai Benetton.

Stop allo Stato imprenditore

Ma allora torniamo alla domanda iniziale. È percorribile ora una nuova strada di privatizzazioni per intaccare la montagna di debito pubblico? La risposta è che privatizzare in un quadro di regole e garanzie non sarebbe male. Ma i benefici sul bilancio pubblico sarebbero del tutto marginali. In primo luogo, perché i proventi andrebbero destinati direttamente alla riduzione di un debito che si sta avvicinando ai 3mila miliardi di euro e non offrirebbero praticamente al Governo alcuna possibilità di maggiore spesa. Ammesso (e non concesso) che da nuove privatizzazioni si potessero ricavare alcuni miliardi l’effetto sul bilancio pubblico sarebbe costituito dai minori interessi che lo Stato sarebbe stato chiamato a pagare sul debito per poche migliaia di euro.
E poi gli spazi di manovra sono pochi. Come detto lo Stato direttamente con il Ministero dell’Economia, o indirettamente con la Cassa depositi e prestiti, possiede quote di controllo di grandi gruppi come Poste, Leonardo, Enel, Eni, Enav. Ma se vendesse quote significative perderebbe il controllo di queste società con il rischio di aprire la strada a nuovi sciagurati casi come quello di Telecom.
Resta a livello azionario la partecipazione del 64% nel Monte dei Paschi di Siena, partecipazione che lo Stato ha promesso di cedere, ma da cui sarà difficile ricavare qualcosa più di due miliardi dopo che per successive operazioni di salvataggio si è speso dieci volte tanto.
Tutto qua? Resterebbero gli immobili. Il patrimonio immobiliare è molto vasto, ma difficilmente alienabile con risultati economici significativi. Si tratta di vecchie caserme, stazioni ferroviarie dismesse, case cantoniere, terreni abbandonati, palazzi in rovina. La loro vendita darebbe un gettito molto limitato, ma almeno permetterebbe di risanare e rimettere sul mercato questi edifici.  
In conclusione. Non è più tempo dello Stato imprenditore anche se restano forti le tentazioni politiche di allungare le mani sulla gestione di enti e imprese. Privatizzare e liberalizzare è giusto e doveroso, così come garantire un quadro di regole e garanzie. Ma i problemi del bilancio pubblico si possono affrontare soprattutto con un attento controllo della spesa pubblica, per esempio affrontando con realismo e senza demagogia il tema delle pensioni, e aumentando le entrate con una seria lotta all’evasione fiscale. Ma non sembra che in questi mesi la politica si muova in queste direzioni.