Giovedì 20 febbraio 2020 – ore 20,45
Auditorium del Centro Culturale di Milano
Largo Corsia dei Servi, 4 Milano
Giorgio Caproni (1912 – 1990) nel 30° anniversario della sua morte
L’opera Giancarlo Pontiggia, poeta
La testimonianza aurizio Cucchi, poeta
La lettura Tommaso Di Dio, poeta
Coordina Francesco Napoli, editor
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Una serata per scoprire (e riscoprire) Giorgio Caproni, uno dei più grandi poeti italiani, nel trentesimo anniversario della morte (Livorno 7 gennaio 1912 – Roma 22 gennaio 1990). Tre poeti di diverse generazioni ci offriranno uno racconto critico, i tratti umani del maestro elementare, l’amicizia personale, le relazioni letterarie. Insomma una testimonianza e lettura poetica, confrontando anche i propri versi.
Come scheda su Caproni proponiamo di seguito un brano dell’articolo di Davide Rondoni sul mensile Tracce del 2015. Riportiamo qui un approfondimento del CMC del 2012 https://www.centroculturaledimilano.it/wp-content/uploads/2012/02/120209-Giorgio-Caproni.pdf
“Giorgio Caproni è unanimemente considerato uno dei maggiori poeti del Novecento italiano. Nato nel 1912 a Livorno e morto a Roma nel 1990, è stato insieme a Luzi e a Bertolucci la voce più originale della poesia italiana che ha iniziato a esprimersi negli anni ’30 fino a dare le sue più recenti e convincenti prove negli ultimi anni del secolo. Fin dai suoi primi libretti, Come un’allegoria (1936) e Ballo a Fontanigorda (1938), la voce di Caproni ha unito la tensione musaica e l’essenzialità della visione e del pensiero.
I luoghi (Livorno, Genova, poi Roma), le donne, la guerra, sono per Caproni i momenti, le occasioni di una continua apertura della sensibilità e della perlustrazione. Non a caso, dopo la fase centrale, matura, della sua opera (Il seme del piangere, 1959; Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee, 1965), egli arriva, fin da Il muro della terra (1975), a un’esperienza della poesia segnata dalla metafora della ricerca, della caccia. I suoi testi, che si muovono tra musicalità apparentemente facili, ricalchi stilnovisti, uso di rime segnate e forti, consegnano al lettore una mappa dell’umana esperienza, sempre indagata alla luce del senso del destino: grandiose, ad esempio, quelle dedicate alla madre, colta come ragazza, quasi fidanzata del poeta, così come di elevata tensione formale e gnoseologica tutte le raccolte finali, Il franco cacciatore (1982) e Il conte di Kevenhüller (1986) e, postuma, Res amissa. La qualità essenziale della poesia caproniana, in ogni sua fase, è la libertà formale, una libertà nutrita da un grande senso delle forme tradizionali della lirica italiana e dalla coscienza che ogni forma poetica è l’impronta di una tensione conoscitiva. Non solo a livello dei titoli delle opere ci sono frequenti ricorsi a Dante, al suo viaggio. Specialmente nell’ultima parte della sua opera, con una radicalità non facilmente reperibile in altri poeti, troppo spesso rimasti al di qua di una immagine rassicurante e consolatoria della poesia, Caproni ha accordato grazie al suo finissimo orecchio (era anche violinista) i movimenti della sua voce a quelli di uno spirito inquieto, cosciente di trovarsi in una condizione paradossale. Quella, appunto, di uno che abbia la vita segnata da una res amissa, un bene perduto, o forse solo nascosto, da cacciare come preda. Che tale oggetto della ricerca sia, di volta in volta o anche allo stesso tempo, l’io e Dio è la prova della lucida immanenza di Caproni entro le vere grandi questioni del nostro tempo. La sua professione di ateismo, dura e quasi scontrosa, è la chiave paradossale per intendere senza fraintendimenti la chiave religiosa della sua poesia. E per ascoltarla, al pari delle altre grandi voci del nostro patrimonio di poesia (Ungaretti, Montale, Luzi), come suggerimento inesausto di verità del vivere.”
di Davide Rondoni
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