Seamus Heaney: voce necessaria da ascoltare

Dieci anni moriva a Dublino il grande poeta irlandese, nel 1995 premio Nobel per la Letteratura. Un’esperienza poetica, la sua, tra le più significative e sorprendenti. Da recuperare per vivere l’incontro con un percorso personale, mai scontato, non di rado frastagliato, sempre grato al mistero della vita. Un cammino artistico baciato dalla grazia. Che interpella tutti noi.


29 settembre 2023
Versi come pietre miliari
di Gianfranco Lauretano

Seamus Heaney

Un’antica questione riguarda la poesia: il rapporto tra particolare e universale.
Come può un poeta, raccontando di sé, della sua esperienza individuale, scrivere qualcosa che riguarda tutti gli uomini?
Quella di Seamus Heaney si presenta in tal senso come una storia esemplare. Nato nel 1939 in Irlanda del Nord, vi passa l’infanzia e la giovinezza, compiendo tutto il percorso di formazione fino alla laurea presso l’Università di Belfast. L’anno del suo esordio come poeta col libro Morte di un naturalista, il 1966, è lo stesso in cui si riaccendono in Irlanda del Nord i contrasti tra protestanti e cattolici, fino agli agguati e ai primi morti, come racconta lo stesso Heaney in alcuni brani della raccolta Station Island. La pace che dura dalla guerra civile del 1922, sta per terminare e culminerà con la Bloody Sunday, la domenica insanguinata del 30 gennaio 1972, in cui un battaglione di paracadutisti inglesi, sparando sulla folla durante una manifestazione a Derry, colpirà quattordici persone a morte.
I “troubles” irlandesi proseguiranno fino agli anni Novanta: nel frattempo Heaney con la famiglia si trasferisce a Dublino e poi, sempre più spesso, in America, dove insegna ad Harvard; nel 1995 riceve il Premio Nobel per la letteratura. Si spegne a Dublino nel 2013.

Torbiera irlandese

I doni ricevuti

La poesia dell’autore irlandese entra ed esce continuamente dalla storia, dunque. Gli eventi sociali, legati al suo popolo, si intrecciano costantemente con la biografia personale e familiare.
Quando gli viene chiesto, nel 2009, di indicare due testi rappresentativi dell’intera sua opera, sceglie Metropolitana e Un sorso d’acqua: il primo racconta del suo viaggio di nozze, il secondo addirittura di una figura femminile legata a una memoria d’infanzia: “Veniva ogni mattina ad attingere acqua”, inizia questa poesia, che così termina: “A cui ho attinto per bere ancora, per essere/fedele all’ammonimento sull’orlo della sua tazza, /Ricordati del donatore, quasi del tutto sbiadito”.
Dunque una poesia che parte dall’idea di dono ricevuto, anche se si tratta di un ricordo “sbiadito”.
Il dono a cui fa riferimento tutta la poesia di Heaney è senz’altro quello della tradizione millenaria dell’Occidente. Assai celebri sono i suoi costanti riferimenti a Omero e Virgilio, Dante e Shakespeare, Joyce e giù giù fino addirittura a Pascoli.
È da questi che la sua poesia si fa condurre incessantemente. Le sue parole si intrecciano spesso con quelle dei grandi maestri, fino a certi testi, come Un aquilone per Aibhìn, che risultano essere in buona parte traduzioni fedeli, in questo caso dell’Aquilone di Pascoli stesso.
Potrebbe sembrare un’operazione letteraria, ma non lo è: essere poeta, per Heaney, è richiamare a sé un’appartenenza, addirittura familiare, una precisa filiazione. I poeti della tradizione sono grandi eventi che generano un volto: noi siamo quelli di Virgilio, Dante, Joyce… Avvenimenti di una storia da custodire e rilanciare, persino in mezzo a una guerra civile.
A ben pensare il nesso è ancora con Dante, il riferimento più frequente, tanto da dare forma stilistica precisa alla sua poesia: alcuni componimenti della serie forse più importante di tutta l’opera heaniana, Station Island, sono in terzine dantesche. Si tratta del Dante che, alla fine del Purgatorio, nel Paradiso terrestre, vede arrivare il carro trionfale e terribile della Storia dell’umanità e della Chiesa, su cui reincontra anche Beatrice: la storia personale e quella di tutto il mondo sono intimamente connesse, l’una non esiste senza l’altra: la storia della propria salvezza riguarda quella del mondo intero e viceversa. Questo rapporto di tipo unico, cifra risolutiva della civiltà occidentale, pulsa ininterrottamente nella poesia di Heaney, tanto da esserne consustanziata.

“Ora suona la tua nota”

La prima poesia dello scrittore irlandese si intitola Scavare: rievocando l’immagine del padre che scava le patate e del padre di suo padre, che “tagliava più torba in una giornata/di ogni altro nella torbiera di Toner”, si propone di emularli a modo suo: “Tra il mio pollice e l’indice riposa/la tozza penna./Scaverò con questa”.
È una poesia che inizia con un movimento di profondità, di scavo, verticale verso il fondo della tradizione della propria famiglia e della propria terra. Con lo stesso movimento incontrerà la sostanza della storia d’occidente, della sua letteratura ma anche delle guerre che ritornano in quelle presenti. Già da questi cenni si può prevedere la fase del suo percorso, divenuta celebre, in cui racconta il rinvenimento di antichi corpi nelle torbiere scandinave, a partire dalle scoperte archeologiche dell’uomo di Tollund: “Un giorno andrò ad Aarhus/per vedere la sua testa bruno-torba,/i morbidi baccelli delle palpebre,/il cappuccio di pelle appuntito”. Un’intera civiltà sembra riemergere dalle torbiere che l’avevano custodita, come un sentore di vittoria sulla morte. Si tratta di una metafora potente, a lungo indagata da Heaney in testi esemplari, come la poesia Regina della torbiera.

Seamus Heaney and Bono

Anche la fede cattolica e l’adesione alla tradizione religiosa d’Irlanda sono state attraversate e messe in discussione dal poeta, in relazione ai fatti storici della guerra civile. Molte volte i partiti politici (e terroristici) cattolici gli hanno chiesto di scrivere per loro, di scendere in campo come scrittore.
Alla maniera di Dante, Heaney ha preferito prendere parte per sé stesso, riesaminando anche la sua educazione e la sua storia. Station Island è un’isola lacustre su cui un monastero che ricorda la leggenda di San Patrizio il quale, in quel luogo, avrebbe trovato le porte del Purgatorio.
Il luogo è meta antica e tradizionale di pellegrinaggi molto popolari. Nell’opera omonima Heaney decide di percorrere lo stesso tragitto, ma all’inverso. Gli avviene dunque di incontrare, dantescamente, le anime dei morti in guerra, della famiglia, degli scrittori. Quando incontra Joyce, questi lo ammonisce: “E non esser così zelante,//così pronto al saio e alle ceneri./Lasciati andare, buttati, dimentica./Hai ascoltato abbastanza. Ora suona la tua nota”.
Heaney ha suonato la sua nota. Ha attraversato la sua storia, e nostra, rimettendo in discussione i suoi fondamenti, tentando addirittura di decostruirli, andandosene dalla sua terra d’origine, dove però la sua poesia tornava spesso.
“Ma nella maturità i miti del mondo classico, la Commedia di Dante e i miti di altre culture si sono incontrati e mescolati e hanno prodotto una cosmologia che corrispondeva sufficientemente bene a quella originale” afferma in una riflessione in cui parla del suo rapporto col cattolicesimo d’origine: “Il cattolicesimo offriva una lettura totalmente strutturata della condizione mortale che non sono mai davvero riuscito a decostruire”.
Forse questa fedeltà, nonostante tutti i tentativi di destrutturazione, gli ha consentito di pronunciare le ultime parole dal letto di morte, rivolte in latino, con un messaggio, alla moglie: “Noli timere”, non avere paura.

Seamus Heaney da giovane