Lavoro dignitoso
Siamo tutti convocati

Quello di Marco Bentivogli, già sindacalista di punta e fondatore della rete Base Italia, non è un semplice appello. È un appassionato giudizio etico, economico e sociale sul fatto che l’umanità non si può mettere in panchina. Se vogliamo costruire aziende e mercati a misura di persona, accettando senza paura la sfida di quella che Marco Biagi chiamava “modernizzazione”, partiti, sindacati e cittadini sono chiamati a giocare la partita della (nostra) vita.


8 aprile 2022
di Nicola Varcasia

Che senso ha parlare di lavoro oggi? Dove sono finite le correnti culturali che un tempo facevano da sostrato permanente ai cambiamenti? La tecnologia distruggerà più posti di quanti ne crea? Per rintracciare indizi di risposta a questi e altri quesiti, senza finire in preda a slogan novecenteschi o all’ansia da futuro, Marco Bentivogli, già segretario generale della Fim-Cisl e fondatore, nel 2021 della rete Base Italia, ci offre un giudizio netto sul presente: «Le politiche del lavoro degli ultimi anni non hanno funzionato: abbiamo un mercato che è il cuore della disuguaglianza. Bisogna ricostruire queste politiche non scrivendo un’altra riforma ma, anzitutto, rigenerando e assegnando un nuovo ruolo ai soggetti che si occupano di promozione e tutela del lavoro».

Senza rinunciare a qualche provocazione culturale: «Tutti partono ancora da Marx, in realtà bisognerebbe partire duemila anni prima o, se vogliamo rimanere all’epoca industriale, dal vescovo di Magonza Von Ketteler, che fu il primo a parlare di sfruttamento e ad opporsi al liberismo». L’idea è quella di “lavorare sul lavoro” senza smettere di pensare, intrecciando l’approfondimento dei temi più alti con il tentativo di risvegliare il desiderio – oggi un po’ ammaccato – di partecipazione popolare dopo gli anni disgreganti e illusori dell’uno vale uno.

La tecnologia ci cambia

Di fronte a un compito del genere, un robot non deve spaventarci, anzi. È vero che al World Economic Forum del 2018 è stato detto che la tecnologia avrebbe cancellato 75 milioni di posti di lavoro entro il 2025 ma, alla riga successiva – «bastava volerla leggere» – si aggiungeva che ne sarebbero nati altri 133 milioni: «La notizia non era che il lavoro stesse scomparendo, ma che quasi cento milioni di persone avrebbero cambiato professione in pochi anni». La fine del lavoro è la peggiore fake news in uso alle retoriche catastrofiste: «Affermare che il 10% delle persone lavorerà e il 90% vada sussidiata non è solo insostenibile economicamente, è una mostruosità dal punto di vista etico. Significa mettere l’umanità in panchina. Il vero strumento di acquisizione di cittadinanza, di partecipazione civile e democratica è il lavoro, che resta uno dei pochi elementi di mobilità sociale ancora in piedi». Il fatto è che le tecnologie non sono solo degli abilitatori fortissimi al cambiamento, spostano anche i significati e i paradigmi di tutte le cose con cui abbiamo a che fare ogni giorno: «In questo spostamento, paradossalmente, diventa ancora più centrale la possibilità di accettare la sfida della nostra centralità di esseri umani».

Gli architetti del lavoro

Questa riflessione è collegata a uno dei principi dell’Evangelii Gaudium, secondo cui il tempo è superiore allo spazio. Perciò, Bentivogli auspica l’arrivo dei nuovi «architetti del lavoro», che sappiano organizzare già oggi quello che accadrà domani, unendo le competenze attualmente richieste dal mercato ai tanti nuovi ingredienti che si presentano.

È evidente, ad esempio, che il lavoro, da un lato, si stia muovendo verso una separazione tra l’attività e il luogo dove viene svolta e, dall’altro, sarà retribuito sempre più come un progetto che si snoda lungo una traiettoria da azienda ad azienda. Quindi la classica paga oraria resterà solo per alcune mansioni e le persone godranno di maggior libertà e autonomia rispetto al come, quando e dove operare, con un’ampia responsabilizzazione e fiducia reciproca rispetto all’obiettivo da raggiungere: «I nuovi architetti del lavoro sono coloro che sapranno riscoprire questa realtà progettuale, fornendo elementi forti di cura e di accompagnamento di senso».

È altrettanto chiaro, che dopo la pandemia, quei 133 milioni di posti di lavoro non si spalmeranno in un’ottica equi distribuita, ma si creeranno dove emergerà una cultura capace di anticipare e rafforzare le competenze delle persone e di realizzare ecosistemi innovativi. Nei sempre più frequenti passaggi da un lavoro all’altro non sarà più sufficiente realizzare esodi volontari verso la pensione e sussidiare le aziende, bisognerà fare formazione di alta qualità agli adulti: «Il cosiddetto reskilling in Italia non ha mai funzionato, ma ora è una necessità di coesione sociale. Bisogna perciò cambiare il sistema di protezione per tutelare le persone nelle discontinuità e fare in modo che i periodi di vuoto siano “pieni” di rifornimento, competenze e motivazioni per poter ripartire più forti di prima».

Dove va la rappresentanza

Inevitabile chiedersi di chi siano le responsabilità di questi ritardi e come rispondere all’evidente necessità di ricostruire una rappresentanza più forte: «Il lavoro frammentato, pensiamo allo smart working ma non solo, necessita di strumenti organizzativi e contrattuali completamente nuovi da parte del sindacato che, nonostante tutti i problemi, resta l’unico soggetto di prossimità per i lavoratori». La politica dal canto suo è annoiata dalle questioni del lavoro: «Imita i media, occupandosene solo quando un lavoratore è disperato o morto. Ma bisogna rendersi conto che il crocevia delle tre grandi trasformazioni – digitale, ambientale, demografica – è proprio il lavoro, sebbene i piani nazionali di rilancio dei Paesi europei non siano fortissimi su questo versante».

Bentivogli osserva che, avendo i partiti perso le loro connotazioni tradizionali, occorre integrare le energie delle diverse espressioni politiche per riconfigurare il quadro politico: «Se la sinistra non è sinistra, la destra è in cerca d’autore e il centro non si sa più neanche che cosa sia, affrontare temi così decisivi diventa ancora più un problema. Bisogna usare questa fase per ridare più forza ai partiti, nel senso di una maggior rappresentatività, per poi poter affrontare anche la grande questione del lavoro». Il tempo batte di nuovo lo spazio anche in politica.

Visioni positive

Eppure, c’è un mondo che sta già andando da un’altra parte. Alcune ricerche spiegano chiaramente che il paradigma del controllo nato col fordismo nuoce alla produttività delle imprese, oltre che al benessere delle persone: «Oggi nessuno dei più grandi talenti che si affacciano sul mercato del lavoro accetta un impegno a orario e a luogo di lavoro rigidi. Le grandi imprese e la pubblica amministrazione rischiano di perdere questo tipo di flessibilità se non la accolgono».

Non solo, se il digitale cancella le mansioni rutinarie ma, contemporaneamente, esalta e accresce le mansioni a più alto ingaggio cognitivo, anche il tessuto comunitario dell’azienda deve essere favorevole. Bentivogli si richiama alle vaste riflessioni di Luigino Bruni e al contributo di Silvia Zanella ne Il futuro del lavoro è femmina su come la cura debba inserirsi nelle dinamiche organizzativo-culturali dell’impresa, coniugandosi con l’accresciuta esigenza di libertà e autonomia: «La nostra cultura d’impresa è iper maschile, iper gerarchica e caratterizzata dal linguaggio militare della nave. Ma le competenze, le caratteristiche organizzative e la modulazione gerarchica dovranno avere sempre più sembianze femminili. Bisogna avviare un lavoro complicatissimo, però insostituibile». A cominciare dalla creazione di luoghi concomitanti, che rispettino i tempi diversi dell’efficienza aziendale e della cura: «L’efficienza ha tempi rapidi, che devono restare tali. La cura, cioè la custodia dell’umanità nel lavoro, ha necessità di tempi più lenti, più attenti alle persone. Le nostre vulnerabilità, che sono state messe così a nudo dalla pandemia, devono essere contemplate nei piani industriali delle aziende come elementi di forza, di raccordo e di solidarietà».

Bentivogli parla esplicitamente di intelligenza sociale dell’impresa, ispirandosi alla corrente di pensiero personalista comunitaria di Maritain, Mounier e Olivetti: «Responsabilità d’impresa è anche portare con sé le persone nelle transizioni, accompagnarle, rafforzarle, curarne in qualche modo le fragilità. Nello sgretolamento dei legami sociali il lavoro non sta ancora rappresentando un elemento di cura e invece deve tornare ad esserlo». Travolti da quella che Galimberti chiama la logica economicista, abbiamo considerato il profitto come unico generatore di valori: «Ma non funziona più neanche a generare denaro, ammesso che abbia mai funzionato. Il nuovo lavoro è tutto cultura, rivoluzione di senso che va compresa anzitutto da chi ha ruoli di responsabilità. Esempi virtuosi ne esistono, sono tanti gli imprenditori che dicono: “Vado nel futuro, ma insieme alla mia gente”».

Mediocrazia e partecipazione

Gli imprenditori però non possono fare da soli, ecco perché Bentivogli è ripartito dalla “base”: «La mediocrazia, per dirla con Alain Deneault si è affermata a causa del crollo della partecipazione, per cui è fondamentale, se vogliamo bene al Paese, alla dimensione umana e alla vita, fare in modo che le persone ricostruiscano percorsi nuovi per tornare a dire la loro».

Così torneremo anche ad avere a gruppi dirigenti all’altezza: «La settimana dell’elezione del Capo dello Stato si è conclusa con un sospiro di sollievo, ma ha messo in evidenza un vuoto complessivo. Abbiamo capito che lasciare ai partiti la cloche del Paese è rischioso. Non lo dico con rivalsa, credo che sia un problema serio perché i partiti sono fondamentali. Il posizionamento politico non può riguardare il singolo personaggio, ma deve riguardare la condizione umana, le idee e i metodi anche molto diversi per raggiungere obiettivi che hanno comunque tratti comuni. Bisogna utilizzare questo periodo per integrare, senza ricorrere ad alchimie politiche o partitiche, mettendo insieme i partiti attuali con chi si è seduto in panchina rassegnato per quello che ha visto».

Riempire il vuoto

In definitiva, per Bentivogli, il lavoro dignitoso è un’opera fondamentale per la cura e il riscatto della persona, che ne fa risaltare la dimensione sociale e comunitaria: «In Italia abbiamo una partenza gigantesca con l’articolo 1 della Costituzione che ci parla del lavoro. La bellezza di questo slancio è dovuta alla capacità, che ci fu ed è sparita, di mettere insieme la cultura cattolico-popolare e democratica, quella socialista-riformista e quella liberal-democratica che, insieme, hanno fatto l’Europa, la Costituzione, lo statuto dei lavoratori, la riforma dell’agricoltura, della sanità e tutte le altre. Queste culture, da un lato sono sparite e, dall’altro, quando si riaffacciano sulla scena, non sanno più lavorare insieme».

Valorizzare la dimensione comunitaria del lavoro non è una «strategia dei perdenti, ma col cuore». Perché il cuore, insieme alla testa, serve a far funzionare meglio tutto. Cuore e testa non devono servire a “farci volare alto”, ma a farci riconoscere i tanti problemi da affrontare per attuare quella che Marco Biagi chiamava «“modernizzazione” non solo del diritto, ma della cultura e dell’idea stessa del lavoro», come ha ricordato lo stesso Bentivogli nell’articolo su La Repubblica dedicato ai vent’anni dal suo assassinio.

Il compito è quello di trovare soluzioni nuove per chi oggi lavora senza tutele, perché quelle classiche (cassa integrazione gratis, blocco dei licenziamenti e ristori), che solo sette o otto anni fa sarebbero state un muro invalicabile, nella pandemia non hanno impedito di generare un milione di disoccupati, oltre che la proliferazione di contratti non standard: «I grandi maestri del sindacato ci hanno insegnato che le tutele devono essere più forti e direttamente proporzionali alla fragilità della situazione contrattuale della persona. A noi continuare».