Tondelli scrittore
Mai al riparo dalla realtà

A trent’anni dalla morte un viaggio dentro le pagine delle sue opere. Dall’esordio che fece scandalo di “Altri libertini” al rischio del ritorno a casa di “Camere separate”. Un cammino esistenziale, senza facili concessioni, dove la ricerca della solitudine non è un atto di rinuncia alla vita.

a cura di Enzo Manes

«Se vivere senza cercare di conoscere la propria natura è un accecamento soprannaturale, vivere male, pur credendo in Dio è un accecamento terribile»

Blaise Pascal

19 febbraio 2022

Quando è morto, il 16 dicembre 1991, lo scrittore Pier Vittorio Tondelli aveva 36 anni. Ne sono trascorsi appena più di trenta, tempo sufficiente ad annebbiare il ricordo di questo “viaggiatore solitario” come il critico letterario Fulvio Panzeri (profondo conoscitore anche del lavoro di Giovanni Testori) – erede testamentario dell’opera di Tondelli – ha intitolato la raccolta di sue interviste e conversazioni (un’ottantina fra 1980 – 1991 alle più diverse testate, da Amica a Lotta continua alla francese Liberation, per intenderci) curata per i tipi Bompiani, ultimo dono che ci ha fatto prima di morire dopo una breve e fulminante malattia. La lettura di quel testo prezioso, assemblato con intelligenza e discrezione dice quanto sarebbe un’occasione mancata cedere all’annebbiamento. Ed esperienza conveniente, invece, per tornare o scoprire gli scritti dell’autore emiliano, nato a Correggio, provincia di Reggio Emilia, nel 1955.

Un viaggio esistenziale

Tondelli è stato uno scrittore, anche quando firmava per quotidiani e periodici reportage, commenti, articoli musicali. Anche quando si lasciava generosamente intervistare. Gli aggettivi a supporto della parola scrittore non li amava. Come si teneva distante dalla semplificazione propria del ricorso asfissiante alle etichette: scrittore omosessuale, scrittore cattolico, scrittore generazionale, il Bukowski emiliano e via banalizzando o confinando per questo o quello scopo.   

Ha viaggiato molto. Ascoltato. Guardato. Appuntato. Una curiosità quasi febbrile, la sua. E allora ecco che quei viaggi nella vicina riviera romagnola come nel Nord Europa, non erano intervalli dalla scrittura ma, in un certo senso, già fasi di scrittura. Per Tondelli scrivere è stata una grande avventura di viaggio esistenziale. Una letteratura sentimentale (poco gradita a certe élite), di più affettiva (dotata di memoria e quindi di azione, movimento). Un andare e venire (venire che era un nuovo andare) sincero seppur la letteratura chiami a giocare con gli elementi espressivi della finzione.

La letteratura di Tondelli ha il colore della musica. Quello che lui chiama il sound. Ritmi diversi nei suoi quattro lavori che qui affrontiamo; da “Altri libertini” a “Pao Pao”, transitando per “Rimini” fino alla prova di “Camere Separate”. Ha spiegato così: «Certamente Altri libertini e Pao Pao si rifacevano alla musica rock. Rimini poi è stato il tentativo di costruire il libro come una partitura sinfonica. Anche in Camere separate c’è un tentativo di orchestrazione sinfonica in tre movimenti (che sostituiscono lo spazio angusto e soffocante dei capitoli), il riferimento però è alla musica ambientale o minimale di Brian Eno e altri. Quella musica in cui note girano, girano una sull’altra e sembra che non cambi mai niente, non avanzi niente e poi, invece, ti accorgi che quella musica è ancor più scavante di altre e più ricca di immagini». (Bonus track in Camere separate)».

Quale ristoro

Nel 1980 esce con “Altri libertini”. Tondelli ha 25 anni. È un libro di carne e sangue. Estremo, aspro, anche violento. Lo connota un linguaggio molto forte con l’ossessione della lingua parlata e perciò anche gergale, acida, anche fumettistica (lui amava i fumetti). Bar dolenti. La stazione. La via Emilia. Le autostrade. L’autostop. Sentimenti confusi. Notti che scottano e fanno male. Dialoghi corrosivi, disperati, ansimanti, abissali, ma anche irriducibili.  Al Resto del Carlino (noi leggiamo dal sopra citato lavoro di Panzeri) l’autore racconta che gli altri libertini sono «gente in cerca di identità, di felicità, gente che si gioca il tutto per tutto… Amori, esperienze, quotidiane, sbragature, speranze di giovani fin troppo allo sbando, sempre disposti ad andare fino in fondo». Libro generazionale, certo. Affettuoso, non complice. Senza sottolineature sociologiche e j’accuse sorretti da slogan. Privo di riscontri autobiografici se non per il riferimento a luoghi e alla “missione” del viaggio. Risente solo un poco dell’alone creativo del movimento del ’77 che Tondelli partecipò con la sua solitudine e dunque molto di lato. Cortei pochi a Bologna dove frequentò l’università, letture (Gadda, Arbasino, Celati, Celine, Flannery O’ Connor e certi americani) e musica a volontà. Il libro sono sei racconti scritti in presa diretta. Non separati, però. La tensione, l’abbozzato desiderio di un tutto li tiene attaccati. L’avvio di Postoristoro, il primo “scandaloso” racconto, definisce la cifra stilistica di un sound all’attacco nel rendere e restituire quadri di desolazione: «Sono giorni ormai che piove e fa freddo e la burrasca ghiacciata costringe le notti ai tavoli del Posto Ristoro, luce sciatta e livida, neon ammuffiti, odore di ferrovia, polvere gialla rossiccia che si deposita lenta sui vetri, sugli sgabelli e nell’aria di svacco pubblico che respiriamo annoiati, maledetto inverno, davvero maledette notti alla stazione, chiacchiere e giochi di carte e il bicchiere colmo davanti, gli amici scoppiati pensano si scioglie così dicembre, basta una bottiglia sempre piena, finché dura il fumo». Gli altri libertini non sono mai al loro posto. Perché non l’hanno ancora trovato. Perché non hanno ancora capito dove si trova. Ma nell’incoscienza ostentata sanno comunque che da qualche parte c’è. La loro esplosività hard, sopra le righe, eruttiva, è un’aggressione alla realtà. E la realtà non si scansa, non si fa travolgere, presenta il conto. Ma non lo chiude. Pathos e pietà convivono in quelle storie. Nessun sperimentalismo, assicura Tondelli. Nessuna maledizione. Come scrive Antonio Spadaro nel saggio “Lontano dentro se stessi l’attesa di salvezza in Pier Vittorio Tondelli” (Jaca Book, 2002), «Tondelli ha cantato in Altri libertini l’epopea dei vinti che si crogiolano nella malinconia e si inebriano di dolcezze struggenti».

Non solo abbandoni

Due anni dopo è la volta di “Pao Pao” (Pao è l’acronimo di Picchetto Armato Ordinario, esperienza della naja obbligatoria). A differenza della prima prova, qui l’aspetto autobiografico è determinante. Più scanzonato di “Altri libertini”, anche divertente. Vicende di caserma con le temibili giornate a Orvietnam. Gli spazi di libertà da conquistare. Anche qui molta musica, alcol, fumo, e trasgressioni. Sesso, desiderio, conversazioni. La forma è ancora quella del linguaggio fortemente parlato. In questo vi è il legame con il lavoro precedente. La ricerca di senso si avverte seppur l’aspetto goliardico talvolta prende il sopravvento. E nei soldati c’è quasi paura a voler guardare al poi, alla fine dei 12 mesi sotto le armi. Quasi a voler rimandare quell’appuntamento con il diventare adulti. Ecco un passaggio. Libera uscita, svaccati al parco gli amici commilitoni. La voce narrante ci fa vedere la scena: «rollare canne su canne senza pensare al dopo, senza mai per un attimo accorgerci che quello era già un passato e un rito, un festeggiamento anticipato del tempo che ci avrebbe distaccati e di nuovo gettati ognuno nella propria storia separata, ma io lo sapevo, lo sapevo maledizione che era già tutto finito ma fingevo, non avevo via di scampo, mi dicevo sto bene, sono felice». Nello stare insieme in quel modo sgangherato e fumoso si certifica l’esigenza di stare insieme, di fare gruppo, di dirsi o non dirsi pensieri ritmati. Quel prato è un territorio affettivo, non è la pratica dell’abbandono. Non sono i giovani sdraiati sul divano di Michele Serra. Sono dubbiosi in libera uscita che avvertono il peso delle domande che bruciano: domani è un altro giorno, si vedrà. Ma la vita non si può congelare. E loro, talvolta, fingono di non saperlo.

Penultima spiaggia

Con “Rimini” (1985) Tondelli cambia musica. È un romanzo che si allontana dalle precedenti prove. Si abbandona la scena generazionale, la letteratura coetanea del linguaggio parlato per offrire al lettore un testo a struttura polifonica. Tutto si compie nel cuore della riviera adriatica. Nella stagione estiva degli anni ottanta. Per Tondelli “Rimini” è la nostra Hollywood, la nostra Nashville. Echi di un’America che conosce e ha letto. Tutte le storie e sono sei storie portano a quelle spiagge, a quel palcoscenico del divertimento a buon mercato. C’è un giallo da risolvere e il detective è un giornalista ambizioso che vuole arrivare in alto; c’è la via crucis esistenziale di uno scrittore di successo in inimicizia prima di tutto con se stesso; c’è il sogno di due ragazzi che mille ne pensano per arrivare a realizzare il loro primo film; c’è un sassofonista che vorrebbe di più e pensa di aver trovato l’amore quello vero; c’è una storia di pensione familiare (Rimini è il laboratorio per eccellenza delle pensioncine familiari) e ancora di una bella e disinvolta giornalista locale che in testa ha un progetto di riuscita piuttosto chiaro; una matura signora tedesca in cerca della sorella ma soprattutto di sé. E poi ci sono le discoteche, immancabili; l’Italia in miniatura, l’entroterra riminese, i ristoranti per turisti e le trattorie dove ancora trovi la pasta fatta in casa. Le sei storie solo in apparenza viaggiano ciascuna per proprio conto. Si intrecciano. Si allontanano e si ritrovano. La Rimini di Tondelli non può essere il classico posto al sole. Quella stagione estiva è densa di nubi, anche di apocalissi annunciate (purificatrici?). Vi è spietatezza, ma sotto la sabbia anche altro. Non tutto finisce in sconfitta. Specie è una storia a non insabbiarsi e inabissarsi. Alcuni dialoghi sono pertugi dove passa qualcosa di altro. Anche un’intensità religiosa qui esplicita e non trattenuta o urlata come bestemmia nei due sound precedenti. Con l’uscita di questo libro la critica si interroga se il Tondelli più convincente sia quello del racconto o del romanzo. Per Antonio Spadaro e Giovanni Raboni lo è quando si cimenta con il testo breve. Più il rock della polifonia. In “Altri libertini” la novità del linguaggio scelto e lo sprofondo e la profondità delle storie hanno un travolgente impatto rispetto ai canoni della letteratura più convenzionale. Tuttavia, l’architettura complessa e ambiziosa di “Rimini” non impedisce una lettura coinvolgente. E un’attenzione continua ai personaggi e ai loro travagli. Un romanzo notturno dove la luce è fioca anche dove i neon fanno il proprio mestiere. In quel microcosmo, in quello spaccato del Belpaese, si consuma la rappresentazione dell’Italia della prima metà degli anni ottanta. Questo ha inteso fare Tondelli. Con questa fotografia pop si è misurato. Con la febbre di successo che tenta tutti e nel libro viene raccontata attraverso rimandi alle atmosfere di Chandler e Fitzgerald, tra il drammatico e il grottesco, segnata su volti e tracciata in vicende precise. E senza via di scampo per quanto si possa o si voglia chiudere la faccenda.

Abbandonarsi alla rinascita

La vicenda dell’ultimo suo romanzo, “Camere separate” (1989), è ancora un viaggio. Un percorso di ritorno alla vita.  Leo, il protagonista, giovane scrittore poco più che trentenne lacerato dalla morte del suo compagno Thomas musicista di talento, è un po’ Tondelli – cioè il romanzo ha richiami autobiografici – ma appunto un po’. Tondelli, come confessato in un dialogo, si ritiene meno cupo, più divertente di chi porta sulla pagina. «Allora sento che è forse ora di tornare alla vita, è ora di riconoscere le risposte di morte per quello che realmente sono e quelle di vita per quanto di bene possano portargli». Siamo, per certi versi, distanti dagli umori, dai rumori, dallo sgommare e sferragliare di “Altri libertini”.  La bestemmia si è come sciolta. L’esperienza del dolore percuote ma non sfinisce. Leo scopre l’abbozzo di verità dell’essere uomo. E nella scoperta conquistata e non subita si ritrova, recupera, si avvia. La memoria gli è complice nel non evadere la responsabilità di misurarsi con i fatti che lo investono. È solo Leo/Tondelli. Ma è una solitudine che lo pacifica. Il suo non è un abbandonarsi alla solitudine che spegne. Non è una resa alla solitudine che chiude la porta. Parleremmo di una solitudine di ricerca. Senza concessioni al mitologico, alla semplicistica risoluzione. Non vi è scappatoia, neppure l’arte può essere motivo di fuga consolatoria. La realtà brucia. E in questo, seppur dentro l’orizzonte di una sopraggiunta maturità, ecco che gli altri libertini avanzano di nuovo e Tondelli li riaccoglie come parte di un qualcosa che gli appartiene, che non può essere finzione seppur è letteratura. Antonio Spadaro scrive, infatti, che “Camere separate” e “Altri libertini” «sono, in certo senso, le due parti di uno stesso libro».

In “Camere separate” Leo viaggia molto: Parigi, Berlino, Barcellona. Ma anche il Canada che ricorda Kerouac. Un viaggio fisico, il suo. Un viaggio dentro sé stesso per misurare il significato del dolore prodotto dalla morte del suo compagno. E, a proposito di ritorni, vi è una tappa nella sua terra d’origine, bassa padana, Correggio. Così in pagina: «Leo cammina solitario lungo i portici del paese. […] lui preferisce passeggiare di notte, quando sa che non incontrerà nessuno, solamente qualche amico, in birreria, di ritorno da una balera. In questi momenti, nel silenzio, con le luci spioventi dei lampioni che squarciano come ombrelli di luce l’oscurità del corso, con le grandi arcate dei portici, con le pietre di marmo lucido che sembrano corridoi di specchi, con i campanili e le torri illuminati dai fari arancioni, il paese gli appare, in modo commovente, come la scenografia di una solenne Natività che lui ha conosciuto e vissuto insieme agli altri».

Nell’espressione «vissuto insieme agli altri» affiora, forse trepidante, la commozione verso un’esperienza di autenticità. Nella via crucis personale, già resurrezionata come direbbe Testori, Leo/Tondelli avverte, nella sua solitudine così fortemente cercata, il soffio di un’intrusione, di una memoria ritornata. Le radici gli sono rimaste dentro. Adesso ritornate. Rinate. Finalmente. Ecco la sua natività. Ecco la Natività.

Anche i cani hanno un Dio

Tondelli è uomo religioso. Poco o per nulla convenzionale. Lo è sempre stato, anche nei momenti di furore. In “Rimini” fa dire a un suo personaggio: «Io non posso amare la religione del cilicio e della pena. Io vorrei amare la religione della pienezza. Vorrei essere felice nella mia religione, perché la sto sentendo come un bisogno biologico, come mangiare, come bere, come fare l’amore. Ma voi sembrate non capire questo. Io cerco di parlare con sincerità, ma voi negate la mia stessa esistenza. Eppure per quello che lei o io ne possiamo sapere, anche i cani hanno un Dio». In “Camere separate” il lettore ne ricava più conferme. Nel 1996 Antonio Spadaro ebbe accesso alla biblioteca privata di Tondelli autorizzato dalla famiglia e da Fulvio Panzeri, in qualità di curatore dell’opera dello scrittore. Ebbene, in quelle occasioni di studio, l’attuale direttore di Civiltà cattolica rinvenne appunti e sottolineature di Tondelli vergati a matita su alcune pagine de “La traduzione della prima lettera ai Corinti” di Giovanni Testori (sul suo comodino venne trovato In Exitu, a riprova dell’interesse verso il grande lombardo). Probabilmente uno degli ultimi libri letti prima di morire. O, addirittura, l’ultimo. Tra le altre sottolineature di san Paolo: «È necessario/ che l’essere corruttibile/si vesta di incorruttibilità/e il mortale di immortalità./ […] Morte,/il tuo trionfo,/ allora,/ che sarà?». 

Non è riduttivo o improprio tentare di dire che tutta la vita di Tondelli altro non è stata che una preghiera ininterrotta di sincerità.


Immagini
1. Paolo Simonazzi / ViaEmiliaWest- Rimini, 2001
2. ViaEmiliaWest / Cogruzzo di Castelnovo di Sotto (RE), 2006
3. Paolo Simonazzi / Via EmiliaWest – Campegine (RE),1996
4. Paolo Simonazzi / ViaEmiliaWest_095 JPGM – Gavassa (Reggio Emilia), 1998