Stefano Zamagni: «Se vuoi la pace prepara la città»
“La pace? È possibile, ma deve essere costruita”. Lunga intervista con uno dei padri del Terzo settore, accademico, protagonista del dibattito sociale e culturale. Che lancia la proposta, condivisa da molto, di un dicastero che si adoperi per costruire e comunicare in concreto una cultura di pace. Perché, come c’è un ministero per la Difesa ci deve essere un ministero per la Pace. “E Paolo VI, con l’enciclica Populorum Progressio del 1967, aveva già capito tutto”
18 luglio 2025
Vera realpolitik
Stefano Zamagni intervista con Nicola Varcasia

Il dilemma della convivenza è servito. O siamo naturalmente amici. E quindi la pace si può costruire, malgrado il peccato originale ne ostacoli il cammino. Oppure siamo lupi a noi stessi. E quindi la guerra resta il solo modo per regolare i rapporti tra i popoli. Con la pace relegata a orizzonte immaginario degli “invocatori”.
Il professor Stefano Zamagni, docente universitario, tra i padri del Terzo settore italiano, protagonista del dibattito sociale e culturale, ha scelto da sempre di offrire ragioni e strumenti per la prima opzione. Soprattutto da quando la guerra è rientrata prepotentemente nel nostro alfabeto, politico e quotidiano.
Professor Zamagni, come si arriva alla proposta di un Ministero della pace?
Il punto di partenza della mia prospettiva di analisi, che non è solo mia, ovviamente, ma è condivisa da tanti, è che la pace è possibile, ma dev’essere costruita. Non viene giù dal cielo, a prescindere dalla volontà degli uomini.
Cosa vuol dire costruire la pace?
Significa creare quelle istituzioni di pace che riguardano il modo in cui le attività di popoli, comunità, Paesi e stati vengono svolte. La parola stessa istituzione significa regola del gioco. Quindi, occorre arrivare a definire, appunto, quelle regole del gioco – sociale, economico e finanziario – finalizzate alla pace.
Dove nasce questa impostazione?
Questa idea viene portata avanti esplicitamente per primo da Paolo VI, nella Populorum Progressio del 1967. Il sottotitolo dell’enciclica, che nessuno cita mai, è fondamentale: «Lo sviluppo è il nuovo nome della pace». Papa Montini lo aveva capito prima di tutti.
Cioè?
Se vuoi la pace, devi creare quelle istituzioni che servono a rendere possibile lo sviluppo. Non solo in una parte del mondo, come fino a tempi recenti si pensava, ma uno sviluppo globale che riguarda tutti i continenti. Anche le guerre oggi in atto sono legate a situazioni di sottosviluppo, per un motivo o per l’altro.
Come si confronta questa posizione con lo scenario neo-bellico di oggi?
Questa posizione contrasta, in effetti, con quella ancora oggi dominante di chi ritiene che il modo migliore di ottenere la pace sia quello di preparare la guerra.
Si vis pacem, ma para bellum…
Se vuoi la pace prepara la guerra, cioè prepara gli armamenti. È una tesi con radici molto antiche. Comincia addirittura con Eraclito, nell’antica Grecia, si radica nei romani. In epoca moderna passa da Macchiavelli e Hobbes, fino a tempi recenti. Ancora oggi in Italia sono tanti gli intellettuali e i politici che, con motivazioni diverse, la sostengono. La mia posizione, che non è solo mia, è che questa tesi sia oggettivamente sbagliata.

Dov’è l’errore?
Questa tesi è giustificata ricorrendo al principio di deterrenza. Se io mi armo, faccio paura ai potenziali aggressori e quindi li disincentivo dall’aggredirmi. Il problema è che questa logica funziona soltanto se i contendenti attuali o potenziali sono due, come si dimostra scientificamente con la teoria dei giochi.
Ma non è più questa la situazione degli ultimi 25 anni.
Qui sta il punto, quando i contendenti sono più di due la deterrenza non serve più a niente. Serve solo a sprecare soldi e a ingigantire i portafogli delle imprese che producono le armi. Prova ne è che, nel periodo della guerra fredda, la teoria ha funzionato proprio perché i contendenti erano due: la Nato e l’Unione Sovietica. Questa vicenda deve essere spiegata alla gente.
Che cosa bisogna fare?
Adottare l’altro approccio che afferma: si vis pacem para civitatem, se vuoi la pace prepara la città. Intesa in senso proprio, cioè del preparare istituzioni di pace. Questa è la posizione ufficiale della Chiesa cattolica. Ma anche di altre religioni ormai. Tutte le persone in buona fede, intelligenti, arrivano a capirlo.
Bisogna vincere l’inevitabile scetticismo di chi pensa che alla prova dei fatti prevarrà sempre la realpolitik.
Qui entriamo nell’agenda degli obiettivi e delle policy che si possono realizzare. Su questo terreno, ovviamente, c’è spazio per una diversità di vedute, però il principio da cui si parte è quello.
Che cosa propone?
A livello internazionale, bisogna anzitutto fermare le pratiche neocolonialiste. Il colonialismo è finito, certo, ma il neocolonialismo è più forte di quel che si possa pensare. Lo ha rilevato con un corposo studio la Pontificia Academia delle Scienze Sociali (presieduta da Zamagni dal 2019 al 2023, ndr) anche di recente.
Quali sono le pratiche neocolonialiste?
I paradisi fiscali (ne abbiamo anche in Europa) e l’accaparramento delle terre, in inglese land grab. Sono tutti potenziali focolai di guerra. Paesi come Cina, Stati Uniti e altri vanno in America Latina o in Africa stipulando contratti con i governi locali. In cambio di un modesto pagamento di affitto, ottengono la concessione di utilizzare per tanti anni i loro terreni per produrre grano, orzo, mais e quanto serve per alimentare le proprie popolazioni.
E le popolazioni locali rimangono senza cibo.
Con il paradosso che questi stessi Paesi, per sfamare la propria gente a livelli di base, sono costretti a importare quelle granaglie che servono alla sua popolazione, indebitandosi.

Il vecchio colonialismo era più “onesto”.
Certo, arrivava e imponeva le proprie regole. Oggi si fa finta di credere che questo non sia più ammissibile, però lo si pratica. Questo è uno scandalo che solo delle persone malvagie possono non mettere in evidenza.
Cos’altro bisogna cambiare nelle strutture sovranazionali?
Bisogna cambiare le regole di funzionamento degli organismi finanziari internazionali. A cominciare dai tre principali: Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale e Organizzazione Mondiale dei Commerci. Le regole che li muovono sono rimaste quelle ferme al 1944, quando venne disegnato il nuovo ordine economico internazionale alla fine della guerra. Ma, a quell’epoca, c’era ancora il colonialismo e quindi difendere l’Occidente significava dire difendere, di fatto, il mondo intero.
Oggi siamo nella post globalizzazione.
Il gruppo di una dozzina di Paesi che formano il cosiddetto Global South – il Sud globale – che include Cina, India, Brasile e Sudafrica nel loro insieme totalizzano più del 50% della popolazione mondiale e sono ormai delle potenze. Le regole fissate nel 1944 oggi non possono più valere, perché sono contestate dal Global South che si rifiuta di applicarle.
E si determina il fenomeno che Papa Francesco ha chiamato “usurocrazia”.
Il potere dell’usura. I Paesi poveri, soprattutto dell’Africa, si indebitano presso il Fondo Monetario Internazionale che applica il cosiddetto Surge Charge, il sovraprezzo nel caso di mancato rimborso. Di aumento in aumento, si arriva a tassi da usura legalizzata. Oggi, chi pratica l’usura sono le istituzioni pubbliche. Questo è un altro fatto che molti non conoscono.
Con quali conseguenze?
Questi Paesi, per pagare gli interessi sul debito, debbono tagliare risorse alla scuola, alla sanità e all’assistenza della propria gente in genere. A questo punto, le persone non possono fare altro che prendere la via dell’estero e fuggire. Poi ci lamentiamo che arrivano da noi, in Occidente.
E poi c’è l’Onu…
È assolutamente necessario cambiare l’organizzazione interna delle Nazioni Unite, con la regola del veto dei cinque Paesi che siedono in permanenza nel Consiglio di sicurezza. Lo vediamo con l’Ucraina, ogni volta che il Consiglio ha avanzato delle proposte per terminare la guerra, la Russia ha posto il veto e non si è potuto fare nulla. Ma è accettabile questo con il principio democratico?
Così arriviamo alla sua recente proposta di istituire un Ministero della Pace.
Anche i singoli Stati possono contribuire direttamente alla costruzione della pace. Non si capisce perché nei nostri Paesi occidentali, soprattutto europei, accanto al Ministero della Difesa, non si possa creare un Ministero della Pace.

Non sarebbe opposto al Ministero della Difesa?
È chiaro che un Ministero della Difesa ci vuole, perché ogni popolo, ogni Stato ha diritto a difendersi. Però, se crediamo davvero al “se vuoi la pace prepara le istituzioni di pace”, senza un Ministero dedicato non si otterrà mai un risultato apprezzabile in almeno tre direzioni.
Quali?
La prima è il coordinamento degli aiuti internazionali e di cooperazione allo sviluppo. Senza un raccordo tra le iniziative dei soggetti della società civile – volontariato, ONG, organizzazioni varie – che operano nei Paesi afflitti dalle guerre molte risorse vengono sciupate e si creano dei doppioni.
La seconda?
Agire sul piano propriamente culturale. Mi spiego con un esempio molto basilare. Se in un libro di storia delle scuole superiori si confrontano le pagine dedicate alla narrazione delle guerre con quelle dedicate alla pace, si vedrà una sproporzione enorme. Così si innesca quella che i neuroscienziati americani chiamano cronicizzazione del male. Per cui la guerra diventa un fatto cronico, a cui ci si rassegna come a una malattia incurabile che fa parte della condizione umana. Tutti ci si abituano, salvo rare eccezioni, ad esempio chi milita in associazioni o movimenti. Per questo occorre alimentare una contro-informazione a tutti i livelli.
Troppo facile obiettare che una scuola così verrebbe accusata di essere confessionale.
La Pacem in terris e la Populorum progressio sono documenti, come qualsiasi libro. Solo perché li ha scritti il Papa non bisogna dire che sono veri? È vero il contrario, anzi, qui emerge un grosso problema di recupero.
In che senso?
In Italia ci sono circa 80 università, ma una sola di queste, l’Università di Padova, ha istituito un dottorato di ricerca in studi della pace. Negli ultimi anni sono nati dei master, anche in altri atenei, alla stessa Cattolica, ma io parlo di dottorati.
Perché sono così importanti i dottorati?
È un messaggio che si manda ai giovani adulti, a chi insomma è già laureato e si affaccia alle scelte di vita professionale. A loro si può dire che, se lo desiderano, anziché studiare come si costruiscono le armi più potenti e i missili più veloci, possono studiare come si fa concretamente la pace. Un Ministero della Pace potrebbe chiamare i rettori delle più importanti università promuovendo questa libertà di scelta alle persone che vogliono dedicare le proprie energie a studiare le tecniche della pace, ottenendo un titolo riconosciuto.

Di cos’altro dovrebbe occuparsi un Ministero della Pace?
Dovrebbe istituire una scuola superiore di mediazione, che in Italia manca. I diplomatici sono preparati per gestire le emergenze nei conflitti, ma non per trattare il cessate il fuoco. Servono competenze economiche e giuridiche specifiche, per guidare le parti verso soluzioni, anche con nuove forme di accordi e contrattualistica internazionale.
Quella che lei indica è una prospettiva culturale e d’azione?
Nel Vangelo è scritto: “Beati i costruttori di pace”. Gesù non dice beati gli “invocatori” di pace. Non basta limitarsi a chiedere, come a volte fanno alcuni pacifisti. Dobbiamo fare controcultura e spiegare che la pace è possibile, però va costruita.
Lo afferma anche il Meeting di Rimini di quest’anno 2025.
Il Meeting rilancia un’idea forte: la pace si costruisce, anche nei luoghi deserti, con mattoni nuovi. A differenza della visione pessimista di Hobbes, si alimenta quella linea che comincia con Aristotele, passa per Sant’Agostino, per San Tommaso e arriva a noi contemporanei. Pensiamo ad Antonio Genovesi — economista e abate cattolico — che nel 1753 contro l’homo homini lupus ha affermato homo homini natura amicus: l’uomo è, per natura, amico dell’altro. Non si nega la possibilità del conflitto, ma si rifiuta l’autodistruzione. È un’antropologia positiva dell’uomo, che cerca di costruire la convivenza e il dialogo.